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Cuadernos del Centro de Estudios en Diseño y Comunicación. Ensayos

On-line version ISSN 1853-3523

Cuad. Cent. Estud. Diseñ. Comun., Ensayos  no.127 Ciudad Autónoma de Buenos Aires Feb. 2024  Epub Nov 11, 2023

http://dx.doi.org/10.18682/cdc.vi127.4580 

Articolo

La moda come sistema di segni nel mondo iperconnesso

Patrizia Calefato1 

1 Professoressa Ordinaria di Sociologia dei processi culturali e comunicativi. I suoi ambiti di ricerca riguardano la comunicazione e i linguaggi della contemporaneità, la teoria di moda, il corpo nella comunicazione, gli studi culturali e postcoloniali, gli studi di genere, il linguaggio come pratica sociale. E’ stata Affiliated professor del Centre for Fashion Studies dell’ Università di Stoccolma. Fa parte dei comitati scientifici di riviste scientifiche, tra le quali “Fashion Theory”, “Semiotica”, “Journal of Asia Pacific Pop Culture”, e di collane editoriali, tra le quali “Les Cahiers Européens de l’imaginaire” (Paris: CNRS), “Motus: studi sulle società” (Milano: Meltemi), “Culture, moda e società” (Milano: Bruno Mondadori). Tra le sue ultime pubblicazioni: Sovereign Time, in Caroline Evans and Alessandra Vaccari eds., Time in Fashion, London, Bloomsbury 2020; Fashionscapes, in Adam Geczy and Vicki Karaminas (eds.), The End of Fashion. Clothing and Dress in the Age of Globalization, London: Bloomsbury, 2019; Lusso. Il lato oscuro dell’eccesso, Milano: Meltemi 2018; Paesaggi di moda: corpo rivestito e flussi culturali, Milano: Lupetti, 2016; Fashion Journalism, Berlin: OPS, 2015; Luxury. Fashion, Lifestyles and Excess, London-New York: Bloomsbury, 2014.

Sommario

Questo articolo si concentra sul ruolo della moda come sistema transculturale in grado di esprimere tensioni, ibridazioni, traduzioni, tra i linguaggi del corpo, nel contesto della condizione di iperconnessione propria dell’epoca contemporanea. Il concetto di fashionscapes, coniato sul modello dei flussi culturali globali articolati in -scapes di Appadurai, esprime un’idea di moda che oggi dà vita a paesaggi, prospettive, territori, reali e immaginari, fatti di materia fisica e materia segnica, di corpi organici e dati digitali. Il saggio analizzerà le trasformazioni introdotte nel mondo della moda dalla pandemia di Coronavirus, con particolare riferimento al ruolo dei media digitali.

Parole chiave: Moda; corpo; fashionscapes; moda e pandemia; digital fashion

Resumen

Este artículo se centra en el papel de la moda como un sistema transcultural capaz de expresar tensiones, hibridaciones, traducciones, entre los lenguajes del cuerpo, en el contexto de la condición hiperconectada de la era contemporánea. El concepto de fashionscapes, acuñado sobre el modelo de flujos culturales globales articulados en Appadurai -scapes, expresa una idea de moda que hoy da vida a paisajes, perspectivas, territorios, reales e imaginarios, hechos de materia física y materia de signos, de cuerpos orgánicos y datos digitales. El ensayo analizará las transformaciones introducidas en el mundo de la moda por la pandemia del Coronavirus, con especial referencia al papel de los medios digitales.

Palabras clave: moda; cuerpo; fashionscapes; moda y pandemia; moda digital.

Abstract

This article focuses on the role of fashion as a cross-cultural system capable of expressing tensions, hybridizations, translations, between the languages of the body, in the context of the hyper-connected condition of the contemporary era. The concept of fashionscapes, coined on the model of global cultural flows articulated in Appadurai -scapes, expresses an idea of fashion that today gives life to landscapes, perspectives, territories, real and imaginary, made of physical matter and sign matter, of organic bodies and digital data. The essay will analyze the transformations introduced in the fashion world by the Coronavirus pandemic, with particular reference to the role of digital media.

