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Revista de historia del derecho

On-line version ISSN 1853-1784

Rev. hist. derecho  no.66 Ciudad Autónoma de Buenos Aires Dec. 2023

 

Investigaciones

Lo statuto comunale in alcuni pareri di Andrea Alciato

The municipal statute in the consilia of Andrea Alciato

El estatuto municipal en los dictámenes de Andrea Alciato

1 Universidad de Pavia (Italia). Professore Associato di Storia del diritto medievale e moderno presso ilDipartimento di Giurisprudenza dell’Università degli Studi di Pavia (Italia).Attualmente è titolare dell’insegnamento di Storia delle codificazioni, di un modulo diinsegnamento nell’ambito del corso di Storia e Istituzioni di diritto canonico e di un modulo diinsegnamento nell’ambito del corso di Storia della giustizia penale.Dirección postal: Corso Strada Nuova 65, Pavia (27100) Pavia (Italia). E-mail: emanuela.fugazza@unipv.it

Sintesi

La scienza giuridica in età medievale e in età moderna ragionò a lungo sulla validità e sulla portata dello statuto cittadino. Anche Andrea Alciato, tra i massimi esponenti della dottrina, non solo italiana, del XVI secolo e fondatore dell’Umanesimo giuridico, si occupò del tema tanto nelle sue opere teoriche quanto in numerosi pareri che rese sia a privati sia a giudici. Mentre le riflessioni che in tema di statuto consegnò alle opere teoriche hanno ripetutamente attirato gli interessi della storiografia, meno note sono le considerazioni che al riguardo egli espresse nei suoi consilia. Ed è perciò a questo tema che è dedicato il presente contributo.

Parole chiave: Alciato; statuto comunale; diritto comune; consilia

Abstract

Legal science in the Middle and Modern Ages wrote several works on the validity and scope of the city statute. Andrea Alciato, one of the greatest exponents of 16th century legal doctrine, not only in Italy, and founder of legal humanism, also dealt with the subject in his theoretical works as well as in several consilia he rendered to both private individuals and judgesWhile the reflections he delivered on the subject of statutes in his theoretical works have repeatedly attracted the interest of historiography, the considerations he expressed in this regard in his consilia are less well known. And it is therefore to this subjectthat the present contribution is dedicated.

Keywords: Alciato; city statute; diritto comune; consilia

Resumen

La ciencia jurídica de la época medieval y moderna razonó largamente sobre la validez y el alcance del estatuto municipal. Incluso Andrea Alciato, uno de los máximos exponentes de la doctrina del siglo XVI, no sólo italiana, y fundador del humanismo jurídico, se ocupó del tema tanto en sus obras teóricas como en numerosos dictámenes que dirigió tanto a particulares como a jueces. Mientras que las reflexiones que hizo sobre el tema de los estatutos en sus obras teóricas han atraído repetidamente el interés de la historiografía, las consideraciones que expresó al respecto en sus consilia son menos conocidas. Y es, por tanto, a este tema al que se dedica la presente contribución.

Palabras claves: Andrea Alciato; estatuto comunal; diritto comune; consilia

Sommario

I. Introduzione. II. Lo statuto cittadino negli scritti teorici di Alciato. III. L’interpretazione dello statuto nella scienza giuridica medievale. Brevi richiami. IV. Alciato e l’intepretazione letterale dello statuto. V. Statuto e diritto comune. VI. Statuto e processo. VII. Qualche considerazione conclusiva. VIII. Fonti primarie. IX. Riferimenti bibliografici. X. Note.

Introduzione

Il rapporto, di amore e odio, tra il giurista, sia egli un pratico o un giurista di scuola, e lo statuto comunale è un tema classico per la storia del diritto italiano. Dalle pionieristiche indagini di Mario Sbriccoli (1969), la storiografia italiana ha ripetutamente rivolto la propria attenzione a questo argomento, e lo ha affrontato secondo prospettive e declinazioni di volta in volta diverse. Lo statuto cittadino è d’altra parte una fonte normativa di assoluto rilievo nella storia del diritto medievale e moderno, con la quale la scienza giuridica dell’epoca, dopo un iniziale atteggiamento di diffidenza, ha dovuto necessariamente confrontarsi.

Lo statuto è senza dubbio la massima espressione dell’autonomia cittadina. Fin dagli inizi del XII secolo, quando il governo comunale si sta ancora progressivamente consolidando, i capi del comune rivendicano ed esercitano una serie cospicua di diritti e di poteri tradizionalmente ritenuti di pertinenza esclusiva dell’imperatore: tra questi possiamo ricordare il potere giudiziario, il potere di battere moneta, il potere di pace e di guerra e, appunto, il potere legislativo. Lo statuto comunale nasce dalla fusione in un unico testo normativo di disposizioni che hanno origine e caratteri tra loro diversi. Si tratta innanzitutto dei cosiddetti brevi, ossia i patti giurati stretti tra le magistrature di governo e i cittadini; patti, che gli ufficiali di vertice del comune devono giurare all’atto di assunzione della carica. Ci sono poi le consuetudini locali, che in molte città italiane vengono redatte per iscritto nel corso del XII secolo. E infine ci sono le deliberazioni delle singole assemblee cittadine, aventi ad oggetto i più diversi istituti giuridici. Orbene, dall’unione in un solo corpo normativo di queste fonti nasce, lo si è accennato, lo statuto comunale. Entro la metà del XIII secolo pressoché tutte le città dell’Italia centro-settentrionale si dotano di un proprio statuto, il quale ha nel frattempo subito un processo di sistematizzazione, tanto da formare quello che nelle fonti viene indicato come “Libro degli statuti”, diviso in più libri, ciascuno dedicato a una singola branca del diritto: costituzionale, penale, civile, processuale, amministrativo (Ascheri, 1994, pp. 169-170; Bellomo, 2002, pp. 179-180; Cassi, 2023, pp. 65-75; Keller, 1998, pp. 61-94, 2001, pp. 159-173; Padoa Schioppa, 2016, pp. 186-190; Piergiovanni, 1989, pp. 79-98; Sarti, 2022, pp.72-74).

Tra l’XI e il XIII secolo tutta l’Italia o, più correttamente, tutta l’Europa è percorsa da una molteplicità di diritti particolari: oltre agli statuti comunali, sono vigenti miriadi di consuetudini e di leggi di prìncipi e sovrani. Esiste dunque una pluralità di ordinamenti giuridici che ben presto mette in discussione un principio, divenuto un vero e proprio dogma per la dottrina. Si allude nello specifico alla teoria che postula l’unità giuridica dell’impero universale. Una costruzione, questa, che, individuando nell’impero romano-cristiano il definitivo ordinamento politico del genere umano, si erge sulla concezione del diritto giustinianeo come unum ius, come unico diritto vigente, in quanto diritto universale di tutti i popoli dell’impero. I giuristi devono però fare i conti con la realtà istituzionale e politica, che smentisce quell’aspirazione all’unità. Pur convinti assertori della teoria dell’unum ius, essi non possono negare validità alla normativa locale. E così, tra il XII e il XIII secolo, gli “intelletti più lucidi del momento” risolvono il problema della convivenza e del coordinamento tra il dogma dell’unum ius con la molteplicità di ordinamenti particolari coniando la locuzione e il concetto di diritto comune (ius commune). Con tale espressione si allude in un primo tempo al diritto romano imperiale, concepito come generale e universale, comune appunto, il quale si contrappone ai diritti particolari che hanno invece una vigenza territoriale circoscritta, limitata. Nel corso del XIII secolo il diritto comune si arricchisce di una nuova componente: il diritto canonico, il quale condivide con il diritto romano imperiale lo stesso carattere della generalità e dell’universalità (Calasso, 1954, pp. 367-388, pp. 453-502; Cavanna, 1982, pp. 33-65).

Tali costruzioni teoriche dalla scienza giuridica medievale approdano alla dottrina dell’età moderna, e catalizzano l’attenzione e le riflessioni anche di Andrea Alciato, annoverato “nel triumvirato dei grandi riformatori della giurisprudenza rinascimentale, insieme a Guillaume Budé e Adalricus Zasius” (Rossi, 2012). Milanese di nascita, egli intraprende gli studi giuridici a Pavia nel 1508; consegue il dottorato nel diritto civile e nel diritto canonico a Ferrara nel 1516, dove si trasferisce a causa della grave crisi in cui versa lo Studio pavese, in seguito alle vicende belliche legate alla cacciata dei francesi e al ritorno degli Sforza nel ducato di Milano (Belloni y Cortese, 2013, p. 29).Dotato di una solidissima preparazione giuridica e di un’altrettanto significativa formazione storico-filologica, Alciato coniuga l’esercizio della professione legale con l’insegnamento universitario, tenuto anzitutto in Francia, prima ad Avignone e in seguito a Bourges. Nel 1533 torna in Italia, conteso dalle più importanti università: Bologna, Ferrara e Pavia. Alciato è tradizionalmente considerato il vero fondatore dell’Umanesimo giuridico, per avere rinnovato in profondità il metodo di studio e di insegnamento delle fonti giuridiche. Un metodo, quello messo a punto dagli umanisti, che ricerca la formulazione originaria dei testi studiati per poi analizzarne il significato alla luce delle fonti greche e latine (Belloniy Cortese, 2013, pp. 29-32; Di Renzo Villata y Massetto, 2012,t. I, pp. 464-466; Padoa Schioppa, 2016, pp. 251-264; Rossi, 2012).

Alla luce dunque del ruolo di assoluto rilievo che Alciato ricopre in seno alla scienza giuridica della prima età moderna, ho ritenuto non del tutto privo di interesse soffermarmi sulle riflessioni che in tema di statuto cittadino egli elabora segnatamente negli scritti dal taglio pratico, quando cioè presta consulenza a giudici e a privati, tanto in occasione di un processo quanto in sede stragiudiziale.

Lo statuto cittadino negli scritti teorici di Alciato

È tesi conslidata in seno alla storiografia che in età moderna lo statuto cittadino, lungi dall’attraversare una fase di decadenza, conservi ampi spazi di vitalità.

