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Scripta Mediaevalia

Print version ISSN 1851-8753On-line version ISSN 2362-4868

Scripta Mediaevalia vol.9 no.2 Mendoza Dec. 2016

 

ARTÍCULOS

Identità personale, bene comune e responsabilità personale: alcune riflessioni a partire dal confessionale scotista

Personal Identity, Common Good and Personal Responsibility: Several Considerations Arising from the Scotistic Confessional

 

Matteo Scozia

Matteo Scozia is a PhD candidate in Medieval Philosophy at the Pontifical University Antonianum (Rome), Visitng Student at the Pontifical Institute of Mediaeval Studies (Toronto), and Honorary Fellow in Ancient and Medieval Philosophy at the University of Calabria (Cosenza). mt.scozia@gmail.com

Recibido: 30 de mayo de 2015
Aceptado para su publicación: 30 de junio de 2015


Resumen

En este artículo voy a presentar la posición de Escoto sobre el sacramento de la confesión y estudiar los conceptos filosóficos de la identidad personal, el bien común y la responsabilidad personal, que son importantes para la ontología y la filosofía práctica de Escoto. El tema principal es el secreto confesional, lo cual es necesario para salvaguardar el bien común. Una lectura analítica pondrá de relieve la innovación de Escoto en el análisis de un tema discutido ampliamente en la Escolástica.

Palabras clave: Juan Duns Escoto; identidad personal; bien común; responsabilidad personal; confesión.

Abstract

In this article I analyze some Scotus’ texts about the sacrament of confession which allow to understand his position on personal identity, common good and personal responsibility. These concepts are relevant for the ontological and ethical problems. Therefore, using an analytical approach, I will explain the connection between confessional secret and common good, and I will try to present the Scotistic innovation in the analysis of this problem, which was very popular in the Scholastic.

Keywords: John Duns Scotus; common good; personal identity; social responsibility; confession.


 

Sommario:

1. Introduzione
2. Una ricognizione testuale
3. Sull’identità personale
4. Il bene comune
5. La responsabilità personale
6. Una conclusione

1. Introduzione

Nelle questioni che vanno dalla XVII alla XXI del IV libro dell’Ordinatio scotista, è possibile trovare le riflessioni del Doctor Subtilis circa il sacramento della confessione. La peculiarità delle analisi scotista risiede nel fatto che propone una chiave di lettura innovativa per argomentare razionalmente sulla validità e sulla rilevanza sociale e spirituale del sacramento stesso, ovvero la speculazione teologica non resta meramente tale, ma si proietta in una dimensione pratica.1
Ci tengo a precisare come l’obiettivo del presente articolo non è quello di fare una ricostruzione degli elementi teorici alla base della validità normativa della confessione,2 ma -assodata la necessità che Scoto conferisce al sacramento specifico in accordo con la dottrina della Chiesa- provare a presentare i passi dell’Ordinatio, nei quali emerge la rilevanza sociale della confessione. Nello specifico, il ruolo che il sacramento della riconciliazione ricopre nella società si può individuare in un aspetto specifico: il segreto. Le riflessioni sul mantenimento del segreto confessionale (Utrum confessor in quocumque casu teneatur celare peccatum in confessione sibi detectum),3 sono l’occasione per Scoto di presentare tre temi filosofici collocabili in quella che potremmo definire ontologia sociale: identità personale, bene comune e responsabilità personale. Questi tre argomenti sono la base teorica per assumere, secondo Scoto, una posizione pronunciata in difesa del mantenimento assoluto del segreto confessionale.
Come si vedrà dal ragionamento che segue, il mantenimento del segreto confessionale è direttamente collegato alla salvaguardia del bene comune; questo, ancora, chiama in causa la responsabilità individuale di ogni singolo membro della società che -attraverso un discorso ontologico sull’identità personale dell’individuo nel reale- è tenuto come parte di un Tutto (la società) a contribuire almantenimento del bene comune.

2. Una ricognizione testuale

Avviando il ragionamento sulla necessità di mantenere il segreto, Scoto evoca una serie di autorità -contrarie e favorevoli al mantenimento del segreto confessionale in quocumque casu- che fanno da sfondo per le riflessioni specifiche che intende sviluppare nel corso della questione.
In particolare, presentando i ragionamenti contrari all’assoluto mantenimento del segreto, per prima cosa Scoto individua in una legittimità individuale del penitente, la possibilità di dispensare o meno il confessore dal mantenimento del segreto.4
Secondo questa argomentazione sembrerebbe esservi l’idea che il penitente ha la titolarità giuridica per dispensare o meno il confessore dal mantenimento del segreto.5 In questo senso, sembra che il ruolo principale nel mantenimento del segreto sia rappresentato dal singolo penitente, ovvero che la questione del segreto non ha una portata generale -concernente la totalità della comunità- ma ha un forte valenza individuale, cioè l’obbligo sacerdotale al mantenimento o meno del segreto è a discrezione del singolo penitente e riguarda la singola esistenza individuale.
Ancora, un’ulteriore conferma del fatto che la confessione e il segreto sono rilevanti nella misura in cui riguardano direttamente la singola persona viene fornita da Scoto evocando Bernardo da Chiaravalle, che aveva sostenuto la possibilità di rompere il segreto confessionale «quandocumque peccatum confessum esset contra bonum commune, utpote crimen haeresis vel prodito reipublicae, et maxime si ex confessione perciperetur istud non tantum esse factum, sed faciendum, videtur contra caritatem esse contenere bonum commune propter bonum aliquod personae privatae».6 Il bene comune, inteso da Bernardo come la salvaguardia della totalità della comunità da fattispecie di reato che sono state commesse (con particolare attenzione all’eresia), è più importante del rispetto del segreto confessionale individuale. Ancora, per Bernardo, il singolo delitto di cui si viene a conoscenza nel foro confessionale necessita di essere accusato pubblicamente, in quanto può essere nocivo per la comunità.7 Pertanto, anche in questo caso sembra emergere che la singolarità individuale ricopre una forte influenza sulla totalità, che risulta essere dipendente dalle singolarità stesse per quanto concerne la propria salvaguardia.
Rispetto ai due ragionamenti suddetti, l’autorità del diritto canonico vincola la posizione scotista all’interno delle argomentazioni razionali a favore del mantenimento assoluto del segreto, in quanto afferma chiaramente che «si peccatum sibi detectum praesumpserit revelare, non solum a sacerdotali officio decrevimus deponendum, verum ad agendum strictissimam poenitentiam in arctissimo monasterio detrudendum».8
Muovendo, dunque, dal pronunciamento del diritto canonico, Scoto prova ad argomentare razionalmente sulla necessità di mantenere il segreto. In particolare, entrando in polemica con Riccardo di Mediavilla,il Doctor Subtilis ha l’occasione per impostare il suo ragionamento sull’argomento.
Scoto, riassumendo la posizione di Riccardo contenuta nel commento della medesima questione delle Sentenze del Lombardo qui in analisi, riferisce come:

«homo repraesentans personam Dei in foro confessionis, vere potest aliquid affirmare quod extra illud forum potest negare vere quando loquitur in propria persona; ergo extra forum dicens se illa audisse vel scire, mentitur, quia ad notitia eius non venerunt nisi in quantum repraesentabat personam Dei. Sed vitare mendacium est de iure naturae, et maxime mendacium perniciosum; ergo etc.».9

L’argomentazione razionale di Riccardo, in accordo con la dottrina della Chiesa sul mantenimento del segreto, può essere inquadrata in un ragionamento che sostiene una sorta di sdoppiamento della personalità del sacerdote in base al ruolo che ricopre. Per essere più precisi, Riccardo ritiene che il sacerdote può negare di essere a conoscenza di un segreto, in quanto nel momento in cui stava esercitando il ministero sacerdotale nel foro confessionale non lo faceva per suo conto proprio, ma in persona Dei. Il ragionamento che sta alla base delle analisidi Riccardo è il seguente: posto che il sacerdote nell’atto di confessare opera in persona Dei, dunque fa da strumento attraverso il quale passa la grazia divina, se fuori dal confessionale andasse a riferire di aver saputo (nel confessionale)un determinato peccato, mentirebbe, in quanto non era il sacerdote ad ascoltare, ma Dio; pertanto, il sacerdote non solo direbbe una menzogna, ma soprattutto affermerebbe di sapere cose che naturalmente non può sapere, in quanto non era personalmente presente nel confessionale.
Volendo trovare una conferma del resoconto scotista, possiamo prendere il commentario di Riccardo dove si legge: «eadem persona in natura vere affirmare potest aliquid in persona alterius loques, quod vere negat loquens in persona propria».10 Pertanto, posto che per Riccardo in qualunque caso bisogna celare il segreto confessionale,11 la soluzione fornita chiama in causa il ragionamento sulla doppia personalità.
Contro questa tipologia di argomentazione, però, Scoto ritiene vi possano essere delle confutazioni che ne intaccano la solidità.
Innanzitutto, viene rifiutato il concetto dell’operazione sacerdotale in persona Dei. Per Scoto, il sacerdote opera in propria persona. Questa posizione è in accordo con il precedente assunto scotista per il quale la confessione ha validità (giuridica e spirituale) per la condizione esistenziale corporale della persona umana;12 se, infatti, la validità operativa del sacramento è confinata all’esistenza corporale ed è condotta sulla base del diritto positivo umano, è chiaro che il sacerdote -in quanto giuridicamente legittimato- sarà un agente in propria persona. Ancora, Scoto evidenzia come il sacerdote non dice Dominus te absolvat, ma Ego te absolvo, ovvero parla in prima persona affermando l’esercizio personale dell’attività giudiziaria nel foro confessionale.13 In più, il fatto di poter riferire i peccati senza menzionare il peccatore, è indice del fatto che il sacerdote opera direttamente in propria persona nel confessionale, ovvero rimane sempre nell’unità della sua personalità in qualunque momento della sua esistenza personale. Pertanto, l’argomentazione della doppia personalità viene rifiutato da Scoto come causa per la quale bisogna celare il segreto.
Un elemento che aiuta a intendere quest’unità personale risiede proprio nella memoria, che - essendo una delle tre facoltà in base alle quali un individuo è detto persona, sulla base della teorizzazione proposta da Agostino nel De Trinitate, che indicava come imago dei tutti coloro i quali erano persone14 - (ad esempio) permette di utilizzare alcune conoscenze apprese nel foro confessionale per fini pastorali:

«Hoc etiam patet ex communi usu confessorum: sive enim in communi sermone sive in praedicatione aliquando dicunt: ‘Talis casus contigit’, ‘aliqua persona sic vel sic peccavit’; habetur ergo illa propositio quod confessor licite posset extra confessionem dicere peccatum sibi confessum, ita tamen quod nullo modo relatum ad personam confitentem unde possit deveniri in notitia eius».15

Ora, la memoria ha una forte valenza individuale e personale, in quanto si ha memoria di un qualcosa di cui si è direttamente testimoni e, pertanto, se il sacerdote operasse in persona Dei non potrebbe successivamente avere memoria di quanto ascoltato in confessione.
La posizione di Riccardo, dunque, viene rifiutata da Scoto, sebbene sia opportuno precisare come anche Riccardo - pur fornendo motivazioni differenti da quelle che darà Scoto -ritiene giusto mantenere il segreto e, rispondendo a Bernardo, afferma che il bene comune si preserva rispettando l’individualità personale, ovvero mantenendo il segreto confessionale.16 Pertanto, per Riccardo il fine ultimo del mantenimento del segreto confessionale è il mantenimento del bene comune e delle singole individualità. Tuttavia, come motivazione non viene accentuata la responsabilità del sacerdote (che deve mantenere il segreto), bensì la naturale impossibilità del sacerdote stesso a rompere il segreto, in quanto non opera in persona propria, ma in persona Dei.
Prima facie, invece, si può dire che Scoto rifiuta che il rivelare un segreto sia vietato per un’impossibilità connaturata alla funziona sacerdotale nell’amministrare i sacramenti; questo argomento viene rifiutato con forza da Scoto, tanto da affermare che

«sacerdos in confessione nec loquitur in persona Dei, sed in persona propria, licet auctoritate Dei et ut minister eius. Eodem modo in aliis sacramentis: unde, ut minister Dei, baptizat et consecrat, et tamen ut homo sive in persona propria scit se baptizzasse, et sine mendacio potest dicere se baptizasse».17

Da questa prospettiva, dunque, emerge come il ragionamento intorno alla medesima conclusione si è suddiviso in due blocchi argomentativi: da un lato la posizione di Riccardo sulla doppia personalità e dall’altro il rifiuto scotista di una tale posizione, in quanto - a detta del Doctor Subtilis - deresponsabilizza il sacerdote, ma soprattutto mal si concilia con la realtà dei fatti e con il ruolo giocato dalla memoria (in primis) e dalle facoltà dell’intelletto e della volontà, che nel sistema scotista sono presentate secondo i canoni del volontarismo e, dunque, della centralità della libera decisione personale.
Ancora, bisogna notareche Scoto conferisce un alto grado di responsabilità personale al singolo individuo per quanto concerne il mantenimento del segreto come scelta volontaria. Rifiutando, infatti, l’argomento di Riccardo, Scoto mette in evidenza la centralità delle facoltà dell’anima (memoria, intelletto e volontà) proprio per affermare l’unitarietà e la continuità istantanea della persona nel tempo e nello spazio. È la medesima persona a confessare e ad avere l’obbligo sociale di mantenere il segreto.
Mi sembra opportuno, dunque, offrire qualche elemento concettuale per inquadrare analiticamente la continuità dell’identità personale.

3. Sull’identità personale

Assumendo che nel sistema filosofico scotista è presente una forte concezione della continuità dell’individuo all’interno del reale, nella misura in cui il reale (alla luce delle analisi di Antonie Vos) è interpretabile attraverso un approccio realista ai mondi possibili,18 credo sia opportuno sviluppare un discorso mereologico che sciolga alcuni nodi tematici sulla continuità dell’individuo personale nello spaziotempo;19 per fare ciò trovo utile ricorrere ai lavori di Mark Heller20 e Peter van Inwagen.21
Per prima cosa, Heller ritiene che per poter affermare l’esistenza continua di un individuo attraverso le sue varie manifestazioni all’interno del reale è necessario sviluppare un discorso mereologico che mostri il rapporto che intercorre tra il tutto (il singolo individuo) e la parte (ovvero quel medesimo individuo considerato, ad esempio, in un punto specifico dello spaziotempo). Ora, ipotizzando di avere davanti un individuo β, bisogna chiedersi cos’è che mi permette di tenere logicamente insieme le asserzioni Questo è βe Quell’individuo che ho visto ieri è β? Heller ritiene che le parti di un oggetto fisico assunte nelle loro instanziazioni particolari vengono considerate come sotto-regioni della totalità dello spaziotempo che caratterizza quell’oggetto nella sua esistenza. È opportuno precisare come in un sistema filosofico e teologico cristiano, che è proprio delle analisi scotiste, l’utilizzo di un approccio analitico sulla base di teorizzazioni come quelle di Heller non può essere assunto immediatamente. In particolare, bisogna porre la distinzione tra identità individuale e identità personale nel reale. La prima rientra nella sfera metafisica e concerne anche la persona (intesa nei termini agostiniani di imago dei) che per quanto riguarda la componente individuale empirica viene indicata da Scoto con il termine di haecceitas.22 Per essere chiari, un’haecceitas può essere anche un cane o un albero, ovvero una sostanza individuabile. L’identità personale, invece, concerne esclusivamente le creature personali e riguarda - ad esempio - l’esistenza dell’anima nella vita ultraterrena. Memoria, intelletto e volontà sono le tre componenti dell’anima di una persona; pertanto, nel contesto cristiano fortemente attento al personalismo, la persona continuerà ad esistere in una vita ultraterrena così come esiste continuamente durante la vita corporale empirica, ovvero le suddette facoltà nella loro unitarietà costitutiva dell’anima saranno l’elemento che permetterà di individuare una persona nel reale.23 Questa distinzione è cruciale, in quanto i discorsi di Heller o van Inwagen credo siano adattabili al contesto cristiano e, dunque, proiettabili per intendere la continuità personale sebbene abbiano come focus principale l’identità individuale.
In questi termini, assumendo che il soggetto β sia una persona (quindi anche un individuo),24 diremo che avrà una totalità temporale che vede come estremità, da un lato, l’istante (Ti) in cui viene creato da Dio e, dall’altro, quello finale (Tf);25 pertanto, la totalità esistenziale temporale (x) di β è Ti ≤ x ≤ Tf; allo stesso modo, la totalità spaziale (y) è data da tutti gli spazi occupati dal primo istante in cui è nato (Si) fino all’ultimo (Sf): Si ≤ y ≤ Sf. Queste due formule costituiscono la totalità della regione spaziotemporale;26 ogni assunzione di un istante o di una collocazione spaziale specifica sarà una sotto-regione.
Heller nel suo lavoro insiste sul fatto che il soggetto personale deve essere assunto - da un punto di vista logico - nella sua totalità esistenziale e, ancora, bisogna tenere presente che vi sono le varie sub-regioni, non come elementi che mi permettono di dire che ci sono due β (quello visto ieri e quello che vedo oggi), bensì c’è un solo β (inteso nella sua totalità personale) che è costituito da parti con le quali io sono entrato in relazione (ad esempio, il mio relazionarmi ad una persona relativamente ad un singolo atto intellettivo, volitivo o di memoria). Le parti specifiche, considerate in un tempo e in uno spazio specifico, possono dirsi esistenti in una determinata collocazione spaziotemporale; tuttavia, questo non sarà motivo di confusione - a detta di Heller - se considero il fatto che quella parte di β con la quale mi sono relazionato (ad esempio, ieri) appartiene al medesimo β (nella sua totalità) che oggi mi si presenta in un altro particolare istante temporale (in un’ulteriore sub-regione dello spaziotempo).
Forse, ponendo il ragionamento in questi termini, il discorso inizia ad essere più accessibile; tuttavia, credo che per intendere pienamente i discorsi fatti a partire dal lavoro di Heller può tornare utile la seconda opera citata, ovvero quella di Peter van Inwagen.
In particolare, trovo illuminante la parte riguardante l’identità e, nello specifico, quella sulle parti temporali e l’identità nel tempo.27 Qui van Inwagen presenta due differenti teorie sull’identità nel tempo.
Una prima è quella per la quale un oggetto che possiede differenti proprietà in istanti temporali differenti è direttamente responsabile di quel possesso o di quella perdita delle proprietà: essere unlibro sul tavoloa t è una proprietà connaturata al soggetto (nel caso specifico, un determinato libro)  così come essere un libro sulla poltronaa t* è una proprietà connaturata al soggetto.28 Alla luce della posizione assunta da Scoto contro Riccardo credo si debba rifiutare questa prima teoria come valida nella spiegazione della continuità dell’identità personale nel reale.
La seconda teoria presentata da van Inwagen, invece, ritiene che le proprietà appartengono al tempo e non intaccano l’esistenza essenziale del soggetto, che - per l’appunto - persiste in maniera identica nel tempo: essere sul tavolo a t ed essere sulla poltrona a t*sono proprietà accidentali collocate sulla linea temporale con le quali il soggetto viene a relazionarsi.29
Ora, lasciando sullo sfondo i discorsi analitici appena proposti e tenendo presente la distinzione tra identità individuale e personale (con riferimento specifico alla seconda), ciò che mi pare interessare direttamente il ragionamento condotto da Scoto nel passo dell’Ordinatio in analisi è il fatto che c’è un individuo personale inteso come un esistente caratterizzato da un’essenza individuale (la personalità di β); ciò che permane nello spaziotempo, in relazione a β, è proprio la persona intesa nell’unitarietà della sua realtà ultima personale.
Questo discorso a me sembra funzionare per il sistema scotista, che -rispondendo a Riccardo- afferma con chiarezza come vi sia una continuità della singola persona nello spaziotempo e, dunque, il sacerdote opererà in persona propria nel foro confessionale in quanto non può esservi un’interruzione dell’esistenza personale.30
Questa convinzione di Scoto, oltre ad avere una rilevanza ontologica non indifferente, comporta anche delle riflessioni politiche interessanti. Avendo visto, infatti, come il mantenimento del segreto è necessario per Scoto (così come lo era per Riccardo), bisogna soffermarsi sul motivo di una tale importanza.Si legge nel testo scotista:

«‘peccatum confessum debere celari’ non tantum est ius confitentis, sed ius communitatis, quia ex opposito - scilicet ex revelatione - sequeretur continua perturbatio in communitate, quia passim quilibet reputaret alium abominabilem, et non licet huic renuntiare iuri communitatis, licet suo».31

La motivazione di fondo, dunque, sembra essere quella offerta da Bernardo, ovvero il mantenimento del bene comune. Tuttavia, in modo diametralmente opposto a Bernardo, Scoto ritiene che una tale salvaguardia sia fatta proprio mantenendo il segreto stesso e non rivelandolo (come aveva proposto Bernardo).
Dalle analisi proposte emerge come il mantenimento e la tutela del bene comune sono responsabilità di ogni singola persona, che in quanto tale sarà responsabile degli atti che compie nei confronti della comunità stessa.
A questo punto, dunque, mi sembra opportuno spendere qualche parola su due concetti: bene comune e responsabilità personale. Il primo lo troviamo formalizzato nelle riflessioni scolastiche; il secondo, invece, sebbene sia operativo nel pensiero medievale non lo troviamo formalizzato prima del 1788, anno in cui Alexander Hamilton insieme a James Madison e John Jay compongono gli 85 articoli oggi editi col nome di Federalist Papers.32

4. Il bene comune
Nella prospettiva aristotelica, il bene supremo era di natura pratica ed era oggetto d’indagine della politica architettonica e nomotetica. Aristotele aveva rifiutato l’idea di un bene che trascendeva la vita pratica dell’individuo, in quanto la sua concezione del bene concerneva l’esistenza dell’uomo in quanto tale, ovvero dell’uomo naturalmente esistente nella condizione corporale. Pertanto, se il bene supremo deve realizzarsi, le condizioni e la possibilità di beneficiare di un tale bene dovranno essere indagate in relazione alla vita corporale
Ancora, il passaggio successivo è quello d’identificare il bene supremo pratico con la felicità. Questa, per lo Stagirita, non s’identifica immediatamente né col godimento (giacché sarebbe partecipata anche dagli animali), né con l’onore (che dipende dagli altri, ovvero da chi lo conferisce, e non è fine a se stesso, ma desiderato per avere conferma di essere persone dabbene, mentre il bene supremo deve essere sufficiente in se stesso e fine a se stesso) né nel semplice possesso della virtù. Di contro, la felicità viene delineata come un’attività autosufficiente, perfetta e compiuta in se stessa. In relazione all’uomo, una tale attività consiste nel realizzare la caratteristica che gli è peculiare e che lo differenzia dagli altri esseri: la ragione. Ancora, dal momento che l’eccellenza di una cosa coincide con la sua virtù, la felicità consisterà nell’agire secondo virtù, ovvero nell’esercizio perfetto della ragione.33
In questa prospettiva, in epoca medievale, gli averroisti latini come Sigieri di Brabante e Boezio di Dacia - andando contro l’orientamento filosofico cristiano, che colloca la vera felicità nella vita ultraterrena - riprendendo l’impianto aristotelico, diranno che la felicità è perseguibile in terra.34
Tuttavia, ciò che bisogna considerare del ragionamento aristotelico è il fatto che la politica si distingue dall’etica nella misura in cui, la prima analizza le istituzioni e le forme di governo, mentre la seconda le virtù che saranno specifiche a seconda dell’oggetto designato.
Ora, nella Politica, Aristotele presenta il bene comune come la virtù del buon cittadino, ovvero in uno Stato si è buoni cittadini se si persegue il bene comune; in altri termini, il buon cittadino non deve mirare al mero interesse individuale, ma concorrere al bene comune. La costituzione migliore è quella che permette a tutti i cittadini di concorrere al bene comune, ovvero alla realizzazione della vita retta che è la vita virtuosa come cittadino e come singolo essere umano. Da qui emerge come per Aristotele si può essere buoni cittadini senza per forza dover essere buone persone.35
Rispetto alla tradizione aristotelica, nel Medioevo Tommaso d’Aquino36 sviluppa il pensiero dello Stagirita identificando il bene comune con la sufficienza di beni materiali e una vita felice e virtuosa partecipata da tutti. Tuttavia, posto che le leggi civili devono essere orientate al perseguimento del suddetto bene comune, Tommaso precisa - in accordo con la tradizione cristiana - che l’uomo non è ordinato alla società civile, ma a Dio. In tal senso, la vera felicità non consisterà nel perseguire il bene comune proprio della società civile, ma sarà individuato in una condizione che trascende la vita corporale. Nella Summa Theologiae,proprio evocando lo Stagirita, Tommaso precisa che limitatamente alla condizione esistenziale corporale e alla vita nella società civile, la felicità è il fine ultimo dell’uomo. Questi, vivendo in società ed essendo parte di un tutto retto dalle leggi positive umane, sarà ordinato dalle leggi che devono perseguire il bene comune.37 Il principio generale, che individua l’uomo come essere ordinato nel grado ultimo a Dio, resta operativo a livello generale, ma ciò non va ad intaccare in modo negativo il funzionamento dell’ordinamento sociale, anzi - tenuto conto delle sostanziali differenze - lo influenza proprio in vista del bene comune. In risposta alla questione «Utrum actus humanus, in quantum est bonus vel malus, habeat rationem meriti vel demeriti apud Deum»,38 Tommaso aveva proposto un ragionamento per il quale pur essendovi due sfere precise dell’esistenza umana (una spirituale, che concerne il rapporto esclusivo a Dio nella dimensione ultima, e una corporale, che si relaziona al potere politico come derivato da Dio e consequenziale al peccato originale), si dice chiaramente che la relazione ultima dell’uomo è con Dio e, pertanto, circa le azioni buone o cattive si renderà conto a Dio stesso. Di conseguenza, a livello delle azioni politiche lo strumento per misurare la bontà o negatività delle azioni è il perseguimento del bene comune.39 Questo, pur riguardando una condizione esistenziale transeunte - in quanto la realtà ultima dell’uomo è immateriale - ricopre un ruolo centrale, in quanto «homo non ordinatur ad communitatem politicam secundum se totum, et secundum omnia sua: et ideo non oportet quod quilibet actus eius sit meritorius vel demeritorius per ordinem ad communitatem politicam. Sed totum quod homo est, et quod potest habet, ordinandum est ad Deum: et ideo omnis actus hominis bonus vel malus habet rationem meriti vel demeriti apud Deum, quantum est ex ipsa ratione actus».40
Dato il quadro generale, Scoto accetta in linea di massima l’idea di bene comune41 relativamente al mondo attuale, sebbene le differenze teoriche normative di fondo rispetto a Tommaso restano, ovvero sul fondamento naturale del diritto e sulla validità normativa del diritto positivo che - come visto - per Tommaso ha un’influenza sul giudizio finale, mentre per Scoto è assolutamente ininfluente, sebbene legittimato ad operare nella società (e limitatamente ad essa) per il fatto di essere derivato dal diritto positivo divino.
Tuttavia, la necessità di preservare la società civile attuale rispettando le leggi positive umane mi sembra un intento evidente in Scoto, che fa della necessità dell’ordine sociale un elemento cruciale nella sua riflessione politica. Ora, dunque, più che insistere sul bene comune, vorrei mostrare come la responsabilità politica personale utilizzata implicitamente da Scoto, ritorni in maniera formale negli scritti di Alexander Hamilton.