Keywords: Fashion; body; fashionscapes; fashion and pandemic; digital fashion.

Resumo

Neste artigo enfoca o papel da moda como sistema transcultural capaz de expressar tensões, híbridos, traduções, entre as linguagens do corpo, no contexto da condição hiperconectada da era contemporânea. O conceito de “paisagens da moda”, cunhado no modelo dos fluxos culturais globais articulados nas paisagens Appadurai, expressa uma ideia de moda que hoje dá vida a paisagens, perspectivas, territórios, reais e imaginários, feitos de matéria física e matéria de signos, de corpos orgânicos e dados digitais. O ensaio analisará as transformações introduzidas no mundo da moda pela pandemia do Coronavirus, com particular referência ao papel das mídias digitais.

Palavras chave: Moda; corpo; paisagens da moda; moda e pandemia; moda digital.

1. La moda come sistema di segni

L’abito, il rivestimento, gli oggetti di cui ci copriamo, i segni che ci incidono o ci decorano sono le forme attraverso cui i nostri corpi entrano in relazione con il mondo e tra loro. Così come il linguaggio è il congegno di modellazione del mondo tipico della specie umana, allo stesso modo il vestire, in ogni società e cultura, è una forma di progettazione, di simulazione del mondo, valida per la società e per l’individuo, che si realizza in segni e oggetti attraverso cui il corpo si situa temporalmente e spazialmente nel suo ambiente circostante.

Pur in differenti situazioni storiche, sociali e geografiche, gli esseri umani hanno sempre avuto con gli abiti, con gli oggetti che rivestono e con i segni artificiali del corpo un rapporto molto particolare, basato sulla convinzione che le relazioni interne tra tali elementi e tra questi e il corpo siano regolate da una logica sensata, sia essa collettiva o personale. Claude Lévi-Strauss (2010) ha descritto esemplarmente questo fenomeno, attraverso lo studio antropologico di quello che ha chiamato bricolage, l’arte selvaggia di collegare tra loro oggetti apparentemente privi di alcuna connessione, la cui collezione si presenta invece, dal punto di vista del soggetto che la realizza, come un sistema organizzato e omologo rispetto al mondo, come un linguaggio, e per meglio dire, come un pezzo di società materializzata in oggetti, stili, riti, modi dell’apparire corporeo.

Se il vestire è paragonabile a un linguaggio, la moda è il sistema di segni verbali e non verbali attraverso cui questo linguaggio si manifesta nella modernità. Certo, delle mode sono esistite anche in epoche precedenti quello che comunemente chiamiamo il moderno, diffondendosi sempre nell’ambito di élite delimitate e convivendo con il costume diffuso tra i vari gruppi sociali. Possiamo in qualche modo anche parlare di “moda” in riferimento alle diverse linee e tendenze che nel tempo hanno influenzato il cambiamento di abiti e stili dell’apparenza relativi a funzioni rituali, religiose, politiche, militari. Caratteristico però di ciò che chiamiamo “moda”, almeno da quando Simmel scrisse il suo fondamentale saggio, nel 1895 (1976), è la effettiva o potenziale riproducibilità di massa del sistema, la sua riproducibilità tecnica, e oggi tecnologica, nella società.

A partire dalla rivoluzione informatica e digitale di fine Novecento, la moda è stata pervasa e reinventata dalle nuove tecnologie e dai nuovi media. Oggetti di comunicazione, come gli smartphone, sono fatti per essere indossati; la comunicazione di moda si basa oggi essenzialmente su piattaforme online, come blog e social network; la produzione di moda è strettamente legata alle tecnologie digitali; nel commercio e nel consumo di moda vetrine e vendite online si sono affermate in modo preponderante.