È senz’altro vero che la legislazione statutaria subisce un effettivo ridimensionamento in seguito alla formazione degli Stati regionali (Chittolini, 1979). Occorre in effetti tenere in considerazione alcuni elementi. In primo luogo, nella graduazione delle fonti, sopra lo statuto cittadino si colloca ora la legislazione principesca. Secondariamente, le leggi del comune subiscono un pervasivo controllo da parte del principe stesso. Com’è stato messo in luce, lo statuto, per essere valido, deve essere approvato dal princeps, così come tutte le revisioni statutarie e tutti gli altri atti attraverso i quali si manifesta il potere normativo della città: riformagioni, provvisioni e decreti (Birocchi, 2006, pp. 25-27; Chittolini, 1991, pp. 21-45; Piergiovanni, 1989, pp. 79-98). Più d’uno sono i contesti territoriali la cui storia statutaria legittima queste osservazioni (Fasano Guarini, 1991, pp. 69-124; Lazzarini, 1991, pp. 381-417; Varanini, 1991, pp. 247-317), e tra essi deve essere annoverato anche il ducato di Milano, al centro di queste mie brevi considerazioni.

Tuttavia, come accennato, nonostante detto ridimensionamento, ancora alle soglie del XVI secolo, per tacere delle epoche successive, il diritto locale viene costantemente applicato nella prassi negoziale e processuale (Padoa Schioppa, 2016, p. 189). Le vecchie redazioni statutarie continuano a essere stampate e annotate, a dimostrazione dell’uso che ne viene ancora fatto. E, dato altrettanto degno di nota, le opere di revisione statutaria, pur sottoposte al controllo del principe, vedono ampiamente coinvolti, non solo i giuristi della sua curia, ma anche e soprattutto i giuristi locali, iscritti al Collegio della città (Chittolini, 1982, pp. 29-31). Come ampiamente noto, Gabriele Verri in pieno Settecento considererà gli statuti delle città della Lombardia “il cardine del vigente diritto lombardo, insieme alle Nuove Costituzioni” (Massetto, 2017b, p. 707).

Ciò che emerge dalle fonti è dunque uno scarto fra il piano teorico e quello della prassi. Molti sono i fattori che rendono possibile tale fenomeno. Sul ruolo cruciale svolto dal ceto dei giuristi avrò modo di ragionare nel prosieguo di questo contributo. Ora il riferimento è specificamente al peso esercitato de facto dalla legislazione principesca e al suo carattere eminentemente settoriale. Si tratta, una volta di più, di osservazioni ben note agli studiosi che hanno rivolto i propri interessi scientifici alla storia normativa del ducato di Milano nella prima età moderna. Ciononostante, non è forse fuori luogo richiamare, seppur sinteticamente, la disorganicità della legislazione che promana dal princeps. Attingendo agli scritti di chi ha ricostruitoforme e contenuti dei provvedimenti ducali, è possibile evidenziare come spesso quei testi normativi tendano a fronteggiare situazioni contingenti, senza alcun tipo di progetto riformatore di ampio respiro. La legislazione del principe è stata descritta come ‘alluvionale’: copiosa certamente, ma priva di intenti sistematici (Cavanna, 1980, pp. 307-328). Un carattere, questo, che senza dubbio si attaglia anche ai provvedimenti normativi emanati dai Visconti e dagli Sforza nel ducato di Milano (Di Renzo Villata, 1982, pp. 117-120, 1983, pp. 147-169). Gli spazi di intervento della legislazione principesca restano limitati, e sono spesso finalizzati a risolvere questioni specifiche, senza alcun coordinamento con gli statuti (Chittolini, 1982, p. 29). Se da un lato i duchi sanciscono la prevalenza della propria legislazione su tutte le altre fonti del diritto, dall’altro lato la prassi registra la scarsa incidenza di quelle leggi in una molteplicità di ambiti (Storti, 2015, pp. 567-569). Al piano che possiamo definire delle dichiarazioni di intenti e delle affermazioni di principio si giustappone il versante della concreta e quotidiana disciplina dei rapporti giuridici, e tra i due si genera un solco profondo.

La giustizia civile, merita precisarlo, è uno dei pochi settori nei quali, fin dall’età viscontea, e in particolare nei decenni compresi tra il 1330 e il 1386, si tenta una riforma organica, finalizzata ad assegnare al processo civile una configurazione unitaria in tutti i territori del dominio (Storti Storchi, 2007, pp. 271-402).

In seno al contesto che si è qui descritto, la scienza giuridica, nel solco tracciato dalla dottrina medievale, come emergerà meglio in seguito, ragiona a lungo sulla portata e sulla validità della legge municipale. Ciò che, in particolare, Andrea Alciato scrive sull’argomento in alcuni luoghi delle sue opere teoriche è stato oggetto di riflessioni autorevoli (Calasso, 1951, p. 156; Di Renzo Villata, 1980, pp. 648-650, 2006, p. 219). Il giurista milanese, insieme ad altri insigni colleghi, viene spesso indicato quale rappresentante di una scienza giuridica che, con estremo realismo in quanto consapevole dell’applicazione generalizzata dello statuto, non esita a definirlo ‘diritto comune’ (Alciato, 1560b, f. 2v, Calasso, 1951, p. 156; Di Renzo Villata, 1980, p. 648). L’immagine finora trasmessa dagli storici è dunque di un giurista che, sul piano della riflessione teorica, riconosce allo statuto ampi margini di validità e di applicabilità. È stato difatti scritto che per lui l’interpretazione dei capitoli statutari non deve condurre a uno svuotamento del loro contenuto, “perché in ogni caso la funzione di aggiungere qualcosa al diritto comune (vale a dire, al diritto romano-canonico, n.d.a.) si pone come necessaria” (Di Renzo Villata, 1980, p. 648). È stato altresì messo in luce l’impiego da parte di Alciato di vari strumenti interpretativi che lo portano a teorizzare “un processo di espansione logica” del diritto municipale(Di Renzo Villata, 1980, p. 648). Il riferimento è anzitutto a quanto egli scrive a proposito dei rapporti tra lo statuto della città dominante e gli statuti delle città sottoposte, rapporti che vedono il primo destinato a prevalere sui secondi. Inoltre, nel pensiero che Alciato consegna alle sue opere teoriche allo statuto vengono talvolta riconosciuti margini di espansione anche nei rapporti tra lo stesso e una normativa concorrente che disciplini la medesima fattispecie giuridica: anche in questo caso è lo statuto a dover prevalere (Di Renzo Villata, 2006, p. 219).

Passaggi come quelli da ultimo ricordati confermano senz’altro la tesi, ampiamente argomentata dalla ricerca storica, della ‘lunga vigenza’ del diritto statutario.

Se però si leggono altri passi dei Commentaria alciatei, il quadro si complica non poco. In effetti, il favore del giurista per la legge municipale non appare così netto come prima facie potrebbe sembrare e anzi subisce un deciso ridimensionamento soprattutto allorché egli ragiona sui rapporti tra lo statuto e il diritto comune romano-canonico. È per lui principio di portata generale che lo statuto debba essere ricondotto entro le categorie dello ius commune(Alciato 1560b) . Una tesi, questa, che come vedremo è ampiamente consolidata in seno alla scienza giuridica agli inizi dell’età moderna e che conduce Alciato a riconoscere al diritto antico una decisa prevalenza anche in casi in cui altri maestri hanno invece mostrato maggiore cautela. Egli, in particolare, polemizza sul punto con Baldo degli Ubaldi. Quest’ultimo, pur aderendo alla massima generale, ammette che, in caso di eccezioni allo ius commune, sia lo statuto a dover prevalere(Alciato 1560b) . Di tutt’altro segno sono le riflessioni di Alciato per il quale anche le exceptiones devono essere ricondotte al diritto comune , con conseguente drastico ridimensionamento della portata della legge municipale(Alciato 1560b).

Alle medesime conclusioni il giurista milanese perviene allorché ragiona sugli statuti che correggono lo ius commune. Anche questo, come emergerà meglio in seguito, è un tema caro alla dottrina, sia a quella medievale sia a quella attiva nel Cinquecento. Alciato, in particolare, nel commentare la lex De liberis et postumis haeredibus non ha esitazione nell’affermare che gli statuti di quel tipo debbano essere interpretati “in modo che ledano lo ius commune il meno possibile”(Alciato 1560a, f. 34v) .

Già da questa prima incursione nelle opere teoriche del maestro dell’Umanesimo giuridico emerge con evidenza come il suo orientamento sul tema che qui interessa non sia nettissimo e apra piuttosto la strada a considerazioni di segno diverso.

Ho prima fatto riferimento a un passaggio dell’opera del giurista milanese in cui lo statuto viene equiparato al diritto comune. Ebbene, assimilazioni come questa legittimano le considerazioni della più recente storiografia, la quale, sottoponendo a un rigoroso vaglio critico vecchi indirizzi interpretativi, insiste sul carattere equivoco che l’endiadi ‘diritto comune’ acquisisce nei secoli dell’età moderna: essa continua ovviamente a indicare, secondo la tradizione medievale, il diritto romano canonico, ma nel contempo, al fine di sottolinearne la portata generalizzata, viene impiegata evidentemente anche per alludere alla legislazione cittadina. E l’opera di Alciato offre al proposito una chiara dimostrazione. Gli orientamenti critici che percorrono la più recente ricerca storica, merita evidenziarlo, investono anche altri profili. Tra i temi che sono al centro di rinnovate considerazioni mi limito a ricordare la tesi, a lungo argomentata, che descriveva l’età moderna come un periodo di crisi del diritto comune; e l’idea di un ‘sistema’ di diritto comune, in seno al quale le fonti del diritto sarebbero state ordinate secondo una precisa gerarchia che, a far tempo dalla fine del medioevo, avrebbe visto il diritto comune in posizione subordinata e sussidiaria rispetto al diritto proprio (Birocchi, 2006, pp. 17-27; Caravale, 2005, pp. 1-63; Costa, 1995, pp. 29-42).