5. La responsabilità personale

Ho insistito sul diverso rapporto -in quanto evocato da Scoto- con Riccardo. L’elemento che mi pare si possa cogliere è quello della responsabilità personale. Pertanto, posto che l’obiettivo finale della salvaguardia è il bene comune (Tutto), questo viene “custodito” dalle parti e, ancora, la salvaguardia del Tutto è prioritaria rispetto alla soluzione di una fattispecie parziale, in quanto solo mantenendo integro il Tutto, le singole parti possono avere una buona esistenza.
Ancora, volendo dimostrare che il rifiuto della posizione di Riccardo non è fine a se stesso, ma espressione di un sistema filosofico, può tornare utile - tenendo sempre presente la centralità della volontà nella determinazione delle scelte individuali e, ancora, la necessità di possedere memoria, intelletto e volontà per essere definite persone - riferire sulla questione nella quale Scoto si chiede Utrum Deus possit facere voluntatem impeccabilem per naturam.42 La risposta che fornisce Scoto è negativa e il motivo risiede nel fatto che la volontà perfetta non è quella che si orienta al bene, ma quella che ha la possibilità di esercitare il libero arbitrio, ovvero di discernere il bene dal male e decidere autonomamente quale delle due strade intraprendere: dunque, Dio non può creare una volontà pre-determinata, in quanto ciò contrasterebbe con la piena libertà dell’individuo.
Il fatto che Scoto insista sulla neutralità della volontà creata, porta a vedere come l’orientamento che assumerà la volontà dipende direttamente dalla scelta individuale della singola persona. In questo senso, dunque, il mantenimento del bene comune non è naturalmente pre-ordinato, ma frutto dell’agire responsabile di ogni singolo individuo e - di conseguenza - il mantenimento del segreto confessionale deve essere il frutto della scelta individuale del sacerdote, che essendo libero (non pre-determinato)43 avrebbe la capacità di rompere il segreto. È per questo motivo, ovvero per affermare la piena libertà e la responsabilità dell’individuo, che Scoto afferma: «Neganda est igitur consequentia, quando arguitur quod 'Deus potest facere voluntatem impeccabilem per gratiam, ergo et per naturam’».44
La responsabilità politica personale così intesa, ovvero basata sulla auto-determinazione ad un comportamento, la possiamo intendere in diversi modi esplicitati nel The federalist. In particolare, nell’articolo XLVIII abbiamo una prima esplicitazione - già formulata nel XXIII - circa la responsabilità individuale dei propri atti. Parlando dell’impossibilità effettiva di separare pienamente i poteri legislativo, esecutivo e giudiziario (sebbene l’opportunità di una tale separazione è fuori discussione), James Madison porta l’esempio dello Stato della Pennsylvania nel quale la semplice definizione costituzionale non è sufficiente a sancire l’effettiva separazione dei poteri, che dovrà invece essere messa in pratica da parte dei titolari dei rispettivi poteri mediante un comportamento responsabile.45 Questa tipologia di responsabilità del governante è una prima declinazione della più generale responsabilità personale che si deve avere in una comunità e viene designata come dovuta al popolo, che ha individuato determinate persone come le più adatte ad occuparsi del bene comune. Madison ed Hamilton mostrano come non sempre questo responsabilità è stata applicata nei confronti del popolo e, pertanto, sarà opportuno applicarla seppure all’interno di confini ben precisi.46 Circa il fatto che il singolo titolare temporaneo di un potere eletto dal popolo per esercitare il potere stesso deve essere mosso da un senso di responsabilità nei confronti del popolo, Madison ed Hamilton sono consapevoli della difficoltà della piena riuscita di una tale azione e, pertanto, per avvicinarsi quanto più possibile al perseguimento del fine, ovvero al soddisfacimento del bene comune, suggeriscono di istituire un organo di controllo del controllore che darà maggiori tutele. Qui non solo la responsabilità personale viene intesa nella pienezza della fallibilità umana, ma il mantenimento del bene comune è visto come prioritario e, dunque, necessario di essere preventivamente preservato da ogni possibile negatività, come ad esempio un errore di valutazione intorno al bene comune.47 La connessione tra la responsabilità personale e i modi di esercitarla da parte del singolo individuo viene - di conseguenza - analizzata proprio nell’articolo LXXIII dove si insiste sulla necessità di calcolare accuratamente gli effetti delle proprie decisioni prese in vista del bene comune, ovvero riflettere prima di agire chiedendosi se effettivamente quelle azioni che si stanno mettendo in atto saranno di vantaggio alla comunità. Il mantenimento del bene comune (public good) è qui inteso come prioritario in ogni decisione politica e, ancora, come un qualcosa di dovuto dal politico, in quanto eletto, ma soprattutto in quanto individuo personalmente responsabile.48
Alla luce delle riflessioni moderne sulla responsabilità politica, mi sembra emergere una strettissima connessione tra gli atti volitivi e le conseguenze politiche di una persona, che non è per nulla banale in relazione all’utilizzo pratico informale di un tale ragionamento da parte di Scoto.49

6. Una conclusione

Tornando al riferimento principale del presente articolo, possiamo trovare una connessione con la riflessione sulla decisione volontaria in Scoto nella misura in cui la volontà è libera, in piena sintonia e in continuità con le altre due facoltà dell’anima, senza essere pre-determinata e, dunque, atta a deresponsabilizzare l’individuo.
In particolare, ritornando sul testo scotista, è possibile leggere le soluzioni e le motivazioni che il Doctor Subtilis avanza in favore del mantenimento del segreto. Nello specifico, posta la responsabilità personale dell’individuo nella scelta del mantenimento del segreto, Scoto fornisce una serie di ragioni50 in forza delle quali è opportuno mantenere il segreto stesso; in particolare, vengono individuati quattro motivi per i quali è opportuno mantenere il segreto: per carità, fedeltà, verità e mutua utilità.
Ora, ai fini delle analisi che sto svolgendo,il punto di maggiore interesse per l’agire sociale è rappresentato dall’argomento in favore della mutua utilità. Scoto sviluppa un ragionamento incentrato sulla necessità di rieducare il singolo peccatore, ovvero di intendere la confessione non come un momento dove si deve trovare un colpevole da punire in maniera esemplare, ma come l’occasione offerta al penitente di comprendere l’errore e creare le condizioni affinché non si ripeta. Scrive il Doctor Subtilis:

«in civilitate inferior est minus sufficiens sibi et minus sciens, - et in Ecclesia peccator inscius, superior autem est hierarcha, qui et potest consulere et reconciliare; ergo de lege naturae est quod nullus excludat inferiori recursum ad superiorem in necessitatibus, nec influentiam superioris in inferiorem, quia haec est communis utilitas membrorum ad invicem».51

Il ruolo del sacerdote nel confessionale è indicato in modo chiaro da Scoto: non è un giudice, ma un consigliere, ovvero colui al quale il fedele deve ricorrere nella necessità di confessare un peccato e trovare una giuda che lo indirizzi verso una condotta retta. Ora, secondo Scoto, questo modo d’intendere il confessore, non è realizzabile se il sacerdote può rivelare il segreto, in quanto questo porterebbe il penitente a non fidarsi e a non sentirsi libero di esprimere con sincerità e serenità le proprie necessità, in quanto si sentirebbe giudicato ed eventualmente a rischio di diffamazione (qualora il sacerdote andasse a rivelare il segreto, avendone la facoltà):

«Sed revelatio secreti excludit talem recursum inferioris ad superiorem in consilio animae, et per consequens influentiam superioris in inferiorem, quia nullus recurreret si regulariter illud - de quo quaerit consilium vel remedium - non esset servandum secretum».52