La moda è oggi un mezzo di comunicazione di massa che si riproduce e si diffonde secondo sue proprie modalità e che al tempo stesso entra in relazione con altri sistemi mediatici, come il giornalismo specializzato, la fotografia, il cinema, il marketing, la pubblicità, i social media. Al pari di alcuni di questi sistemi, la moda si caratterizza anche come forma d’arte riproducibile, arte mondana, in questo senso praticabile con pari dignità, seppur con diverso valore estetico, sia nell’atelier del grande stilista che davanti allo specchio di casa. Per questa sua caratteristica legata alla vita quotidiana, c’è chi preferisce parlare di stili o di look, lasciando che il termine “moda” serva ad indicare soltanto l’haute couture e il lusso. Una volta consapevoli della multiformità dei campi socioculturali e delle valenze semantiche cui fa riferimento il termine moda, però, possiamo assumerlo con più efficacia di termini come stile o look.

Quando si parla di moda, si parla infatti necessariamente anche di corpo, dei corpi che questa moda riveste: “Il Corpo Rivestito” (Calefato, 2004) è un soggetto che si manifesta attraverso l’aspetto visibile, il suo essere al mondo, il suo stile delle apparenze. In questa accezione, il corpo è inteso come performance, cioè come costruzione sempre aperta dell’identità materiale, come dimensione mondana della soggettività. Questa concezione tiene conto di come nelle società occidentali precise regole e gerarchie abbiano costruito il corpo umano come sede di relazioni di potere, ma non contrappone a questa realtà una visione corporalista che concepisca il corpo come la sede di innate energie e pulsioni da liberare nella loro nudità. Tutt’altro: proprio a partire dall’idea che il corpo nudo non esiste, l’immagine del corpo rivestito ci mostra un corpo le cui potenzialità di sottrarsi alle gerarchie e ai discorsi sociali che lo riducono a oggetto e strumento di conoscenza stanno tutte nella capacità parodica, grottesca, ironica, che il corpo umano ha di non lasciarsi contenere in abiti di contenzione, ma di entrare in relazione autentica con gli altri corpi. Il corpo rivestito è pertanto un corpo in cui assumono profondo valore le aperture, la confusione dei segni, le intersezioni tra discorsi.

Pensiamo alle strategie intertestuali di cui la moda si serve: il cinema, i social network, la letteratura, l’arte figurativa, la fotografia, la cultura metropolitana sono una riserva inesauribile di immagini cui le mode attingono e che a loro volta alle mode si ispirano.

Roland Barthes pensava che, come i miti d’oggi, anche il Sistema della Moda contenesse un “male sociale, ideologico” caratteristico di tutti quei sistemi di segni che non si dichiarano chiaramente come tali (Barthes, 1986, p. 65). Il mito contemporaneo di cui anche la moda fa parte, infatti, secondo la celebre analisi barthesiana, ha il compito di realizzare una sorta di furto di linguaggio, di naturalizzare ciò che è culturale nella forma del sapere approssimativo e stereotipato tipico dell’ Endoxa, di istituire “un’intenzione storica come natura, una contingenza come eternità” (Barthes, 1974, pp. 212-222). E’vero, il discorso della moda si presenta molto spesso come presunta naturalità del corpo: pensiamo ad esempio a come la differenza tra i sessi sia stata nella storia del costume una delle frontiere invalicabili in base alla quale i corpi degli uomini e delle donne sono stati costruiti nella realtà privata e nella rappresentazione pubblica secondo una logica dualistica. Tuttavia, proprio perché il vestire espone il corpo a una metamorfosi sempre possibile, la moda della nostra epoca si è concessa di “raccontare” queste metamorfosi, di raccontare in qualche modo se stessa, ostentando, insieme ai suoi segni esteriori, anche i procedimenti culturali, a volte perfino tecnici, che hanno generato quei segni.

Mimando la mascherata carnevalesca, la moda ha permesso così la confusione dei ruoli sessuali, ha evidenziato in superficie ciò che era sotto: etichette, biancheria intima, cuciture, ha invertito la funzione ricoprente dei tessuti adottando le trasparenze, ha rotto gli equilibri e i rigidi funzionalismi del costume tradizionale e dell’abito rituale, ha adottato la citazione intertestuale come tecnica costante, ha insomma in un certo senso reso il corpo discorso, segno, cosa. Il corpo percorso dalla discorsività di cui abiti e oggetti sono intrisi è un corpo esposto alla trasformazione, all’apertura grottesca verso il mondo, un corpo che potrà sentire e gustare ciò che anche il mondo sentirà e gusterà, se solo riuscirà a lasciarsene attraversare.