Alciato ha ripetute occasioni di riflettere sullo statuto, sulla sua interpretazione e sulla sua sfera di applicazione; e lo fa non solo nei commentaria al Corpus iuris civilis e al Corpus iuris canonici, ma anche, e posso dire soprattutto, allorché assume la veste di consulente, recententemente oggetto di nuove attente riflessioni da parte della storiografia (Cavina, 1984, pp. 207-204, 2015; Nobile Mattei, 2018, pp. 1-32). Ed è appunto ad alcuni suoi pareri che verrà rivolta qui particolare attenzione.

Una precisazione di ordine metodologico è a questo proposito doverosa. Ai fini di queste mie brevi considerazioni ho esaminato solo una piccola parte delle centinaia di responsa del giurista milanese. Non potendo dare conto in questa sede di tutti gli innumerevoli consilia nei quali egli ha prestato la propria consulenza su un dato capitolo statutario, si è imposta giocoforza la necessità di una selezione. E ho così seguito due distinte direttrici di indagine. Da un lato mi sono concentrata su alcuni pareri che, aventi ad oggetto singoli istituti di diritto sostanziale, sollevano il problema specifico dell’interpretazione dello statuto. Poiché è questo un argomento che Alciato affronta anche nelle opere teoriche, credo non del tutto privo di interesse mettere a confronto le soluzioni proposte. Sull’altro versante ho preso in considerazione alcuni responsa nei quali ciò che assume particolare rilievo non è tanto l’interpretazione di una data disposizione statutaria, quanto piuttosto il tema ampio e complesso dello spazio e del ruolo riconosciuti allo statuto in seno all’intero processo.

L’interpretazione dello statuto nella scienza giuridica medievale. Brevi richiami

Tra le preoccupazioni che più di altre assillano il legislatore comunale vi è senza dubbio quella che le disposizioni statutarie possano essere eluse o falsate. Un timore, quello, particolarmente avvertito anche in ragione del valore altissimo che lo statuto cittadino acquisisce tanto sul piano dei contenuti quanto su quello formale. Lo statuto è innanzitutto la fonte normativa nella quale gli interessi politici, economici e sociali della comunità trovano la prima e più importante tutela. Se da un lato, molte delle disposizioni che vi sono contenute sono espressione dei soli interessi dei gruppi dirigenti, dall’altro lato, le tante norme di matrice consuetudinaria che vi sono accolte consolidano l’antico patrimonio giuridico dell’intera collettività. Ma lo statuto è anche altro. Fin dalle prime manifestazioni della potestà normativa comunale, esso viene caricato di un potentissimo valore simbolico, e viene eretto a baluardo dell’autonomia politica cittadina (Costa, 2014, pp. 689-782; Sbriccoli, 1969, p. 406).

È in tale contesto, anche valoriale, che l’interpretazione dello statuto viene percepita dal legislatore municipale quale operazione pericolosissima. Essa, se condotta senza che vi si pongano argini, potrebbe difatti minare gli interessi politici che le norme statutarie hanno inteso salvaguardare; potrebbe alterare la tradizione giuridica, economica e sociale alla quale si è voluto conferire certezza; e, non da ultimo, essa potrebbe compromettere il simbolo delle libertà (Sbriccoli, 1969, pp. 406-407).

Sono queste le ragioni che spiegano quelle disposizioni, presenti in molte redazioni statutarie due e trecentesche, ristampate ancora agli inizi del XVI secolo, che vietano l’interpretazione dello statuto. Espressioni quali “in nessun modo può essere interpretato” campeggiano soprattutto nei capitoli che riportano il testo del giuramento che i podestà sono tenuti a leggere contestualmente alla loro elezione al vertice del governo cittadino e che li vincola nell’esercizio dell’intero loro mandato (Nicolini, 1955, pp. 54-55). Si tratta evidentemente di un divieto drastico, che in molti casi comprende anche quello di annotare o glossare lo statuto (Bellomo, 2002, p. 189), e in ordine al quale la ricerca storica ha talvolta espresso punti di vista differenti, allorché si è interrogata circa l’individuazione dei suoi destinatari. Se per alcuni studiosi, detto divieto s’intende rivolto ai soli ufficiali comunali, e specialmente al podestà e ai giudici locali (Nicolini, 1955, p. 54), altri insigni esponenti della storiografia italiana ritengono invece che esso, seppur implicitamente, sia esteso anche ai giuristi di scuola (Sbriccoli, 1969, p. 405). E tale ricostruzione, con tutta evidenza, trova fondamento nella ratio sottesa al divieto stesso. Se questo, come accennato, ha come proprio fine quello di difendere lo statuto e tutto ciò che esso rappresenta, la sua interpretazione, anche se condotta dal doctor, potrebbe in effetti portare a “fenomeni di distorsione del significato della legge” e a casi “di scorretta applicazione di essa” (Sbriccoli, 1969, p. 405). E il legislatore cittadino, lo si è visto, ha invece inteso scongiurare sia gli uni che gli altri.

In tale contesto, sono tuttavia necessarie alcune precisazioni in ordine al significato che il legislatore municipale ha inteso assegnare al sostantivo ‘interpretazione’. In ragione del fatto che ogni norma giuridica, per poter essere applicata, necessita inevitabilmente di essere interpretata, è chiaro che il divieto di interpretazione sancito dallo statuto non può essere inteso come assoluto. Esso mira piuttosto a evitare ogni interpretazione cavillosa; ha l’obiettivo di arginare qualsiasi tentativo volto ad attribuire alle parole un significato diverso da quello voluto dal legislatore. In altri termini, ‘interpretazione’, nel contesto che stiamo esaminando, è da intendersi come sinonimo di distorsione e di scorretta interpretazione della legge (Nicolini, 1955, pp. 55-56; Sbriccoli, 1969, pp. 411-412); e dunque il suo divieto non va applicato tout court.

La scienza giuridica medievale acquisisce presto tale consapevolezza e si assesta su alcune posizioni che si ritrovano ripetute costantemente negli scritti dell’epoca. Se da un lato i giureconsulti affermano la necessità che lo statuto venga interpretato, dall’altro lato insistono sull’opportunità di un’interpretazione letterale, e ciò poiché “gli statuti devono essere osservati in maniera stabile, ferma e tenace”, e “dalle loro parole non si può recedere”(Alberico da Rosciate, 1606, quaestio I, ff. 1v,2r) . Tale tipo di interpretazione si presenta in prima battuta come uno strumento di difesa dello statuto, in quanto volta a garantire la stretta osservanza della volontà del legislatore. Si è in effetti parlato a questo proposito di ‘un’operazione difensiva’ dello statuto e di tutela dell’ordinamento giuridico. Tuttavia, a ben guardare, anche l’interpretazione letterale può condurre il giurista esiti molto lontani da quelli voluti dal legislatore municipale; tanto che essa spesso si traduce in ‘un’operazione offensiva’, che limita e restringe la portata dello statuto. Si può ricordare a questo proposito la polemica tra Raniero Arsendi (XIII sec. exeunte-1358) (Mellusi, 2013, t. I, pp. 106-107)e Signorolo degli Omodei (1308-1371) in ordine a una disposizione statutaria che vieta l’esportazione del frumento sugli asini.Raniero afferma che tale norma deve essere intesa nel senso che il divieto si estende anche al trasporto “sui carri e su tutte le bestie da soma” (Sbriccoli, 1969, pp. 422-425). È chiaro l’intento del giurista di rispettare la ratio sottesa alla norma. Signorolo nega invece validità a quella interpretazione estensiva e in tal modo argina le potenzialità espansive del capitolo statutario (Massetto, 2013b, t. II, pp. 1864-1865; Sbriccoli, 1969, pp. 422-425).

Alciato e l’interpretazione letterale dello statuto

Che lo statuto debba ricevere un’interpretazione strettamente letterale è affermazione che si ritrova anche negli scritti dei giuristi della prima età moderna. Non è certo possibile in questa sede realizzare un’ampia ricognizione, sul tema che ora ci occupa, della scienza giuridica cinquecentesca. Nondimeno, una pur rapida incursione in alcune opere di alcuni dei più autorevoli giuristi dell’epoca appare doverosa, anche nel tentativo di meglio contestualizzare le riflessioni del giurista milanese.

Giasone del Maino (1435-1519), che di Alciato è stato maestro presso lo Studium pavese (Di Renzo Villata y Massetto, 2012, pp. 459-466; Di Renzo Villata, 2013, t. I, pp. 995-999), non esita ad affermare che “le parole dello statuto devono essere intese in senso stretto”(Giasone del Maino, 1579a, f. 89v) . Un’asserzione, quella, pienamente condivisa anche da Orazio Carpani (†1595) nel suo fortunato commentario agli statuti di Milano(Carpani, 1583, n. 247) .

Particolare attenzione, dalla specifica prospettiva di queste indagini, meritano poi le riflessioni di Tiberio Deciani (1509-1582), tra i massimi rappresentanti della criminalistica cinquecentesca (Cavina, 2004; Pifferi, 2006 , 2013, t. I, pp. 726-728), e protagonista di un’accesa polemica con Alciato sul ruolo della giurisprudenza consulente (Rossi, 2004, pp. 281-313). In diversi consilia, chiamato a pronunciarsi sulla portata di specifiche disposizioni statutarie, egli afferma che “dalle parole dello statuto non si deve recedere”(Deciani, 1594, t. V, cons. II, col. 6) e che, ove le stesse siano chiare, non solo deve essere arrestato ogni tentativo avvocatesco di introdurre cavillazioni nel processo(Deciani, 1594, t. V, cons. II, col. 6) , ma altresì che l’allegazione del mero testo statutario dovrebbe essere sufficiente per decidere le sorti della causa(Deciani, 1594, t. V, cons. XI) . L’adesione ai canoni interpretativi ampiamente consolidati in seno alla scienza giuridica è di tutta evidenza.