Pertanto, il presente ragionamento implica - per il sacerdote - che «ad communem utilitatem aliis sicut membris in corpore, tenetur celare secretum istud».53
Questo ragionamento avalla le analisi proposte nel presente articolo per le quali, secondo Scoto, bisogna dare sempre priorità alle regole che stanno alla base dell’agire sociale. In particolare, il mantenimento del segreto confessionale - inteso come regola generale per tutta la comunità - è un principio generale da mettere al primo posto rispetto a qualsiasi altro fattore che concerne la società stessa. In tal senso, l’autorità di Bernardo di Chiaravalle viene rifiutata, in quanto per Scoto è più importante rispettare la regola generale che governa la totalità della comunità sociale, che non l’infrangere la regola generale stessa per risolvere una questione specifica e contingente (quale può essere un’accusa di eresia). Ancora, è da questa riflessione sulla mutua utilità che emerge come per Scoto la priorità del Tutto è cruciale, ma non da intendersi come fine a se stessa, bensì come condizione affinché le singole parti siano tutelate. In altri termini, tutelando il Tutto si tutelano le parti, o - al contrario - per tutelare le parti è necessario dare priorità al Tutto.
È importante quanto suggestivo notare come proprio in chiusura di questione Scoto insiste sulla differente posizione rispetto a Bernardo, in quanto - come già detto in apertura - proprio al tempo dell’inquisizione, il bene comune sarà tutelato attraverso una sistematica persecuzione delle fattispecie di reato, la cui individuazione sarà prioritaria rispetto al mantenimento del segreto stesso. Il periodo dell’inquisizione genererà una sorta di Panopticon54 per il quale ogni segreto, se contenente elementi di natura eretica, sarà svelato facendo collassare il principio che, invece, era alla base della società e del bene comune per Scoto.
Per cogliere lo scarto rispetto alla posizione di Bernardo, si legge nel testo scotista - in merito alle questioni su «‘quis’, ‘cui’ et ‘quando’»55 bisogna celare il segreto stesso - che: «non solum confessor, sed etiam ille cui confessor revelat, licet illicite, tenetur celare».56 Ancora, è interessante il caso preso in esame da Scoto circa una terza persona che ascolta la confessione: «si enim audit casualiter, non peccat, tenetur tamen ad silentium; si vero dolose, peccat mortaliter, et cum hoc tenetur ad silentium».57 Sia nell’eventualità meramente casuale quanto in quella dolosa, la condotta che deve essere tenuta dal terzo è sempre la medesima: mantenere il segreto.
Infine, sul quando un segreto va mantenuto, Scoto è altrettanto chiaro e diretto: «semper et pro semper»58 (includendo anche il periodo successivo alla morte del penitente).
Anche questa parte del ragionamentova esattamente nella direzione per la quale la priorità viene data da Scoto non alla singola fattispecie (la parte), bensì alla tutela della legge che regola i rapporti tra le parti, nello specifico il segreto (cioè il Tutto).
Ancora, il mantenimento del segreto non concerne solo la confessione sacramentale, ma si estende come regola generale per ogni tipo di segreto, così da mostrarne la validità per l’intera comunità in ogni condizione sociale (e in questo passaggio, ancor di più, si coglie lo scarto e l’orientamento assunto dalla Sede apostolica al tempo dell’inquisizione): «dicitur quod ad omne secretum servandum tenetur quis de lege naturae, propter rationes ad primam conclusionem»59 (intendendo con esse i rimandi scritturistici a Matteo (7, 12) e Proverbi (11, 13), che erano stati forniti circa le motivazioni per carità, fedeltà e verità).
Concludendo il ragionamento, dunque, la risposta scotista alla necessità del mantenimento del segreto in qualunque caso è affermativa; la motivazione è quella già presentata nelle pagine precedenti evocando il passo dell’Ordinatio60 che indica nel mantenimento del bene comune, ovvero nel non arrecare una continua perturbatio alla comunità, il fine ultimo del mantenimento del segreto.[/body]

Notas

1 Sulla peculiarità della razionalità scotista in relazione alle tematiche teologiche si è speso validamente Antonie Vos nella traduzione con commento analitico della Lectura I, Distinctio XXXIX scotista (cfr. Antonie Vos, Contingency and Freedom.Lectura I 39, Kluwer Academic Publishers, Dordrecht 1994).         [ Links ] Tuttavia, ritengo utile rimandare a un recente volume di Luca Parisoli, che -accettando le analisi di Vos- mostra in modo specifico la portata pratica della riflessione scotista, esplicitandone gli elementi rilevanti per la riflessione pratica: Luca Parisoli, La contraddizione vera. Giovanni Duns Scoto tra la necessità della metafisica e il discorso della filosofia pratica, Istituto Storico dei Cappuccini, Roma 2005.         [ Links ]

2 Quando parlo di validità normativa della confessione, intendo riferirmi a una dettagliata argomentazione scotista in merito alla questione sul rapporto tra diritto naturale e diritto positivo. Il problema -affrontato da Scoto nelle seguenti questioni (i riferimenti all’Ordinatio e alla Lectura sono fatti seguendo l’edizione Vaticana): 1) Giovanni Duns Scoto, Ordinatio III,Distinctio XXXVII, Quaestio Unica, Typis Polyglottis Vaticanis, Città del Vaticano 2007, Vol. X, pp. 271-291;         [ Links ] 2) Giovanni Duns Scoto Ordinatio IV, Distinctio XVII, Quaestio Unica, Typis Polyglottis Vaticanis, Città del Vaticano 2011, Vol. XIII, pp. 159-193;         [ Links ] 3) Giovanni Duns Scoto Ordinatio IV, Distinctiones XVIII-XIX, Quaestio Secunda, Vol. XIII (2011), pp. 196-228,         [ Links ]- può essere riassunto nei termini seguenti. Posta la generale distinzione tra diritto naturale e diritto positivo, la sfera del diritto naturale viene a coincidere con il volere divino e può essere ricondotto in ultima analisi all’auto-evidenza della norma per la quale Dio deve essere amato (cfr., Giovanni Duns Scoto Ordinatio III, Distinctio XXXVII, Quaestio Unica, Vol. X (2007), n. 9, p. 274; n. 19-20, pp. 280-281.         [ Links ] Intendendo la norma come un ente reale, diremo che questo principio è l’oggetto semplice che nemmeno Dio (agente per potentia absoluta) può modificare. Fissati, dunque, i termini nei quali bisogna intendere il diritto naturale (nella misura in cui il volere divino è l’immotivato puro ed è di per sé giusto a prescindere dai contenuti di un tale volere), Scoto scende al livello del diritto positivo, considerandolo come accidentale (nel panorama normativo) rispetto alla semplicità della norma per la quale Dio deve essere amato. Nella sfera positiva del diritto bisogna distinguere tra un diritto positivo divino (il Decalogo e i pronunciamenti di Cristo) e uno umano: entrambi sono modificabili, rispettivamente, (solamente) da Dio il primo e (anche) dall’uomo il secondo. In questo quadro, il sacramento della confessione viene indicato da Scoto come una norma di diritto positivo umano, in quanto emanato dalla Sede apostolica.
Per quanto concerne la posizione scotista sul tema appena esposto si veda: Hannes Möhle, «Scotus’s Theory of Natural Law», Thomas Williams (ed.), The Cambridge Companion to Duns Scotus, Cambridge University Press, New York 2003, pp. 312-331.         [ Links ]

3 Giovanni Duns Scoto Ordinatio IV, Distinctio XXI, Quaestio II, n. 55, Typis Polyglottis Vaticanis,Città del Vaticano 2008, Vol. XI, p. 251.         [ Links ]

4 «Licitum est unicuique renuntiare iuri suo; ergo confidenti, cum ius suum sit peccatum suum celari, licet huic iuri renuntiare, licentiando confessorem, ut non teneatur illud celare» (Giovanni Duns Scoto, Ordinatio IV, Distinctio XXI, Quaestio II, n. 56, Vol. XI (2008), p. 251).         [ Links ]

5 Si presenta qui un caso evidente di quello che può essere definito diritto soggettivo. Su questo argomento rimando a:, Luca Parisoli Volontarismo e diritto soggettivo. La nascita di una teoria dei diritti soggettivi nella Scolastica francescana, Istituto storico dei cappuccini, Roma 1999.         [ Links ] In questo volume, Parisoli presenta il contributo offerto dalla scuola francescana alla manifestazione del concetto di diritto soggettivo; tuttavia, ciò che mi pare vada colto dal lavoro di Parisoli è che il riconoscere l’esistenza di diritti soggettivi non significa che ogni pretesa individuale possa essere un diritto. Scoto respingerà questa autorità, inserendosi esattamente nella linea della scuola francescana appena esposta; l’idea è che il penitente non ha la titolarità giuridica per dispensare il sacerdote da un obbligo normativo, quale è quello di mantenere il segreto confessionale.

6 Giovanni Duns Scoto Ordinatio IV, Distinctio XXI, Quaestio II, n. 57, Vol. XI (2008), pp. 251-252.         [ Links ]

7 Non è un caso che la posizione di Bernardo appena esposta richiami alla mente il fenomeno storico e culturale dell’Inquisizione (Cfr.: 1) Michael C. Thomsett, The Inquisition. A History, McFerland & Company, Jefferson - North Carolina, London 2010;         [ Links ] 2) Francisco Bethencourt, The Inquisition. A Global History, 1478-1834, Cambridge University Press, Cambridge 2009;         [ Links ] 3) Toby Green, Inquisition. The Reign of Fear, Pan Books, London 2007;         [ Links ] 4) James B. Given, Inquisiton and Medieval Society, Cornell University Press, New York 1997).         [ Links ]
Quello che più m’interessa, invece, è dare una panoramica sul ruolo ricoperto dalla posizione teologica e filosofica di Bernardo circa il sacramento della confessione, da intendersi come uno strumento per indagare sul reato di eresia e, dunque, che non garantisce assolutamente il mantenimento del segreto stesso. Su questo aspetto troviamo numerosi riferimenti in: John H. Arnold, Inquisition and Power, University of Pennsylvania Press, Philadelphia 2001.         [ Links ] Bernardo è presentato come uno degli autori di spicco che nel XII secolo rispondono a quella necessità manifestata dalla Sede apostolica di predicare sistematicamente ai fedeli sulla tematica dell'eresia (cfr., John H. Arnold Inquisition and Power, p. 24). Arnold mostra come dalle opere di Bernardo si percepisce un’ossessione dell’autore stesso per il tema dell’eresia (cfr., John H. Arnold Inquisition and Power, p. 26). Il sacramento della confessione viene più volte evocato come strumento introdotto dai Concili lateranensi III e IV per creare una connessione individuale tra il singolo fedele laico e l’autorità ecclesiastica, al fine di avere una conoscenza diretta della ricezione e della messa in pratica della dottrine e della morale cristiana (cfr., John H. Arnold Inquisition and Power, pp. 28-29), ma anche la possibilità di rendersi conto -attraverso l’uso di manuali specifici sulla fattispecie del reato di eresia, come la Practica di Gui (cfr., John H. Arnold Inquisition and Power, pp. 54-56)- se il penitente ha commesso il reato di eresia (cfr., John H. Arnold Inquisition and Power, p. 50). Questo, dagli autori in linea con Bernardo, è inteso come un peccato contro la comunità e, dunque, non può essere espiato privatamente (attraverso l’assoluzione e la preghiera), ma necessita una public penance (cfr., John H. Arnold Inquisition and Power, p. 60). Ancora, Arnold mostra come la possibilità teorizzata da Bernardo di rompere il segreto confessionale venga definitivamente fatta propria dall’Inquisizione, proprio adducendo come motivazioni quelle riguardanti la tutela del bene comune e la pubblica penitenza (cfr., John H. Arnold Inquisition and Power, pp. 90-93).