2. La fine della moda?

Nel suo libro “Modernità in Polvere” Arjun Appadurai espone la sua visione del mondo contemporaneo come “un insieme di interazioni su larga scala” (Appadurai, 2012, p. 27) che si sono rivelate in modo nuovo e con una diversa intensità rispetto a come si erano presentate in epoche precedenti “Il mondo in cui oggi viviamo è caratterizzato da un ruolo nuovo assegnato nella vita sociale all’immaginazione” (Appadurai, 2012, p. 31).

Appadurai considera l’immaginazione come una forza produttiva attiva e come un fatto sociale in grado di fungere da cardine nelle interazioni culturali globali del nostro tempo. In esse, dice Appadurai, si verifica una costante tensione tra omogenizzazione ed eterogenizzazione (p. 32). Quella che chiamiamo globalizzazione, in altre parole, contiene al suo interno tendenze contrastanti, sintetizzabili per esempio nella diade globale/locale. Entro questa diade, alcune pratiche culturali come la comunicazione web, la cucina e la moda dimostrano come si esplichi la complessità del presente.

Nel caso della comunicazione web, i social network ci rivelano esemplarmente come oggi l’idea del villaggio globale introdotta da Marshall McLuhan si concentri in realtà, allo stesso tempo e contraddittoriamente ora sul lato del “globale” cioè di una comunicazione realizzata con amici sconosciuti in luoghi situabili potenzialmente sull’intero pianeta, ora sul lato del villaggio cioè della dimensione familiare, amicale, “neotribale”, della comunicazione stessa (Maffesoli, 2004; Danesi, 2013). Nel caso della cucina, aggettivi come etnica, esotica, nazionale, oggi convivono e anzi traggono linfa dalla planetarizzazione delle abitudini e delle mode culinarie; a loro volta queste ultime esaltano sempre più il chilometro zero, l’autoproduzione, gli orti urbani, i mercati dei contadini come pratiche culturali e politiche per il benessere comune e la sostenibilità. Nel caso della moda, che qui ci interessa soprattutto, si mostra con evidenza crescente, negli ultimi due decenni almeno, come la sua dimensione economica e culturale globale, rappresentata sia dai grandi marchi e dai poli del lusso, sia dalle multinazionali del low-cost, debba sempre più fare i conti con caratteri locali, idiolettali, perfino personali, del vestire che si esprimono sempre più intensamente attraverso stili quotidiani, forme di produzione domestica e laboratoriale degli abiti e degli accessori, nonché scambi, traduzioni e fusioni imprevedibili tra i segni di moda che circolano nell’immaginario sociale attraverso i media digitali.

Appadurai (2010) ha classificato le relazioni fondamentali tra economia, cultura e politica nel mondo di oggi secondo le cinque dimensioni dei flussi culturali globali: ethnoscapes, mediascapes, technoscapes, financescapes, ideoscapes. Ciascuna di queste dimensioni, la cui natura è spiegata dal rispettivo tema antecedente il suffisso inglese -scape- mostra il nostro mondo come un paesaggio fluido, in movimento costante, mostra, scrive Appadurai, “i mondi molteplici che sono costituiti dalle immaginazioni storicamente localizzate di persone e gruppi diffusi sul pianeta” (Appadurai, 2012, p. 33).