Ma, alla luce delle considerazioni prima svolte sulla dottrina medievale, un altro dato merita di essere particolarmente evidenziato. In seno alla sua ponderosa mole di consilia, non è raro trovare casi in cui Deciani evoca l’inderogabilità dell’intepretazione letterale per realizzare quella che esponenti autorevoli della storiografia giuridica, lo si è visto, hanno definito come ‘operazione offensiva’ nei riguardi dello statuto. È quanto accade, ad esempio, allorché egli è chiamato a pronunciarsi circa l’applicabilità al caso sottoposto alla sua attenzione dello statuto di Ferrara che vieta l’alienazione di beni immobili a forestieri (Deciani, 1594, t. V, cons. LXXI). Dopo aver ribadito la regola di portata generale per la quale anche lo statuto in esame deve essere oggetto di un’interpretazione rigorosamente letterale , egli nega la sua applicabilità alla singola fattispecie concreta. Mentre infatti la disposizione statutaria enumera alcuni modi di trasferimento dei beni, quali la vendita, la concessione in usufrutto, il trasferimento a titolo di dote e l’alienzione mortis causa, l’atto per il quale gli è stata richiesta la consulenza è un’investitura feudale. E dunque, la lettera della norma, dalla quale non si può recedere, così scrive, esclude che essa possa essere estesa al caso di specie, il quale deve essere ricondotto piuttosto all’ambito di applicazione dello ius commune .

I dati qui raccolti non sono certo sufficienti per formulare ipotesi circa l’orientamento prevalente che in tema di interpretazione dello statuto si consolida in seno alla scienza giuridica cinquecentesca. È questo un filone di ricerca che richiede senza dubbio indagini ulteriori. Ciononostante, le brevi ma lapidarie affermazioni di Giasone, di Carpani e di Deciani sono in ogni caso indicative del fatto che quantomeno alcuni autorevoli esponenti della dottrina, agli inizi dell’età moderna, sembrano non discostarsi dagli indirizzi interpretativi espressi dalle generazioni precedenti.

È anche in siffatto contesto che si collocano le riflessioni di Alciato.

Lo spoglio, per quanto incompleto, dei pareri nei quali il giurista milanese si interroga sulla portata di singoli capitoli statutari sottopone all’attenzione del moderno osservatore una molteplicità di questioni meritevoli di approfondimento. Un primo dato che si può cogliere con immediatezza è la ricorrente enunciazione e il costante utilizzo degli stessi canoni interpretativi elaborati dalla dottrina medievale, e all’epoca in fase di consolidamento. Tra questi il riferimento è innanzitutto al ripetuto ricorso all’interpretazione letterale. Alciato (1575) afferma spesso che gli statuti devono essere intesi “alla lettera” (t. I, lib. II, cons. XIX, f. 37r ) e che dalle loro parole “non si deve recedere” (t. I, lib. II, cons. XVIII, f. 37r ). Quelle affermazioni, merita anticiparlo, anziché reppresentare un tentativo di difesa dello statuto, conducono a risultati di segno opposto, secondo gli stessi percorsi logici che si possono ricostruire negli scritti di altri giuristi. Senza poter escludere che in alcuni consilia, non compresi tra quelli che ho esaminato, Alciato sia giunto a conclusioni differenti, è opportuno osservare che in più occasioni l’enunciazione della regola generale per la quale “gli statuti devono essere intesi in senso letterale” porta il giurista milanese a negare l’applicazione nel caso concreto dello specifico capitolo sul quale gli è stata richiesta la consulenza (Alciato, 1575, t. I, lib. II, cons. XIX, f. 37r).

Molti sono gli esempi che si potrebbero proporre. Mi limito a segnalarne un paio. Il primo investe il problema assai ricorrente di come si debba interpretare una disposizione statutaria formulata ‘al maschile’. La questione è stabilire se essa possa trovare applicazione anche nei riguardi di una donna. Il caso che Alciato si trova a dover affrontare riguarda specificamente la portata della disposizione per la quale: “nessuno, appartenente alla città, può acquistare per donazione o compravendita un’azione qualsiasi contro un cittadino”(Alciato, 1575, t. I, lib. II, cons. XVIII, f. 37r) .

Non è dato sapere, perché il giurista tace al riguardo, quale sia lo statuto oggetto di valutazione controversa. Né il riferimento alla materia del contendere che investe la nobildonna Giovanna Boni, alla quale viene negato l’esperimento di un’azione, offre elementi utili a sciogliere il dubbio. Ma dalla mia specifica e parziale prospettiva ciò che rileva è il fatto che, appellandosi a molti argomenti, Alciato (1575) nega che nel caso sottoposto alla sua attenzione la menzionata disposizione possa trovare applicazione. Concentrandosi specificamente sul pronome “nessuno”, egli non ha dubbi nel ritenere che esso escluda “il femminile”. L’interpretazione letterale dello statuto, “dalle cui parole non si deve recedere” , così scrive, lo impone; tanto che se il legislatore avesse voluto coinvolgere anche il genere femminile, lo avrebbe esplicitato con la diversa formula “nessuno o nessuna”, come ha fatto, precisa, in altre norme del medesimo statuto (t. I, lib. II, cons. XVIII, f. 37r) .

Un altro caso di particolare interesse riguarda alcune disposizioni di ultima volontà prive di alcuni requisiti formali, e che per questo motivo sono state impugnate (Alciato, 1575, t. I, lib. II, cons. XXXI). Ad Alciato viene richiesto di esprimere un parere sulla legittimità di detta impugnazione. Al centro della lite vi è l’interpretazione di un capitolo statutario per il quale: “se una disposizione di ultima volontà non è fatta né scritta secondo il modo e la forma predetti, essa deve considerarsi non legittima”(Alciato, 1575, t. I, lib. II, cons. XXXI, f. 41v) .

Anche in questo caso i pochi elementi offerti dal giurista non consentono di individuare con precisione le parti coinvolte nel giudizio, né il contesto cittadino nel quale la vicenda si consuma. Ma ancora una volta ciò che interessa in questa sede sono specificamente i criteri interpretativi utilizzati nei riguardi dello statuto oggetto di letture controverse. Per Alciato quel capitolo dispone la nullità delle disposizioni di ultima volontà solo nel caso in cui si accerti sia la loro mancanza sia l’assenza della loro redazione scritta. Lo statuto, precisa, “richiede cumulativamente che la disposizione di ultima volontà non sia stata né fatta né scritta”(Alciato, 1575, t. I, lib. II, cons. XXXI, f. 41v) . E dunque esso, a suo giudizio, non può trovare applicazione nel caso, come quello sottoposto alla sua attenzione, in cui la disposizione di ultima volontà c’è, sebbene non sia stata redatta per iscritto. Decisiva si rivela dunque dal suo punto di vista la formulazione letterale della disposizione, che avrebbe potuto condurre a esiti diversi solo se fosse stata concepita “alternativamente e non cumulativamente”(Alciato, 1575, t. I, lib. II, cons. XXXI, f. 41v) . Lapidaria, per il fatto di non ammettere obiezione alcuna, nemmeno sul piano della logica, è pertanto l’affermazione per la quale “non vi è alcuna ragione, per la quale si dovrebbe recedere dalla lettera dello statuto”(Alciato, 1575, t. I, lib. II, cons. XXXI, f. 41v) .

Statuto e diritto comune

Le conclusioni alle quali Alciato perviene nei casi che si sono fin qui esaminati si possono considerare paralizzanti per le norme di diritto locale, alle quali, in virtù di un’interpretazione rigorosamente letterale, viene costantemente negata applicazione nelle singole fattispecie concrete.

Agli stessi esiti il giurista milanese approda allorché si imbatte in statuti che correggono il diritto comune romano-canonico. Un tema, quello dell’interpretazione di statuti di questo tipo, sul quale i giuristi agli inizi dell’età moderna ragionano a lungo, e, una volta di più, sembrano farlo senza soluzione di continuità con la dottrina dei secoli immediatamente precedenti. A questo proposito, merita ricordare che nel tardo medioevo molti giureconsulti hanno affermato con forza che lo statuto deve essere interpretato in modo che i princìpi del diritto comune non siano contraddetti; una regola, questa, che è divenuta presto di portata generale e che, come ha efficacemente scritto Mario Sbriccoli, significa negare legittimità alla legge municipale. Quest’ultima conserva difatti un senso solo se deroga alle disposizioni del diritto comune (Sbriccoli, 1969, p. 258).

Il modo in cui i giuristi, segnatamente tra Quattro e Cinquecento, affrontano il delicato tema del rapporto tra lo statuto e lo ius commune non ha mancato di attirare l’interesse di alcuni autorevoli esponenti della storiografia giuridica. E dunque, al fine di meglio contestualizzare il pensiero di Alciato anche in ordine a questo profilo, in prima battutta richiamerò alcuni dati ormai acquisiti alla ricerca storica. Ciò su cui una parte della scienza giuridica della prima età moderna sembra assestata, lo ha scritto Mario Caravale (2005), è la tesi che “il giurista debba cercare di concordare la disciplina delle norme statutarie e consuetudinarie con l’altra delle norme di diritto comune, debba -in altre parole- leggere le prime secondo gli schemi offerti dalle seconde” (p. 50). Negli scritti di Alberto Bruno, di Giovanni Pietro Molignati e di Federico Scotti, per riportare alcuni esempi offerti da Caravale, è difatti chiaramente espressa l’idea per la quale gli statuti “devono essere interpretati secondo il diritto comune” e “devono essere ricondotti nei termini del diritto comune” (Caravale, 2005, p. 50).

Anche Stefano Federici, su cui hanno richiamato l’attenzione sia Gigliola di Renzo Villata sia Caravale, è orientato lungo la medesima direttrice interpretativa. Se lo statuto è contrario allo ius commune, così si legge nelle opere del giurista, “la sua portata deve essere limitata”, affinché leda il meno possibile le disposizioni di quello(Caravale, 2005, p. 50) .