8 Giovanni Duns Scoto Ordinatio IV, Distinctio XXI, Quaestio II, n. 61,Vol. XI (2008), p. 253.         [ Links ]

9 Giovanni Duns Scoto Ordinatio IV, Distinctio XXI, Quaestio II, n. 66, Vol. XI (2008), p. 254.         [ Links ]

10 Riccardo di Mediavilla, Sent. IV, Dist. 21, Art. 4, Q. 1, Conclusio, apud Vincentium Sabbium, Brescia 1591, p. 340.         [ Links ]

11 Cfr. Riccardo di Mediavilla, Sent. IV, Dist. 21, Art. 4, Q. 2, Conclusio, p. 341.         [ Links ]

12 La validità di una norma si estende alla condizione ontologica che manifesta. Il diritto positivo concerne la sfera esistenziale mondana e -relativamente alla confessione- garantisce il perdono divino per l’istante nel quale si viene assolti. Contrariamente a quanto sostiene Tommaso, per Scoto il diritto positivo e i pronunciamenti a partire da esso sono irrilevanti ai fini del giudizio finale; questo sarà emanato da Dio sulla base del diritto naturale, che concerne specificamente la sfera esistenziale successiva alla vita terrena. È in quest’ottica che Scoto avanza il caso per il quale Dio può salvare Giuda e condannare Pietro (cfr.: 1), Giovanni Duns Scoto Ordinatio I, Distinctio XLI, Quaestio Unica, n. 11, Typis Polyglottis Vaticanis, Città del Vaticano 1963, Vol. VI, p. 320 (e il luogo parallelo:,         [ Links ] Giovanni Duns Scoto Lectura I, Distinctio XLI, Quaestio Unica, nn. 24-27, Typis Polyglottis Vaticanis, Città del Vaticano 1966, Vol. XVII, pp. 520-521);         [ Links ] 2), Giovanni Duns Scoto Ordinatio I, Distinctio XLIV, Quaestio Unica, n. 11, Vol. VI (1963), pp. 367-368.         [ Links ] Inoltre si tenga presente che Alessandro di Hales aveva già affrontato la questione circa la possibilità di salvare Giuda e dannare Pietro senza la complessità di analisi di Scoto (cfr. Alessandro Di Hales, Summa Theologica, ed. PP. Collegii S. Bonaventurae, Ex Typographia Collegii S. Bonaventurae, Quaracchi 1924,         [ Links ] Liber I, Inquisitio I, Tractatus IV, Quaestio II, Membrum II, Caput II, pp. 219-221) avvalendosi della distinzione tra potere assoluto -secondo il quale Dio può farlo- e potere ordinato -secondo il quale Dio non può farlo- e indicando già la centralità della preordinazione divina): questa eventuale decisione sarebbe frutto del volere divino, il quale è giusto per il solo fatto di essere voluto da Dio. Ancora, a livello generale, Scoto ritiene che la condizione dei beati non è certa, ma potenzialmente mutabile qualora Dio mutasse il suo volere in relazione al considerare i beati come tali.

13 Cfr., Giovanni Duns Scoto Ordinatio IV, Distinctio XXI, Quaestio II, n. 67, Vol. XI (2008), p. 255.         [ Links ]

14 È fondamentale, per intendere nella sua pienezza e validità filosofica l’impianto teorico di base di Scoto, considerare come la dottrina cristiana ha una forte concezione personalista (non nell’accezione moderna del termine), ovvero la persona è reale e non una semplice entità linguistica. Quando si pensa alla persona il riferimento immediato deve essere il De Trinitate di sant’Agostino, in quanto è il luogo testuale dove per la prima volta viene formalizzato il concetto di Persona (cfr.: 1) Mary T. Clark, «Augustine on Person: Divine and Human», Joseph T. Lienhard, Collectanea Augustiniana. Augustine: Presbyter factus sum, Peter Lang, New York 1993, pp. 99-120;         [ Links ] 2) Emmanuel Housset, «L’invention de la personne par saint Augustin et la mètaphysique contemporaine», in Costantino Esposito e Pasquale Porro (a cura di), Agostino e la tradizione agostiniana. Quaestio Annuario di Storia della Metafisica, VI, Brepols - Pagina, Turnhout-Bari 2006, pp. 463-482;         [ Links ] 3) Edward Morgan, «The Concept of Person in Augustine’s De Trinitate», Studia Patristica, 43 (2003) 201-206;         [ Links ] 4) William R. O’Connor, «The Concept of Person in St.Augustine’s De Trinitate», Augustinian Studies, 13 (1982) 133-143).         [ Links ] Qui la Persona divina (Padre o Figlio o Spirito Santo) non è un’entità mentale posta per assolvere necessità di ordine linguistico, ma è un’entità reale e -nello specifico- personalmente equivalente a come è persona un individuo empiricamente dato; in sintesi, Socrate è persona così come è persona il Figlio e ciò che muta sono le differenti proprietà: Padre, Figlio e Spirito Santo sono Dio (Creatore), mentre Socrate è un uomo (creatura). Ulteriori analisi filosofiche e teologiche si trovano in: Luis F. Ladaria Ferrer, «Persona y relacíon en el De Trinitate de San Agustín»,Miscelánea Comilla, 30 (1972) 245-291.         [ Links ]
Ora, il concetto cruciale per intendere la persona è quello dell’imago dei: solo chi è imago dei è persona all’interno del reale e, di conseguenza, è imago dei chi possiede memoria, intelletto e volontà, nella misura in cui -secondo Agostino- le tre facoltà corrispondono, rispettivamente, al Padre, al Figlio e allo Spirito Santo. In tal senso, essere imago dei significa essere vestigia divina: «Nemini dubium est, sicut interiorem hominem intellegentia sic exteriorem sensu corporis praeditum. Nitamur igitur si possumus in hoc quoque exteriore indagare qualecumque vestigium trinitatis, non quia et ipse eodem modo sit imago dei» (Agostino D’Ippona, De Trinitate libri XV, ed. W. J. Mountain, Brepols, Turnhout 1968, XI, I 1, vv. 1-5, p. 333, CCSL 50, 50A).         [ Links ]

15 Giovanni Duns Scoto Ordinatio IV, Distinctio XXI, Quaestio II, n. 71, Vol. XI (2008), p. 256.         [ Links ]

16 Cfr. Riccardo di Mediavilla, Sent. IV, Dist. 21, Art. 4, Q. 2, Conclusio, ad. 2, p. 341.         [ Links ]

17 Giovanni Duns Scoto Ordinatio IV, Distinctio XXI, Quaestio II, n. 76, Vol. XI (2008), p. 257.         [ Links ]

18 Per un discorso specifico su questo aspetto rimando a un mio recente studio: Matteo Scozia, «La non classicità della metodologia filosofica di Giovanni Duns Scoto », Antonianum, 89/4 (2014) 645-678.         [ Links ]

19 Quando parlo di spaziotempo, intendo riferirmi alla teoria avanzata da Minkowski (Hermann Minkowski, «Space and Time», W. Perret and G.B. Jeffery (eds.), The Principle of Relativity. A Collection of the Original Memoirs on the Special and General Theory of Relativity, Dover Publications, New York 1952, pp. 75-96) per il quale rispetto all’assunzione distinta delle categorie fisiche dello spazio e del tempo,         [ Links ] è possibile intendere il reale come un contenitore creato dalla fusione delle due categorie suddette. Spiega Mauro Dorato (cfr. Mauro Dorato, «La filosofia dello spazio e del tempo», V. Allori, M. Dorato, F. Laudisa e N. Zanghi, La natura delle cose. Introduzione ai fondamenti e alla filosofia della fisica, Carocci, Roma 2005, p. 87) che Minkowski fa una fusione della metrica temporale dta e spaziale hab in un unico oggetto (ƞ         [ Links ]ab) detto tensore metrico. Tralasciando le formule fisiche, ciò che conta è cogliere la fusione delle due categorie dello spazio e del tempo -precedentemente distinte- in un’unica categoria (lo spaziotempo), che caratterizza la totalità del reale.