Ho proposto di introdurre, in assonanza con questi -scapes-, la dimensione dei fashionscapes, termine con cui intendo riferirmi alla disposizione stratificata, ibrida, molteplice e fluida degli immaginari del corpo rivestito nel nostro tempo (Calefato, 2019). I fashionscapes configurano oggi la moda secondo meccanismi nuovi rispetto sia al modello classico -imitazione e distinzione, dalle classi agiate alle masse- introdotto dall’analisi sociologica di Simmel, sia ai modelli tardo-novecenteschi fondati sul rapporto tra moda istituzionale e sottoculture, schematizzabili nello slogan: dalla strada alla passerella. Il concetto di mass-moda, da me introdotto negli anni ‘90 (Calefato, 1996), rende conto di come quei modelli si siano andati modificando alla fine del Novecento confrontandosi con “una complessità di tensioni, di significati e di valori -non solo relativi alla dimensione vestimentaria” (Calefato, 2007, p. 13) della moda. Come scrivevo nell’Introduzione del 2007 alla nuova edizione di Mass moda, questa complessità ha al suo centro il corpo e le modalità del suo essere al mondo, del suo rappresentarsi, del suo mascherarsi, travestirsi, misurarsi e confliggere con stereotipi e mitologie (p. 10).

Anche rispetto alla formula della mass-moda, però, sembrano essersi aperti ulteriori scenari che, pur partendo dalla moda o muovendosi intorno a essa, portano la moda oltre se stessa (Calefato, 2011). La metafora dei fashionscapes può ben illustrare questa mutazione in virtù della quale la moda fa parte integrante dei flussi culturali globali della contemporaneità. Gli studi internazionali di moda hanno piena consapevolezza di questa trasformazione, come dimostra, per esempio, il recente volume dal titolo provocatorio The End of Fashion (Geczy, Karaminas, 2019). Il titolo trae spunto dall’idea sviluppata dalla trend forecaster olandese Lidewij Edelkoort che ha proposto un Manifesto anti-moda in dieci punti1 nel quale ipotizza che la moda sia oggi obsoleta nella forma in cui l’abbiamo conosciuta sinora. Gli elementi su cui si basa questa consapevolezza riguardano fondamentalmente: le modalità di produzione, comunicazione e consumo del sistema moda e il conseguente rapporto della moda con il tempo alla luce della diffusione dei media digitali e del web; le relazioni tra globale e locale; la distinzione sempre meno percepibile tra moda e arte; la dissoluzione e fluidificazione dell’idea di identità in relazione all’abito.

La risposta alla provocatoria domanda, è finita la moda? è però certamente no, nella consapevolezza che sono però cambiate le forme in cui la moda è stata definita come tale fino allo scorso secolo. La moda, come la storia, non finisce, anzi la moda continua in modo profondo a connotare il senso della storia e il rapporto tra presente e passato. E’ però finita l’idea di una moda intesa solo come ornamento, posticcio, accessorio, perché la dimensione estetica si è trasformata in dimensione etica. E’ finita l’idea della moda come scusa per poter sfruttare indiscriminatamente materiali, persone, beni, allo scopo dell’unica ragione del profitto. E’ finito l’abbaglio che il progresso, nelle forme, nei materiali, nelle tecnologie, porti necessariamente al bello e al bene per la collettività. E’ proprio la moda, come diceva Benjamin, a mostrarci quanto sia illusoria l’idea di un progresso lineare e orientato necessariamente all’evoluzione dell’umanità (E’proprio la moda, oggi, nella sua concezione etica e critica, a condividere la preoccupazione globale nei confronti della sostenibilità dei nostri comportamenti produttivi, comunicativi e di consumo. Proprio la moda, secondo settore di inquinamento globale, dopo il petrolio, sa che se vuole avere un futuro, di futuro dovrà preoccuparsi. Ed è la tecnologia, sia quella comunicativa (blog e social network come mezzi per la re-intermediazione e ri-umanizzazione della comunicazione), sia quella relativa ai nuovi materiali (tessuti, protesi, nanotecnologie) a porre la moda oggi in crescente rapporto con i sensi.