Non dissimili sono le riflessioni di Giasone del Maino (1579b) e di Tiberio Deciani. Diversi sono in particolare i consilia nei quali quest’ultimo affronta il tema che ci riguarda (Deciani, 1594, vol. IV, cons. LXVI, vol. V, cons. LXXI). E, una volta di più, si può constatare come la soluzione proposta conduca spesso, per quanto ho potuto verificare, alla sottrazione della singola fattispecie concreta all’ambito di applicazione della norma statutaria. È quanto accade, ad esempio, in un caso relativo al tema, che Deciani stesso considera materia spinosa , del decorso della prescrizione nei confronti di chi ha subito uno spossessamento (Deciani, 1594, vol. V, cons. LXIII). Al di là della disciplina della prescrizione, ciò che qui interessa è il ragionamento che il maestro del diritto criminale conduce per risolvere il problema se nel caso di specie si possa applicare lo statuto cittadino. Il dubbio è sorto poiché quello statuto è stato da poco confermato dal pontefice con una disposizione che ne ha limitato l’applicazione ai soli casi futuri ; una disposizione che tuttavia Deciani ritiene non si possa applicare al caso sottoposto alla sua attenzione. Essa infatti, dal suo punto di vista, può valere solo per gli statuti totalmente nuovi. Quelli invece che confermano il diritto antico, e tra essi c’è anche la norma sulla prescrizione, devono essere interpretati in modo che ledano il meno possibile il diritto comune, e questo significa riconoscere loro efficacia retroattiva .

Il principio cardine, consolidatosi nella scienza giuridica medievale e che si sta facendo strada anche tra i giuristi del XVI secolo, per il quale gli statuti “devono essere intepretati secondo il diritto comune” diventa motivo ricorrente anche nei pareri di Alciato, il quale lo declina in una molteplicità di locuzioni (Carevale, 2005, p. 50). Egli scrive, ad esempio: “gli statuti devono essere ricondotti nei termini del diritto comune, soprattutto se lo correggono”(Alciato, 1575, t. I, lib. II, cons. V, f. 28) ; “gli statuti devono essere sempre interpretati in modo che non correggano il diritto comune” (Alciato, 1575, t. II, lib. 5, cons. CI, f. 120) ; “gli statuti ricevono l’interpetazione dal diritto comune, affinché lo correggano il meno possibile”(Alciato, 1575, t. III, lib. IX, cons. CLXVI, f. 332) . Tutte espressioni, queste, che, nei casi che ho preso in esame, vengono impiegate per legittimare la decisione di sottrarre la singola fattispecie concreta alla sfera di applicazione della norma statutaria.

È quanto accade ad esempio nella vicenda giudiziaria relativa a un individuo che viene escluso dalla legittima sui beni del nonno materno, per il fatto che la madre, in precedenza, ha rinunciato all’eredità paterna (Alciato, 1575, t. II, lib. 5, cons. CI). In ballo c’è l’intepretazione dello statuto cittadino, in forza del quale: “i figli devono calcolare la dote della madre nella quota legittima e dunque possono agire per ottenere un incremento sui beni del nonno, a meno che non ci sia stata rinuncia fatta con giuramento”(Alciato, 1575, t. II, lib. 5, cons. CI, f. 120) .

Uno statuto, quello, come scrive Alciato, che dovrebbe trovare applicazione anche nel caso di cui si tratta. Tuttavia, esso introduce una deroga al diritto comune, per il quale i nipoti non succedono secondo la linea materna, con la conseguenza che non possono essere danneggiati da un’eventuale rinuncia all’eredità fatta dalla madre . Ed è proprio la deroga alle disposizioni del diritto comune che conduce Alciato, una volta di più, a negare l’applicazione della disposizione statutaria nella fattispecie concreta. Anche altri motivi contribuiscono a paralizzare la portata della norma di diritto locale; ma ciò che conta dalla mia prospettiva è la reiterata interpretazione dello statuto in un senso che è chiaramente contrario alla volontà esplicitata dai suoi redattori.

Ragionando sulle locuzioni da ultimo considerate, che campeggiano nelle opere di molti giuristi agli inizi dell’età moderna, la ricerca storica ha ritenuto di dover mettere in discussione alcune costruzioni teoriche a lungo dominanti. Così, lo si è anticipato, si è affermata con forza la necessità di superare la tradizionale identificazione dei secoli dell’età moderna con un periodo di “crisi del diritto comune”(Caravale, 2005, p. 53). Il fatto che la scienza giuridica, ancora nel XVI secolo, riconduca il diritto locale entro le categorie del diritto romano-canonico viene letto come una prova della grande rilevanza mantenuta da quest’ultimo, al punto che l’immagine di un suo declino appare priva di fondamento. Nella prospettiva della scienza giuridica cinquecentesca il diritto comune non solo continua a essere il termine dialettico di statuti e consuetudini, ma offre altresì agli stessi “inquadramento e completamento” (Caravale, 2005, p. 53). Approfondendo le implicazioni di questo orientamento la storiografia ha sottoposto a critica serrata anche un’altra tesi che per decenni si è imposta nelle letture e nelle intepretazioni sia del medioevo sia dei primi secoli dell’età moderna, finendo per condizionare intere generazioni di studiosi. Alludo specificamente alla costruzione tradizionale che riduceva il diritto comune a un mero diritto positivo coordinato secondo un preciso ordine gerarchico alle altre fonti del diritto. È dunque entrata in crisi l’idea di un “sistema di fonti”, figlia, com’è stato scritto, di una lettura positivista del passato giuridico (Birocchi, 2006, p. 17). E si è affermata la convinzione che sia errato insistere sul carattere legislativo del diritto comune, il quale è anche un insieme di figure “indispensabili per ogni qualificazione giuridica della realtà umana” (Bellomo, 2002, p. 319 [da cui si è ripresa la citazione],Costa, 1995, pp. 29-42; Grossi, 2001, p. 228). Il diritto romano-canonico non si limita, dunque, alla funzione di fonte sussidiaria a cui ricorrere in caso di lacuna del diritto municipale. Esso piuttosto si riversa all’interno di ogni ordinamento particolare, poiché qualunque norma locale è di per sé incapace di dare da sola una disciplina completa a un intero fenomeno giuridico (Caravale, 2005, p. 53).

La grande rilevanza che Alciato riconosce al diritto comune si evince con chiarezza anche nei pareri in cui si occupa di statuti generali. È quanto accade ad esempio in un consilium che egli rende a un giudice. Sebbene la gran parte dei suoi pareri siano richiesti da privati, nella ricchissima raccolta dei suoi responsa non mancano quelli che gli sono commissionati da magistrati (Nobile Mattei, 2018, p. 23). Merita precisare che nel parere ora in esame il giurista non dichiara espressamente la committenza pubblica, la quale si può tuttavia inferire da diversi elementi. Alciato in effetti dà immediatamente conto di aver letto le allegazioni di entrambe le parti. Ed è perciò fuori dubbio che la questione che lo occupa sia oggetto di un processo. In secondo luogo, di particolare interesse per il corretto inquadramento del consilium è la sua frase di chiusura. Dopo aver argomentato, e lo vedremo, le proprie posizioni, il giurista milanese conclude affermando che “il dottissimo giudice” deve accogliere la sua interpretazione, a dimostrazione del fatto che il magistrato è il suo diretto interlocutore (Alciato, 1575, t. I, lib. II, cons. XXII, f. 38v).

Al centro della lite vi sono due statuti, promulgati in tempi diversi. La mancanza di elementi utili a conoscere le parti del processo e il contesto entro il quale il medesimo è incardinato è un dato che ancora una volta merita di essere segnalato, benché non incida sul tema al centro di queste mie riflessioni. La questione controversa investe i due complessi ambiti dei rapporti patrimoniali tra coniugi, da un lato, e dei diritti successori dall’altro. Prima di esaminare nel dettaglio la vicenda giudiziaria e il parere espresso in merito da Alciato, non è forse del tutto fuori luogo ricordare che, fin dal basso medioevo, nei territori dell’Italia centro-settentrionale i rapporti patrimoniali tra coniugi si reggono sul sistema dotale. Ancora in età moderna, la dote è al centro delle attenzioni del legislatore municipale, interessato a disciplinare ogni suo singolo profilo, dal momento della costituzione sino alla sua sorte in caso di premorienza della moglie. È difatti a partire da questo momento che entrano in gioco, e spesso in conflitto fra di loro, una molteplicità di interessi, come la vicenda processuale che ora ci occupa dimostra (Bellomo, 1961, pp. 187-222; Massetto, 2017a, t. I, pp. 521-699; Pene Vidari, 1986, pp. 109-121).

Alla luce delle disposizioni statutarie la cui interpretazione è rimessa alla valutazione di Alciato, è possibile inferire che oggetto del giudizio sono i diritti successori dei figli rispetto all’eredità materna. E, più precisamente, il quesito piuttosto complesso rimesso al parere del giurista milanese potrebbe essere così formulato: se la madre, rimasta vedova del primo marito, si è risposata, ora, al momento della sua morte, a chi spetta il lucro dotale: al secondo marito, o ai figli nati dal primo matrimonio? Per dirimere la questione piuttosto spinosa in giudizio vengono allegati due statuti.

Il primo, più risalente, riconosceva genericamente i diritti dei figli del primo matrimonio: “Lo statuto antico si limitava a stabilire: ‘purché non si deroghi al diritto dei figli del primo matrimonio’”(Alciato, 1575, t. I, lib. II, cons. XXII, f. 38v) .

E dunque, nel caso in cui la vedova avesse contratto nuovo matrimonio e i suoi figli avessero ricevuto tanti beni di valore pari alla dote, alla sua morte il secondo marito avrebbe avuto diritto all’intera dote: “In forza di detto statuto, se i figli hanno ricevuto altri beni equivalenti alla dote, il secondo marito ha diritto di lucrare l’intera dote”(Alciato, 1575, t. I, lib. II, cons. XXII, f. 38v) .

Tuttavia, un’aggiunta a quello statuto antico, con l’intento evidente di ridurre il lucro dotale a favore del secondo marito, riconosce ai figli nati dal primo matrimonio il diritto a una porzione della dote, indipendentemente da quanto abbiano ricevuto sugli altri beni materni: “Tuttavia, una nuova aggiunta allo statuto stabilisce diversamente, poiché i figli, qualunque sia la porzione ricevuta sui beni materni, hanno diritto di ricevere una quota della dote della madre”(Alciato, 1575, t. I, lib. II, cons. XXII, f. 38v) .