20 Mark Heller, The Ontology of Physical Objects: Four-Dimensional Hunks of Matter, Cambridge University Press, Cambridge, 1990.         [ Links ]

21 Peter Van Inwagen, Ontology, Identity, and Modality: Essays in Metaphysics, Cambridge University Press, Cambridge, 2001.         [ Links ]

22 Sul concetto di haecceitas trovo persuasiva la proposta di David Kaplan, per il quale il termine haecceitas designa la continuità di un individuo all’interno del reale a prescindere dalla variazione delle sue proprietà accidentali (cfr. David Kaplan, «How to Russel a Frege-Church», Journal of Philosophy, 72 (1975) 716-729).         [ Links ]

23 Su questo aspetto si è validamente soffermato Luigi Iammarrone, il quale ha specificato la differenza tra il principio di individuazione (che concerne tutte le sostanze) e il principio costitutivo della persona. Come detto sopra, questo ultimo principio riguarda le creature personali (coloro i quali sono dotati di memoria, intelletto e volontà e, dunque, sono imago dei) e ne garantisce la loro continuità esistenziale come persone all’interno del reale (cfr. Luigi Iammarrone, Giovanni Duns Scoto Metafisico e Teologo, II edizione, Miscellanea Francescana, Roma 2003, pp. 241-246).         [ Links ]

24 Abbandono volutamente l’uso del termine individuo per concentrarmi sul fine del mio ragionamento che concerne la persona. Tuttavia, si tenga presente che il ragionamento originario di Heller o di van Inwagen concerne l’identità individuale.

25 Si consideri che per quanto concerne l’anima di una persona l’istante finale è irrilevante, in quanto l’esistenza spirituale dopo la vita terrena continuerà per sempre in Dio.

26 Proprio perché ho evocato lo spaziotempo di Minkowski credo sia opportuno unire le due formule in un’unica del tipo: STi ≤ β STf.

27 Peter Van Inwagen, Ontology, Identity, and Modality, p. 122-143. Per una visione generale sulle parti temporali si veda: Katherine Hawley, «Temporal parts», Stanford Encyclopedia of Philosophy,October 2010, http://plato.stanford.edu/entries/temporal-parts/ (ultimo accesso: 29 Maggio 2015).         [ Links ]

28 Peter Van Inwagen, Ontology, Identity, and Modality, p. 124.

29 Peter Van Inwagen, Ontology, Identity, and Modality, p. 125.

30 Nel sistema scotista, l’identità personale è da intendersi come la realtà ultima dell’individuo che non può essere modificata, ovvero non è una proprietà accidentale, bensì -come mostrato sopra- quella caratteristica essenziale che rimane invariata al variare di tutte le possibili modificazioni accidentali.
Per questa interpretazione rimando a:, Luca Parisoli «L'attualità della mappa scotista della realtà della persona: l'haecceitas», Miscellanea Franciscana Salentina, 25 (2009) 53-82 (in particolare,         [ Links ] ai discorsi sull’occhio mondano e non-mondano, che individuano -rispettivamente- la continuità nell’haecceitas e nella quidditas). Ancora, avendo assunto la posizione di Kaplan, tornano utili in questa direzione interpretativa due studi: 1) James Reichmann, «Scotus and haecceitas, Aquinas and esse: a comparative study», in American Catholic Philosophical Quarterly, 80 (2006) 63-75;         [ Links ] 2) Robert Andrews, «Haecceity in the Metaphysics of John Duns Scotus», in L. Honnefelder, H. Möhle, A. Speer, T. Kobusch and S. Bullido del Barrio (eds.), Johannes Duns Scotus 1308-2008, Franciscan Institute Publications-Aschendorff, St. Bonaventure (N.Y.) - Münster 2010, pp. 151-161.         [ Links ]

31 Giovanni Duns Scoto Ordinatio IV, Distinctio XXI, Quaestio II, n. 106, Vol. XI (2008), p. 265.         [ Links ]

32 Alexander Hamilton, James Madison and John Jay, The Federalist Papers, Palgrave, New York 2009.         [ Links ]

33 Su questi aspetti della dottrina etica e politica di Aristotele si veda: Anthony Kenny, A New History of Western Philosophy. Ancient Philosophy, Oxford University Press, New York 2004, pp. 79-87, pp. 266-274.         [ Links ]

34 Sul ruolo dell’averroismo tra i latini e sul dibattito tra filosofi e teologi e la conseguente condanna di Tempier si veda: Giulio D’Onofrio, Storia del pensiero medievale, Città nuova, Roma 2011, pp. 366-372.         [ Links ] Sull’utilizzo di Averroè da parte dei maestri delle Arti parigini: Leonardo Sileo, «Università e teologia», in Giulio d’Onofrio, Storia della Teologia. La grande fioritura, Piemme, Casale Monferrato 1996, pp. 497-507.         [ Links ] Infine, sulla condanna di Tempier e gli effetti accademici e sociali, si vedano: 1) Edward Grant, «The effect of Condemnation of 1277», N. Kretzmann, A. Kenny, J. Pinborg and E. Stump (eds.), The Cambridge History of Later Medieval Philosophy from the Rediscovery of Aristotle to the Disintegration of Scholasticism 1100-1600, Cambridge University Press, Cambridge 1982, pp. 537-539;         [ Links ] 2) Edward Grant, «The Condemnation of 1277, God’s Absolute Power, and Physical Thought in the Middle Ages», Viator, 10 (1979) p. 211-244;         [ Links ] 3) Roland Hissette, Enquête sur les 219 thèsescondamnées à Paris le 7 mars 1277, Louvain: Publications universitaires, Louvain 1977.         [ Links ]

35 Cfr. Carlo A. Viano, «Introduzione» ad Aristotele, Politica, a cura di C.A. Viano, UTET, Torino 1955, pp. 18-19.

36 Cfr. Tommaso D’Aquino: 1) Summa Theologiae. Prima secundae: Quaestiones I-LXX, in Opera Omnia. Editio Leonina, 50 voll., Ex Typographia Polyglotta, Roma 1891, Vol. 6, Q. XXI, a. VI, p. 167;         [ Links ] 2) Summa Theologiae. Prima secundae: Quaestiones LXXI-CXIV, in Opera Omnia. Editio Leonina, 50 voll., Ex Typographia Polyglotta, Roma 1892, Vol. 7, Q. XC, a. II, p. 150. Per quanto concerne il pensiero politico generale di Tommaso e i riferimenti al bene comune, si vedano: 1) Ralph McInerny, «Ethics», N. Kretzmann and E. Stump (eds.), The Cambridge Companion to Aquinas, Cambridge University Press, New York 1993, pp. 196-216;         [ Links ] 2) Paul E. Sigmund, «Law and Politics», N. Kretzmann and E. Stump (eds.), The Cambridge Companion to Aquinas, Cambridge University Press, New York 1993, pp. 217-231;         [ Links ] 3) Thomas Gilby, The Political Thought of Thomas Aquinas, The University of Chicago Press, Chicago 1958, pp. 129, 197, 248.         [ Links ]

37 Tommaso D’Aquino, Summa Theologiae I-II, Quaestio XC, Articulus II, Vol. 7, p. 150.

38 Tommaso D’Aquino, Summa Theologiae I-II, Quaestio XXI, Articulus IV, Vol. 6, p. 167.

39 Tommaso D’Aquino, Summa Theologiae I-II, Quaestio XXI, Articulus IV, Conclusio, Vol. 6, p. 167.

40 Tommaso D’Aquino, Summa Theologiae I-II, Quaestio XXI, Articulus IV, ad III, Vol. 6, p. 167b.

41 Indicativi in questa direzione sono due passaggi scotisti, rispettivamente, dell’Ordinatio (Giovanni Duns Scoto, Ordinatio IV, Distinctio XV, Quaestio II, n. 70, Vol. XIII (2011), p. 198) e dei Reportata Parisiensia (Giovanni Duns Scoto, Reportata Parisiensia, Liber II, Distinctio I, Quaestio VII, n. 11, in Opera omnia,26 voll., Louis Vivès, Paris 1894, Vol. XXII, p. 262b). Nel primo dei due testi citati, che consiste nell’evocazione dell’autorità aristotelica, si legge: «I Ethicorum,‘bonum commune divinus est et praeferendum bono particulari’» (Giovanni Duns Scoto, Ordinatio IV, Distinctio XV, Quaestio II, n. 70, Vol. XIII (2011), p. 198). L’accettazione scotista di questa posizione aristotelica risulterà chiara al termine del ragionamento fatto a partire dal secondo testo evocato. In questo, rileggendo le autorità esposte nella prima parte della questione, Scoto evoca la questione metafisica dell’ordine, dicendo che «qui dicunt in Metaphysica non est bonum, falsum dicunt, quia maxime bonum est ordo, in Metaphysicis est ordo: igitur, &c» (Giovanni Duns Scoto, Reportata Parisiensia II, Distinctio I, Quaestio VII, n. 11, p. 262b). Ora, quando leggiamo (Giovanni Duns Scoto Ordinatio IV, Distinctio XV, Quaestio II, n. 70, Vol. XIII (2011), p. 198) che il bene comune è prioritario a quello particolare e, ancora (nella discussione dell’autorità aristotelica) che l’interesse comune è prioritario a quello di fattispecie individuali (Cfr., Giovanni Duns Scoto Ordinatio IV, Distinctio XV, Quaestio II, n. 198, Vol. XIII (2011), p. 108) possiamo intenderlo nella misura in cui Scoto considera il mantenimento dell’ordine sociale, dunque il bene comune, come fondamentale, in quanto significa preservare la naturale condizione del creato, che è l’ordine in generale e nelle singole parti corrispondenti ai vari gradi delle gerarchie (vi è una pronunciata influenza dello pseudo-Dionigi desumibile da:, Giovanni Duns Scoto OrdinatioII, Distinctio II, Pars I-II, Typis Polyglottis Vaticanis, Città del Vaticano 1973, Vol. VII, pp. 161-389).         [ Links ] La società in cui viviamo è una parte della più ampia gerarchia creaturale ordinatamente esistente. Mantenere, dunque, il bene comune e l’ordine sociale significa preservare (per quanto concerne la condizione umana) quella porzione del creato e della gerarchia affidata da Dio all’uomo.