3. Globalizzazione virale e fashioncapes

La pandemia di Coronavirus scoppiata nel 2020 ha posto al mondo della moda, sia nella pratica che nella teoria, importanti sfide che si pongono esattamente nella direzione su indicata. Il mondo contemporaneo si è confermato essere un paesaggio in movimento costante, attraversato da un insieme di flussi globali, secondo la su citata visione di Appadurai, che oltre a persone, immagini, narrazioni, merci, messaggi, impulsi digitali, comprendono anche esseri infinitamente piccoli quali i virus. A distanza di qualche settimana l’una dall’altra, tutte le zone del mondo ne sono state colpite: il Coronavirus ha viaggiato infatti nell’intero pianeta in modalità omologhe a quelle di popolazioni, merci e messaggi.

La velocità dello spostamento, la velocità della comunicazione, tanto importante nell’epoca dell’iperconnessione tecnologica globale, questa volta, non ha riguardato però solo i flussi di bit e di dati che si muovono sulle reti telematiche, ma il corpo fisico microscopico del virus e conseguentemente i corpi fisici delle persone e delle comunità che ne sono state direttamente infettate.

Cosa ha a che fare la moda con la pandemia? La prima risposta a questa domanda riguarda proprio la sopravvivenza materiale di un sistema che, a dispetto di chi pensa sia solo un fatto di vestitini e vanità, è uno dei giganti che reggono la vita produttiva e culturale del mondo intero. Dall’inizio di gennaio al 24 marzo del 2020 l’industria mondiale della moda ha perso il 40 percento del suo intero fatturato (BOF 2020, p. 6). Hanno sospeso la loro attività negozi e fabbriche, dalle più affascinanti boutique del centro di Milano e Parigi, alle manifatture che producono per l’industria del low cost in Bangladesh. Ordini per milioni di euro sono stati disdetti, settimane della moda e fiere in tutto il mondo cancellate. I negozi online, che pure sono stati gli unici a restare aperti e hanno goduto del rilancio generale del commercio via Internet durante i periodi di lockdown, non hanno potuto far fronte agli ordini proprio per mancanza di produzione, e comunque per molti mesi la vendita online non ha compensato le perdite dei negozi fisici. Milioni di posti di lavoro nel settore moda sono stati persi ovunque. In Italia, paese che detiene il 41 percento della produzione di tessile e abbigliamento in Europa, la crisi sia economica che sociale è stata devastante, particolarmente in questo settore come anche nei circuiti che appartengono comunque al benessere e all’estetica del corpo - dai parrucchieri, ai centri estetici, alle palestre.

L’occasione, se così si può chiamare, del covid 19, ha offerto alle aziende di moda, sia alle grandi che a quelle più piccole e certamente più colpite dalla crisi e dalla recessione che ne è seguita, la possibilità di tradurre in pratica gli impegni etici assunti da alcuni anni. Le prime iniziative di alcune aziende sono state così rivolte a riconvertire la produzione, o una sua parte, per realizzare beni utili a combattere la pandemia, in primo luogo le mascherine. In Italia, una delle prime aziende a impegnarsi in questo senso è stata la Miroglio che, già a marzo 2020, ha trasformato alcune sue linee in comparti per produrre mascherine di cotone lavabili e riutilizzabili. Molte altre aziende legate alla moda, in tutto il mondo, si sono impegnate nella produzione di vari presidi sanitari, dai camici agli scudi per il volto, necessari per medici e infermieri, ma non solo. Intorno alla metà di marzo, grandi nomi come Gucci, Fendi, Prada, Valentino, Scervino, Ferragamo e molti altri, insieme ai più piccoli, si sono messi al lavoro per produrre questo genere di indumenti atti a rivestire il corpo per difenderlo dal contagio, tutelando insieme la collettività.

Nei momenti di crisi mondiali, il sistema moda ha già altre volte agito in forme eccezionali che hanno lasciato un segno importante nella storia. C’è una famosa fotografia di Cecil Beaton pubblicata su “Vogue Inghilterra” del settembre 1941 in cui è ritratta una modella che passa accanto a un angolo di Londra in macerie dopo un bombardamento. Indossa uno smilzo tailleur grigio ed è ripresa di tre quarti, mentre volta la testa verso le rovine urbane. Non vediamo il suo sguardo, ma possiamo immaginarla mentre si rivolge a quello spettacolo come a una vetrina crudele nella sua mattinata di shopping. La foto si intitola “Fashion is indestructible”, frase che in quel momento era un segno di consolazione, di rassicurazione: la moda si assumeva il compito di risarcire il mondo dalla distruzione della guerra. Oggi questo senso non può passare attraverso forme consolatorie, ma attraverso la consapevolezza che il bello può esistere solo se è anche un bene.