Il problema che il giudice si trova ad affrontare è dunque stabilire quale delle due disposizioni debba trovare applicazione nel caso di specie; un problema che si pone allorché si consideri che lo statuto antico, seppur superato dall’aggiunta successiva, è tuttora vigente e ha portata generale, e dunque, nella gerarchia delle fonti, dovrebbe prevalere sulla norma successiva, che non ha il carattere della generalità. Tuttavia, Alciato afferma la necessità di dare di quello statuto un’interpretazione restrittiva in linea con il diritto comune, il quale fa sempre salva la legittima in capo ai figli:

La generalità dello statuto, il quale afferma che, esistenti i figli, il marito succede nella dote, non rappresenta un ostacolo; poiché tale generalità è valida quando i figli del primo matrimonio hanno ricevuto la legittima sui beni non dotali; qualora invece non l’abbiano ricevuta, non è sconveniente che lo statuto riceva un’interpretazione restrittiva secondo i termini del diritto comune.(Alciato, 1575, t. I, lib. II, cons. XXII, f. 38v)

Egli invita perciò il giudice a pronunciarsi innanzitutto in senso favorevole ai figli, con la previsione che solo dopo l’avvenuta soddisfazione dei loro legittimi diritti successori la dote possa essere divisa con il secondo marito della madre (Alciato, 1575, t. I, lib. II, cons. XXII).

I casi finora esaminati, ai quali se ne potrebbero aggiungere altri, dimostrano con chiarezza l’abilità ermeneutica di Alciato, il quale, attraverso l’utilizzo di differenti criteri interpretativi, talvolta limita la portata della norma statutaria, talaltra giunge a negare l’applicazione della stessa nel singolo caso concreto. Mi limito a segnalare a questo proposito che in molti altri pareri il giurista, facendo appello ad altri canoni interpretativi, diversi da quelli qui esaminati, quali l’absurditas, la rationalitas, il verisimile, nega una volta di più validità ed efficacia a singoli capitolistatutari (Alciato, 1575, t. I, lib. II, cons. XV, t. II, lib. VI, cons. XXXII, t. III, lib. IX, cons. II, t. III, lib. IX, cons. VI).

Ciò premesso, è tuttavia opportuno essere molto cauti ogniqualvolta si sia tentati di astrarre da quei consulti costruzioni teoriche generali. Sarebbe quantomeno azzardato inferire dai consilia studiati una generale ostilità del loro autore nei riguardi dello statuto. E ciò in ragione innanzitutto del genere letterario al quale si è rivolta l’attenzione. La sua natura partigiana e i suoi contenuti condizionati dagli interessi della parte committente sono fatti troppo noti alla storiografia per essere qui oggetto di valutazioni che non aggiungerebbero contributi originali a un dibattito già ricco e articolato. E il riferimento è sia ai numerosi scritti sulla letteratura consiliare in genere sia ai saggi specificamente dedicati ai consilia di Alciato (Cavina, 1984, pp. 207-204, 2015; Nobile Mattei, 2018, pp. 1-32). Occorre poi considerare la parzialità dello spoglio qui condotto, che non consente di escludere che in altre occasioni il giurista abbia espresso opinioni radicalmente diverse su questioni coinvolgenti le medesime fattispecie. È dunque lecito attendersi che, invitato a pronunciarsi su casi riguardanti il diritto successorio o i rapporti patrimoniali tra coniugi, solo per citare alcuni degli ambiti affrontati nei pareri esaminati, egli abbia auspicato l’applicazione dello statuto locale.

Statuto e processo

Le medesime considerazioni devono guidare la lettura anche dell’ultimo consulto su cui intendo ragionare in queste note. La partigianeria dello stesso è oltremodo evidente. Si tratta difatti dell’atto di impugnazione di una sentenza con la quale il giudice di primo grado ha respinto l’eccezione di escussione sollevata da Alciato, avvocato di una delle parti:

Nella causa del magnifico Fornarius, che io possa chiarire un poco quei punti che sembrano aver rappresentato un ostacolo poiché, come si evince nel margine delle mie allegazioni, l’Eccellentissimo giudice ha sollevato alcuni dubbi. In primo luogo, come ho detto, l’eccezione di escussione deve essere ammessa, nonostante lo statuto del comune di Milano.(Alciato, 1575, t. II, lib. V, cons. CXII, f. 129)

Si tratta di un atto breve, eppure quanto mai ricco di suggestioni e di temi meritevoli di approfondimento. Solo ad alcuni di essi farò qui riferimento, in quanto strettamente connessi con l’oggetto di questo contributo. E più che i profili di diritto sostanziale, che coinvolgono un atto di donazione e questioni successorie, ciò che dalla mia prospettiva merita ora particolare risalto sono soprattutto i risvolti procedurali.

Tra questi il primo investe la decisione del giudice di prima istanza di non ammettere, in ossequio alle disposizioni dello statuto di Milano, l’eccezione opposta dal giurista milanese. Esaminerò in seguito le argomentazioni addotte da Alciato per tentare di dimostrare l’infondatezza di quella decisione. Ciò che si intende sottolineare ora è appunto l’avvenuta applicazione del diritto locale nella prassi giudiziaria della capitale del ducato, a riprova di quella vitalità del diritto municipale di cui si è detto nelle righe introduttive di questo scritto. La storiografia, lo si è accennato, ha ripetutamente insistito sul ruolo cruciale dei giuristi e dei giudici cittadini nel continuare a garantire vigenza ed efficacia alle norme statutarie. Claudia Storti, con specifico riguardo all’età viscontea, ha ricostruito non solo la pugnace resistenza dei giudici collegiati a ogni tentativo dei signori di esautorarli dall’amministrazione della giustizia cittadina. La studiosa ha altresì dimostrato l’efficacia di quell’atteggiamento di aperta ostilità; tanto che Gian Galeazzo Visconti, alla fine del XIV secolo, dopo aver abrogato alcuni precedenti provvedimenti che comprimevano il ruolo dei giuristi locali nel rito civile, realizzò una riforma che conservava in capo al collegio dei giudici la tradizionale posizione di preminenza nell’esercizio delle funzioni giurisdizionali (Storti Storchi, 2007, pp. 378-402; Storti, 2015, pp. 567-569). Una revisione, quella, consolidatasi poi nella prassi di tutte le città del dominio, come attestato dalle edizioni statutarie cinquecentesche.

Anche per quanto riguarda l’età sforzesca, allo stato attuale delle indagini non mancano indizi circa il rispetto delle regole processuali locali da parte delle corti di giustizia (Chittolini, 1991, pp. 32-38; Massetto, 2017b, pp. 707-708). E il responso di Alciato si colloca in quella precisa direzione.

Un atto, quello, che come si è anticipato contesta la sentenza del giudice. Pochi sono gli elementi che consentano una ricostruzione precisa delle ragioni che hanno indotto l’autorità giudiziaria a respingere l’eccezione di escussione. Alla luce delle argomentazioni del giurista parrebbe che essa sia stata rigettata in quanto eccezione dilatoria. La redazione statutaria che il giudice ha applicato è quella del 1498, voluta da Ludovico il Moro e completata sotto il dominio di Luigi XII nel 1502 (Di Renzo Villata, 1982, pp. 117-118). Essa, anche in una prospettiva di contingentamento dei tempi processuali, impone alle parti un termine massimo di quindici giorni per sollevare eventuali eccezioni; termine, che inizia a decorrere dalla contestazione della lite, da quando cioè, nel corso della prima udienza di comparizione, le parti esprimono innanzi al giudice la propria intenzione di contendere (Padoa Schioppa, 2016, pp. 152-153):

È stabilito che, una volta presentata la petizione, accolta questa negli atti della causa principale e notificata alla parte, immediatamente sia fissato il termine di un giorno per permettere al convenuto di replicare a detta petizione; trascorso detto termine, sia nel caso in cui il convenuto abbia replicato sia nel caso in cui non lo abbia fatto, la contestazione della lite deve considerarsi come avvenuta. Inoltre, trascorso detto termine di un giorno … a entrambe le parti, attore e convenuto, sia fissato un termine di quindici giorni per presentare eccezioni, opposizioni.(Statuta Mediolani, 1498, f. 7v)

Si tratta di un termine al quale è tuttavia possibile derogare, tanto che un capitolo dello statuto riconosce alle parti la possibilità di proporre tutte le eccezioni, anche quelle dilatorie, sino al termine del processo. Ciò non deve però provocare un allungamento della durata del giudizio, la cui brevità sta particolarmente a cuore al duca. La mancata menzione delle eccezioni nella sentenza equivale infine al loro rigetto:

È stabilito altresì che tutte le eccezioni e repliche dilatorie, declinatorie, perentorie eccetera, di qualunque natura siano … siano salve per entrambe le parti sino alla fine della disputa, purché a causa di ciò il processo non venga differito. Certamente dette eccezioni dilatorie e declinatorie e simili devono considerarsi rigettate se nella sentenza o negli arbitrati di esse non venga fatta menzione.(Statuta Mediolani, 1498, f. 7v)

Diversi sono gli argomenti che Alciato pone a fondamento del suo atto di impugnazione. In primo luogo, egli contesta che l’eccezione di escussione sia “semplicemente dilatoria”, poiché essa non rileva soltanto sul piano della procedura(Alciato, 1575, t. II, lib. V, cons. CXII, f. 12). Essa a ben vedere, scrive, coinvolge un beneficio della parte la quale, dalla sua prospettiva, non può essere danneggiata per il solo fatto che il processo che la vede coinvolta sia incardinato, non già innanzi al principe, bensì presso una corte presieduta da un suo delegato:

Tale statuto, come detto, riguarda anche un beneficio della parte … e tale beneficio non può venire meno per un cambiamento del tribunale, altrimenti ne scaturirebbe un inconveniente a seconda che il magnifico Fornarius litighi innanzi alla corte suprema ovvero innanzi allo stesso principe.(Alciato, 1575, t. II, lib. V, cons. CXII, f. 129)

Se il giudizio, prosegue Alciato, fosse stato celebrato dal principe, l’eccezione da lui opposta sarebbe stata accolta in forza del diritto comune. E dunque, afferma con vigore, il giudice ha errato allorché ha applicato lo statuto locale in luogo del diritto comune:

Ma poiché il principe ha rimesso la causa a un giudice delegato, Furnarius deve soccombere e così il cambiamento del giudice lo priva di un suo diritto, cosa che rappresenta un inconveniente ed è contrario alla volontà del principe, il quale ha delegato la causa affinché il delegato decida come deciderebbe egli stesso, che ammetterebbe l’eccezione di escussione secondo i termini del diritto comune.(Alciato, 1575, t. II, lib. V, cons. CXII, f. 129)

Queste premesse conducono il giurista milanese a considerazioni ancora più radicali, tanto che egli non esita a sostenere che l’intero procedimento deve seguire il diritto comune. Gli statuti, ammonisce, “nulla sono per il principe e il suo Consiglio”(Alciato, 1575, t. II, lib. V, cons. CXII, f. 129) . Ciò a cui si assiste è dunque un chiaro e frontale attacco alla legge municipale, e proprio in uno dei settori nei quali la sua costante applicazione è stata fortemente difesa dalla scienza giuridica medievale e, ancora in pieno XVI secolo, è argomentata da una parte del ceto dei giuristi.

Il diritto comune è pertanto indicato dal giurista milanese come la fonte di princìpi e regole atti ad assicurare una giustizia vera e giusta. Altri consilia di Alciato sono percorsi dalla stessa insistenza sui diritti di difesa che, conformemente al diritto naturale, devono essere riconosciuti a chiunque e in ogni processo.

Valgono le considerazioni prima esposte circa i limiti che si incontrano ogniqualvolta si tenti di astrarre dai pareri legali costruzioni teoriche generali. Nondimeno, non si può ignorare il fatto che Alciato, nel corso della sua intensa attività di pratico, quando è invitato a pronunciarsi sulla portata, sull’interpretazione e sull’applicazione di uno statuto, spesso impieghi come suo termine dialettico il diritto comune. In un’epoca nella quale il ducato di Milano vive una forte instabilità politica, con conseguente debolezza dei centri di produzione normativa (Birocchi, 2006, pp. 24-25), il giurista culto ripetutamente esalta la funzione centrale del diritto romano-canonico in seno all’ordinamento.

Agli inizi del Quattrocento il pavese Gian Pietro Ferrari aveva invocato il diritto comune quale argine alle mire assolutistiche dei duchi di Milano. In quella prospettiva è stato letto in particolare il suo invito ai giudici cittadini ad aderire alle regole processuali del diritto comune, ritenute le sole in grado di assicurare processi equi e giusti, a fronte delle riforme ducali di segno profondamente diverso (Massetto, 2013a, pp. 842-843; Storti Storchi, 2007, pp. 401-402). È trascorso un secolo dalle riflessioni del pratico pavese, e tuttavia il diritto comune, quantomeno nei pareri di Alciato, continua ad assurgere a quell’altissimo compito di garante dei diritti naturali di difesa. Gli orientamenti politici di Alciato sono tuttora oggetto di attente ricostruzioni da parte della ricerca storica, impegnata nello studio, ancora in larga parte da compiere, delle sue centinaia di responsa (Nobile Mattei, 2018, p. 32). E dunque non è certamente questa la sede per formulare ipotesi circa le posizioni espresse dal giurista nei riguardi della politica dei duchi milanesi. Tuttavia, non è forse del tutto privo di interesse segnalare che più volte nei suoi pareri egli ravvisi nella giustizia amministrata direttamente dal principe o dai suoi governatori l’unico strumento atto a offrire una seria ed equa tutela ai sudditi. E ciò accade sia perché essi ancorano l’intero procedimento alle regole del diritto comune sia perché a differenza dei giudici locali, così si legge in alcuni consilia, lungi dall’essere ancorati alle disposizioni statutarie, alla verifica della loro qualità e della loro costante applicazione, sono guidati dalla sola ricerca della verità dei fatti. Così si esprime difatti Alciato:

Innanzitutto si dice che l’attore che agisce in forza dello statuto deve provare la qualità dello stesso … poiché quando vengono meno le parole della legge, la disposizione stessa viene a mancare … A ciò rispondo che detta qualità non è necessaria nel giudizio innanzi al governatore, poiché egli presta attenzione soltanto alla verità del fatto.(Alciato, 1575, t. I, lib. II, cons. XX, f. 38r)

Qualche considerazione conclusiva

Che i consilia siano un genere letterario oltremodo prezioso per comprendere l’effettiva applicazione dello statuto in età moderna è un fatto sul quale la ricerca storica ha di recente richiamato l’attenzione (Storti, 2015, p. 572). E in effetti, anche i pareri di Andrea Alciato, al pari di quelli di altri eminenti giuristi della sua epoca -primo fra tutti Tiberio Deciani- offrono molteplici spunti di riflessione allo studioso interessato a ricostruire gli ambiti di validità e di efficacia della legge municipale nel corso del XVI secolo.

Come ho ricordato nelle pagine introduttive di questo mio contributo, è tesi riccamente argomentata dalla ricerca storica che in età moderna lo statuto sia una fonte del diritto vivissima. Diversi elementi avallano questa ricostruzione. Si pensi alle tantissime ristampe dei vecchi codici statutari; alle loro traduzioni, finalizzate a metterli a disposizione di un pubblico sempre più vasto; alla pratica della glossa allo statuto; alle molteplici testimonianze della sua concreta e costante applicazione nella prassi giudiziaria (Ortalli, 2001, pp. 20-21). E se si volge poi lo sguardo alla dottrina, ci si imbatte in giuristi che riconoscono e legittimano non solo la validità generalizzata dello ius municipale, ma anche la sua prevalenza nei riguardi di altre fonti concorrenti.

Una dottrina, quella, che però è tutt’altro che univoca, al punto che sono assai frequenti i casi in cui uno stesso giureconsulto, in luoghi diversi della sua opera, abbracci posizioni tra loro lontanissime. Andrea Alciato è senz’altro tra costoro. I suoi Commentaria e i suoi tanti consilia trasmettono difatti l’immagine di un giurista che, allorché riflette sullo statuto e sulla sua validità, esprime orientamenti di segno marcatamente diverso. A passi in cui non esita a qualificare lo statuto come ‘diritto comune’ egli ne giustappone altri in cui la legge municipale subisce un deciso ridimensionamento. E il riferimento, lo si è visto, è sia ad alcuni luoghi delle sue opere teoriche sia soprattutto ai suoi pareri legali nei quali, attraverso sapienti percorsi ermeneutici, nega ripetutamente che lo statuto possa essere applicato nei singoli casi concreti. Anche Tiberio Deciani, i cui pareri sono stati qui oggetto di una riflessione che per la verità meriterebbe ulteriori approfondimenti, quando assume la veste di consulente spesso sottrae la singola fattispecie concreta all’ambito di applicazione dello statuto.

Posizioni, queste, che sollevano dunque più di un dubbio sull’effettiva portata della legge municipale agli inizi dell’età moderna e che fanno riflettere ulteriormente sulla necessità, avvertita anche di recente, di riconquistare il “vero significato della centralità dello statuto” (Ortalli, 2001, p. 14) e di quella che è stata definita come la sua “lunga durata” o “lunga vigenza” (Ortalli, 2015, p. 116).

Un monito, questo, che come ben noto ha condotto Gherardo Ortalli a insistere su una sorta di “forbice statutaria” affermatasi nei decenni di passaggio dal medioevo e all’età moderna (Ortalli, 2001, pp. 19-24,2015, pp 113-116). È stato scritto che a quell’altezza cronologica lo statuto cambia la sua funzione. Se nei secoli precedenti aveva regolato la gran parte degli aspetti della vita dei cittadini, e la sua funzione normativa si era dunque rivelata centrale, ora ciò che assume valore è segnatamente la sua funzione politica. Lo statuto diventa soprattutto uno strumento di difesa della comunità e della sua autonomia di fronte al potere centrale (Ortalli, 2001, pp. 19-24, 2015, pp. 113-116; Storti, 2015, pp. 571-573).

Una tesi, quella, che anche alla luce delle indagini qui condotte sembra trovare più di una conferma. Che allo statuto, ancora in pieno XVI secolo, si possa riconoscere una piena funzione normativa è in effetti affermazione che necessita di essere quantomeno problematizzata. I consilia che si sono qui esaminati, ai quali se ne potrebbero aggiungere molti altri, danno difatti conto di una realtà nella quale la vita dei cives, per lo meno sul piano dell’interpretatio doctorum, non trova più nello statuto la sua prima e principale fonte regolatoria.

Original recibido: 21/06/23. Original aceptado con observaciones: 27/07/23.

Original enviado con modificaciones: 30/09/23.

Original aceptado con modificaciones: 02/10/23.

VI. Fonti primarie

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Note

Alciato (1560b), Comm. in Decretales, 1. 31. 10 c. quod sedem Apostolicam, f.2v.

Alciato (1560b), Comm. in Decretales, 2. 26 De praescriptionibus, n. 16: “Regula est generalis quod statuta debent declarari secundum ius commune” (f. 75v).

Alciato (1560b), Comm. in Decretales, 2. 26 De praescriptionibus, n. 16: “Notat Baldus […]quod licet statuta declarantur secundum ius commune, si tamen facit aliquas exceptiones a regula, non habet locum ius commune, ut aliae exceptiones ultra expressas admittantur; quia in casibus a statuto non exceptis debemus stare statuto, non autem iuri communi”(f. 75v).

Alciato (Alciato 1560b), Comm. in Decretales, 2. 26 De praescriptionibus, n. 16: “Quod dictumvidere esse dubium[…] Illudconstatillasexceptiones expressas secundum iuscommunedeclarari” (f. 75v).