42 Giovanni Duns Scoto Lectura II, Distinctio XXIII, Quaestio Unica, Typis Polyglottis Vaticanis, Città del Vaticano 1993, Vol. XIX, pp. 207-218.         [ Links ]

43 È interessante l’argomentazione che Scoto adduce a sostegno della non pre-determinazione (o neutralità) della volontà al bene: «Assumptum ostenditur, quia si voluntas creata esset naturaliter necessario satiata, igitur esset naturaliter beata. Sed hoc est falsum, quia vel in se vel in Deo. Non in se, quia in se non potest esse infinita, et non satiatur nisi in aliquo infinito. Non autem satiatur naturaliter et necessario in Deo, quia tunc Deus necessario ipsam beatificaret, et sic haberet actum necessarium ad extra, quod falsum est» (Giovanni Duns Scoto, Lectura II, Distinctio XXIII, Quaestio Unica, n. 30, Vol. XIX (1993), p. 214).

44 Giovanni Duns Scoto Lectura II, Distinctio XXIII, Quaestio Unica, n. 42, Vol. XIX (1993), p. 217.

45 Cfr. Alexander Hamilton, James Madison and John Jay, The Federalist Papers, p. 110.

46 Cfr. Alexander Hamilton, James Madison and John Jay, The Federalist Papers, p. 166.

47 Alexander Hamilton, James Madison and John Jay, The Federalist Papers, p. 166.

48 Alexander Hamilton, James Madison and John Jay, The Federalist Papers, p. 216.

49 Individuando nella coscienza ciò che permette all’uomo di avere quel senso di responsabilità, Scoto si chiede «Utrum conscientia sit in voluntate aut in intellectu» (Giovanni Duns Scoto, Lectura II, Distinctio XXXIX, QuaestioII, n. 5, Vol. XIX (1993), p. 378). La risposta scotista è indicativa nel confermare la linea interpretativa proposta nel presente articolo: «Sic etiam consequenter dicendum est de conscientia, quod est habitus conclusionis practicae acquisitus de operabilibus secundum legem naturae, vel de operabilibus secundum praecepta; et secundum istum habitum semper intellectus accusat malum» (Giovanni Duns Scoto, Lectura II, Distinctio XXXIX, Quaestio II, n. 25, Vol. XIX (1993), p. 384). La coscienza, intesa come consapevolezza di ciò che è bene o male, giusto o sbagliato, risiede nell’intelletto; tuttavia, questa sorta di conoscenza e consapevolezza non ne implica un’immediata esecuzione pratica, ma necessita di un’azione volontaria da parte del soggetto circa la scelta da compiere. In questo senso, il primato della volontà nella scelta pratica è inteso all’interno del processo per il quale (a) l’intelletto offre le evidenze razionali dei fatti, (b) la coscienza permette al soggetto di sapere cosa è giusto o sbagliato e (c) la volontà delibera su quale azione mettere in pratica. Per Scoto l’evidenza razionale del bene non è sufficiente a far perseguire il bene, ma è necessaria una deliberazione volontaria a seguire il bene stesso (per quanto riguarda il discorso specifico sul rapporto tra intelletto e volontà e, in particolare, sulla priorità della volontà rispetto alla ragione nelle deliberazioni pratiche dell’uomo si veda anche:, Giovanni Duns Scoto Lectura II, Distinctio XXV, Quaestio Unica,Vol. XIX (1993), pp. 229-263); interessante è notare come questa posizione è esattamente opposta a quella di sant’Agostino, per il quale l’evidenza razionale del Bene, ovvero una conoscenza piena del Bene, era sufficiente a persuadere il soggetto a perseguirlo (cfr. Agostino D’Ippona, De Trinitate, XIII, V 8, vv. 1-38, pp. 391-393).

50 Cfr., Giovanni Duns Scoto Ordinatio IV, Distinctio XXI, Quaestio II, nn. 77-85, Vol. XI (2008), pp. 257-260.

51 Giovanni Duns Scoto Ordinatio IV, Distinctio XXI, Quaestio II, n. 85, Vol. XI (2008), p. 259.

52 Giovanni Duns Scoto Ordinatio IV, Distinctio XXI, Quaestio II, n. 85, Vol. XI (2008), pp. 259-260.

53 Giovanni Duns Scoto Ordinatio IV, Distinctio XXI, Quaestio II, n. 85, Vol. XI (2008), p. 260.

54 Il Panopticon è una sorta di palazzo istituzionale disegnato da Jeremy Bentham nel XVIII secolo (cfr. Jeremy Bentham, The Panopticon Writings, Verso, Londra 1995): «The panopticon is a building of circular design intended for any institutional arrangement where the “inmates” required constant supervision -such as hospitals,         [ Links ] schools, workhouses and poor houses- but the panopticon became most well-known as a prison for “grinding rogues honest and idle men industrious”. Appalled by the inefficiency and inhumane conditions in Britain’s penal regime, Bentham developed the idea of the panopticon penitentiary as a substitute penal system, in which convicted criminals would be subject to a disciplinary regime based on the maxim that “the more strictly we are watched, the better we behave”» (James E. Crimmins, «Jeremy Bentham», Stanford Encyclopedia of Philosophy, (March 2015), http://plato.stanford.edu/entries/bentham/(ultimo accesso: 29 Maggio 2015).         [ Links ]Collegato a Panoptes, gigante dai cento occhi della mitologia greca, il Panopticon di Bentham ha presto trovato fortuna in quella riflessioni filosofiche orientate a indagare i rapporti tra i membri di una comunità e la sorveglianza compiuta dal potere politico sugli stessi; in particolare, nel panorama contemporaneo, Michael Foucault ha interpretato il Panopticon come l’espressione dell’annullamento effettivo di quella che oggi viene definita privacy (Michael Foucault, Discipline and Punish: The Birth of the Prison, Penguin, Harmondsworth 1985.         [ Links ] Su quest’interpretazione si veda anche: GertrudeHimmelfarb, «The Haunted House of Jeremy Bentham», RichardHerrand Harold T. Parker, Ideas in History: essays presented to Louis Gottschalk by his former students, Duke University Pres, Durham 1965) e che passa attraverso la rete internet e i mezzi di comunicazione disponibili in essa: posta elettronica,         [ Links ] social network, ma anche la semplice ricerca viene memorizzata dalla rete e permette di conoscere ogni movimento e interesse del singolo utente (cfr. AnneBrunon-Ernst, Beyond Foucault: New Perspectives on Bentham’s Panopticon, Ashgate, Farnham 2012).         [ Links ] Questa riflessione mi sembra esattamente in linea con la distopia che è stata messa in atto dall’Inquisizione, quando ogni segreto veniva svelato in nome del bene comune da difendere contro l’eretico: lo spazio per la privacy era effettivamente annullato, in quanto la libertà del singolo era sacrificabile in nome della tutela ideologica del tutto (la comunità, il bene comune). Tuttavia, la prospettiva scotista è andata esattamente nella direzione opposta, ovvero perseguendo il medesimo fine dell’Inquisizione -ma anche assunto da Bernardo- di preservare il bene comune, ha ritenuto opportuno preservare la sfera privata del singolo (il segreto).

55 Giovanni Duns Scoto Ordinatio IV, Distinctio XXI, Quaestio II, n. 91, Vol. XI (2008), p. 261.

56 Giovanni Duns Scoto Ordinatio IV, Distinctio XXI, Quaestio II, n. 91, Vol. XI (2008), p. 261.

57 Giovanni Duns Scoto Ordinatio IV, Distinctio XXI, Quaestio II, n. 92, Vol. XI (2008), p. 262.

58 Giovanni Guns Scoto,Ordinatio IV, Distinctio XXI, Quaestio II, n. 94, Vol. XI (2008), p. 262.

59 Giovanni Duns Scoto Ordinatio IV, Distinctio XXI, Quaestio II, n. 103, Vol. XI (2008), p. 264.

60 Cfr., Giovanni Duns Scoto Ordinatio IV, Distinctio XXI, Quaestio II, n. 106, Vol. XI (2008), p. 265.

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