Cresce e crescerà, per esempio, la fiducia in quelle aziende che rivolgono attenzione alla dignità dei lavoratori e del lavoro. Assumono valore piccoli e grandi gesti nel mondo del lusso, come la decisione che Hermès e Chanel in Italia e Francia hanno preso nel marzo-aprile 2020 di non ricorrere alla cassa integrazione per i lavoratori durante la chiusura degli stabilimenti, in modo da non gravare sui conti pubblici e far sì che gli stati potessero dare priorità agli aiuti rivolti alle aziende più vulnerabili e concentrare le risorse sul sistema sanitario, sul personale infermieristico e sulle organizzazioni di soccorso. Brunello Cucinelli, illuminato imprenditore italiano del cachemire, ha scritto sul suo profilo Instagram delle lettere (“Lettera di primavera”2 e “Lettera del tempo nuovo”3) in cui ha invitato i suoi collaboratori e amici alla consapevolezza e alla speranza, alla certezza di un tempo nuovo “per rimettere insieme un rapporto virtuoso tra umanesimo e tecnologia, tra spirito e armonia, tra profitto e dono”4. Armani, Prada, Burberry, Valentino e molti altri grandi marchi hanno fatto grosse donazioni in denaro a favore della lotta contro il Coronavirus: in questi casi il valore del dono senza contropartita si colloca nell’ambito di quelle che Appadurai chiama “deviazioni dal sentiero delle merci” (Appadurai, 2013), che portano l’idea del valore al di là dello scambio e del mercato. Di grande importanza, programmatica per tutto il settore del lusso, è stata poi la lettera aperta di Giorgio Armani pubblicata su “WWD” il 3 aprile in cui lo stilista afferma che la crisi è un’opportunità per definire un more meaningful landscape, in cui si ridia un valore umano alle cose e ai cicli di produzione, vendita e consumo5.

Il lusso assume un valore simbolico profondo nella crisi, proprio quando la moda come settore dell’economia appare particolarmente devastata dalle chiusure della produzione e dalle limitazioni della circolazione, con la conseguente perdita di milioni posti di lavoro in tutto il mondo, la cancellazione di appuntamenti, fiere e sfilate. Quanto mai attuale appare il rapporto tra il lusso e l’idea di un tempo duraturo, eterno, rappresentato da oggetti e beni che diano il senso della continuità delle cose e della vita. A livelli estremi questo può essere esemplificato in modo scioccante dalla notizia, riportata da alcuni social network cinesi e ripresa da “WWD”6, che lo store Taikoo Hui di Hermès a Guanzhou, appena riaperto l’11 aprile 2020 dopo il lockdown, abbia fatturato 2,7 milioni di dollari in un solo giorno, in gran parte dovuti alla vendita di pezzi rari, tra i quali una borsa Himalayan Birkin tempestata di diamanti. Il massimo dell’eternità è anche il massimo dell’eccesso, in questo caso.

In forma non così estrema, alcuni valori che animano il lusso, a cominciare da quelli di eternità e benessere, tenderanno sempre più a instillarsi anche nell’attribuzione di valore ad oggetti quotidiani e a nuove pratiche di consumo. La pandemia non è una guerra, certo, eppure gli stili di vita frugali introdotti dalla crisi, promuovono, proprio come accade in una guerra e poi in un dopoguerra, forme come la produzione domestica, il riciclo, il riuso degli indumenti. La crisi può trasformarsi allora nell’occasione per attribuire agli oggetti, compresi quelli di moda, nuove scale di valore, come la durata, la qualità, la personalizzazione, la consapevolezza sul processo di produzione. Anche e proprio nel momento in cui la vita produttiva riprende, è necessario ripensare a nuove e più autentiche priorità.