Alciato (1560a), Comm. a D. 28. 1. 31 De testamentis et qui testamenta facerepossint l. De liberis et posthumishaeredibus n. 63: “Praeterea ita interpretanda sunt statuta ut laedaturiuscommuneminusquampossibilesit” (f. 34v).

“Nullo modo possitinterpretari”.

“Credo quod dicipotest, quasistabiliter et firmiterordinatum, istaenimstatuta sunt stabiliter, firmiter et tenaciterobservanda, necabeorumverbis est recedendum” (Alberico da Rosciate, 1606, quaestio I, ff. 1v,2r).

Giasone del Maino (1579a), Comm. a D. 30. 1. de legatis et fideicommissis l. servo legato: “Verba statuti debent stricte intelligi, sicut verba stipulationis” (f. 89v).

“Statuta sunt stricti iuris, ideo stricte intelligenda” (Carpani, 1583, n. 247).

“[…]cum clara sint verba statuti, ab illis non est recedendum” (Deciani, 1594, t. V, cons. II, col. 6).

“Ubi verba statuti sunt clara cavillationes advocatorum non debent habere locum” (Deciani, 1594, t. V, cons. II, col. 6).

“Qui vult obtinere in causa sufficit allegare legem vel statutum, cuius verba sibi serviant” (Deciani, 1594, t. V, cons. XI, f. 12v). E ciò sul presupposto, più volte ripetuto, che quando le parole dello statuto sono chiare non necessitano di alcuna interpretazione.

Locuzioni quali “sit stricte interpretandum, quia statuta ex sua natura sunt stricte interpretationis” e “non licet quid detrahere vel addere verbis statuti” campeggiano nel parere qui in esame.

“Cum statutum istud sit stricte interpretandum, ut supra dixi, et iste casus noster non sit comprehensum expresse in dicto statuto, quia licet enumeret plures modos alienationum […], tamen numquam fuit expressa alienatio per viam feudi qui est casus noster, ergo non debet intelligi comprehensus iste modus […] ergo remanere debet in dispositione iuris communis” (Deciani, 1594, t. V, cons. LXXI, f. 224).

“Statuta recipiunt strictam interpretationem et in eis a verborum proprietate non recedimus” (Alciato, 1575, t. I, lib. II, cons. XIX, f. 37r).

“Statuti natura est quod stricte eius verba intelligantutr, nec ab eius verbis recedatur” (Alciato, 1575, t. I, lib. II, cons. XVIII, f. 37r).

“Ne aliquis de civitate possit acquirere dono, vel emptione actionem aliquam contra civem”.

“a cuius verbis non recedimus” (Alciato, 1575, t. I, lib. II, cons. XVIII, f. 37r).

“Ad idem facit quiastatutum, dum loquitur de persona cedentis, fecitmentionemspecialemsexusfoeminei, dum dicit quod non possitacquirereabaliquo, velaliqua” (Alciato, 1575, t. I, lib. II, cons. XVIII, f. 37r).

“Si aliqua ultima voluntas reperiatur non facta et scripta predicto modo et forma, pro non legitima habeatur” (Alciato, 1575, t. I, lib. II, cons. XXXI, f. 41v).

“Copulative requirit quod reperiatur non facta et non scripta” (Alciato, 1575, t. I, lib. II, cons. XXXI, f. 41v).

“Alternative non autem copulative” (Alciato, 1575, t. I, lib. II, cons. XXXI, f. 41v).

“Nulla est ratio cur a verbis statuti recedamus” (Alciato, 1575, t. I, lib. II, cons. XXXI, f. 41v).

“Statuta sunt intelligenda secundum ius commune” (Caravale, 2005, p. 50).

“Statuta quoad fieri potest, sunt ad ius commune reducenda” (Caravale, 2005, p. 50).

“Quando statuta sunt contraria iuri communi […] tunc restringuntur, quatenus possibile est ut minus laedant ius commune”(Caravale, 2005, p. 50).

Giasone del Maino (1579b), Comm. a C. 6. 30. 22 de iure delib. et de adeunda vel acquir. haered. l. scimus iam n. 12: “statutum aliquid simpliciter disponens, debet tamen intelligi secundum ius commune”; Giasone del Maino, Comm. a C. 6. 4. 16. de successorio edicto l. si mater n. 4: “statutum correctorium iuris communi debet intelligi et interpretari ut minus ledat ius commune”.

“In hac quaestione an contra spoliatum currat praescriptio 40 annorum est quaestio ardua, et a pluribus petractata” (Deciani, 1594, vol. V, cons. LXIII, f. 206v).

“In terminis statutorum Romę confirmatorum per Pontificem illa non exetenduntur ad praeterita” (Deciani, 1594, vol. V, cons. LXIII, f. 207r).

“Statuta nova tantum comprehendant futura, declaratoria vero iuris communis comprehendant etiam praeterita, minus laeditur ius commune, ergo secundum hanc interpretationem iudicandum” (Deciani, 1594, vol. V, cons. LXIII, .f 207v).

“Statuta ad terminos iuris communis restringuntur, maxime si sint correctoria”(Alciato, 1575, t. I, lib. II, cons. V, f. 28).

“Statuta semper ita debemus intelligere, ut non corrigant ius commune”(Alciato, 1575, t. II, lib. 5, cons. CI, f. 120).

“Statuta recipiunt interpretationem a iure communi, ut minus corrigant quam fieri possit”Alciato, 1575, t. III, lib. IX, cons. CLXVI, f. 332).

“Liberi dotem maternam computare debeant in legitima et deinde agant ad supplementum in bonis avi, nisi renunciatum fuisset cum iuramento”(Alciato, 1575, t. II, lib. 5, cons. CI, f. 120).

“Non est recedendum a communi, quae sustinetur optima ratione, quia nepotes non succedunt ex persona matris, ergo eius factum eis nocere non debet” (Alciato, 1575, t. II, lib. V, cons. CI, f. 120).

Statutum vetus simpliciter dicebat “salvo quod non derogetur iuri liberorum prioris matrimonii” (Alciato, 1575, t. I, lib. II, cons. XXII, f. 38v).

“Quo statuto stante, si filii habuissent alia bona aequivalentia doti […] maritus lucratus fuisset totam dotem”(Alciato, 1575, t. I, lib. II, cons. XXII, f. 38v).

“Tamen per additionem in statuto novam factam aliud est, quia quicquid habeant filii de bonis matris adhuc vocantur ad ratam partem dotis”(Alciato, 1575, t. I, lib. II, cons. XXII, f. 38v).

“Non obstat generalitasstatuti, dumdicit‘quibusexistentibus, succedatmaritus in dote in capita’. Quia talisgeneralitas optime verificatur, quandofiliipriorismatrimoniihaberentlegitimam in aliis bonis non dotalibus;ubivero non haberent non est inconveniens quod restringaturstatutum ad terminos iuris”(Alciato, 1575, t. I, lib. II, cons. XXII, f. 38v).

“MagnificiFornarii in causa, quia pręstantissimus D. Iudexadhucdubitat, ut in margine allegationummearumapparet, dissolvampauciseaquaevideturobstare. In primisdum dixi, quod exceptioexcussionis est admittenda non obstantestatutocommunisMediolani” (Alciato, 1575, t. II, lib. V, cons. CXII, f. 129).

“Statuitur quod statimpetitioneporrecta et in actisdimissa in causa principali et parti notificata ut supra, statutussit et esse intelligatur ipso iure terminus uniusdieiutilisimmediatesequentisreodeliberandi et respondendi dicte petitioni; quo terminoelapso, sivereusresponderitsive non, habeatur lis pro contestata. Et elapsodictoterminouniusdieiutilisvelcontradictionelegiptimefacta[…] statitimstatutussit et esse intelligaturutrique parti, videlicetactori et reo, terminus quindecimdierumutiliumexcipiendi, opponendi”(StatutaMediolani, 1498, f. 7v.).

“Statuiturquoque quod omnesexceptiones, replicationesdilatorie, declinatorie, perentorie et cetere, cuiuscumque generis sint, de quibus non sitcognitum et decisum inter partes, sint salve utrique parti in finis litistemporedisputationis, ne ob hoc processus cause differatur. Que quidemexceptionesdilatorie et declinatorie et similesreiecteintelligantur si de ipsis in sententiavelarbitriisvelarbitramentisvel in pronunciationeferendafactamentio non fuerit”(StatutaMediolani, 1498, f. 7v.).

“Sed certe si istaexceptioesset simplex dilatoria, posset hoc dici;sed ut dictum est concernitetiambeneficium partis […] et non debet tale beneficium ex mutationefori partibus auferre, alioquinsequereturinconveniens, quod si MagnificusFornariuslitigaret de hac re in supremacuriaseu coram ipso Caesareobtineret”(Alciato, 1575, t. II, lib. V, cons. CXII, f. 129).

“Sed quia Caesar commisithanccausamsuaedonationisiudicidelegato, quod debeatFurnariussuccumbere, et sic mutatioiudiciseiauferretiussuum, quod est incoveniens et contra mentemMaiestatis, qui demandavitcausam ut delegatusfaciat quod ipseCaesar essetfacturu, qui talemexceptionemexcussionisadmitteret secundum terminos iuris communis”(Alciato, 1575, t. II, lib. V, cons. CXII, f. 129).

“Nam respondeo quod styluscuriae est secundum ius commune […] nec sufficiuntstatutacivitatum quia illa nihil ad Caesaremseueiusconsilium”(Alciato, 1575, t. II, lib. V, cons. CXII, f. 129).

“Et in primisdumdicitur quod agens ex statutodebetprobarequalitatesstatuti […] quia ubideficiunt verba legis, deficitdispositio […] Respondeo primo quod satis est qualitatem intervenire per aequipollens […] Secundo respondeo quod dicta qualitas non est necessaria in iudicio coram gubernatore, qui ad solam facti veritatem attendit per supradicta”(Alciato, 1575, t. I, lib. II, cons. XX, f. 38r).

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