Corpo individuale e corpo sociale non sono separati: dalla protezione dell’uno dipende la salute di molti, come dimostrano le scelte di distanziamento sociale realizzate anche attraverso le diverse forme di rivestimento dei corpi e di separazione degli spazi. Questa idea di reciprocità e di interdipendenza rimette oggi al centro la dimensione del collettivo, dopo che il neoliberismo aveva invece negli ultimi decenni esaltato l’individualismo come suo modello dominante e vincente. L’allontanamento tra i corpi, l’adozione quotidiana di fastidiose “protesi” come le mascherine, la riduzione degli spostamenti fisici delle persone e l’isolamento tutelano la collettività, nel sacrificio dell’individualismo: può sembrare un paradosso, ma sono spesso i paradossi a produrre nuove consapevolezze. Noi tutti viviamo l’isolamento e il distanziamento con sofferenza perché si tratta di forme di disgregazione dei gruppi sociali, dai piccoli nuclei familiari alle più grandi comunità, e giustamente facciamo di tutto per tornare prima possibile a poter condividere l’intercorporeità e la connessione fisica, non solo tecnologica, tra le persone. Quello che però la metafora del virus permette di comprendere nella situazione eccezionale è la dimensione collettiva e necessariamente collaborativa delle scelte forzate che i nostri corpi sono costretti a compiere. Anche la trasformazione prossemica, cioè il diverso uso degli spazi che siamo chiamati a realizzare nei luoghi pubblici: l’uso delle mascherine, il distanziamento reciproco, la protezione delle postazioni di lavoro e di studio, la separazione dei front-office, ecc. hanno un significato sociale di reciprocità.

La stessa salvaguardia dei nudi corpi e della nuda vita si lega strettamente alla modalità di rivestirsi dei corpi stessi. Il corpo rivestito, come quello di medici, infermieri, operatori dei servizi sociali, cassiere dei supermercati, operatori ecologici, il corpo di ogni semplice cittadino, attraverso il suo vestito protettivo conforme a protocolli sanitari e magari anche a un’estetica tutta da inventare, protegge la vita di altri: ciascuno, nel suo piccolo, protegge potenzialmente l’intera collettività. Ed è un grosso cambiamento di mentalità quello secondo cui il vestito e l’accessorio, da segni di identità individuale, si trasformano in segni di socialità solidale. Il contributo a questo cambiamento viene alimentato direttamente dall’impegno delle aziende tessili e del mondo della moda, inteso in senso ampio come mondo che produce idee, oggetti, materiali vecchi e nuovi, tecnologie, stili e forme che servono a realizzare il rivestimento dei corpi umani.

4. Digital fashion?

Le tecnologie comunicative sono oggi un elemento essenziale in ogni campo, e in quello della moda in particolare, come è stato dimostrato sia durante il lockdown, sia nel periodo del distanziamento sociale. Come esempi possono essere riportate le settimane della moda di Tokio e Shangai, a marzo 2020, quelle gender neutral di Londra e di Milano, e quella maschile di Parigi, tra giugno e luglio, che sono state programmate online. O ancora, l’iniziativa online China, we are with you, tenutasi a Milano durante le sfilate di febbraio 2020, quando la pandemia era apparentemente diffusa ancora solo in Cina, per coinvolgere il mondo della moda di quel paese forzatamente assente dalle passerelle italiane.

Online è andato anche, il 5 maggio dello stesso anno, il Met Gala, il tradizionale ballo del Metropolitan Museum di New York che negli ultimi anni è diventata la più eccentrica e magnificente fiera delle vanità e del lusso a fini di beneficenza. Dal canale YouTube dedicato e dalle pagine Instagram delle celebrities, si sono così viste le immagini delle edizioni passate, condite con un tocco di tristezza, nostalgia e anche un po’ di ironia. La modella Imam, ad esempio, ha postato una foto del Gala 2016 che la ritrae accanto al marito David Bowie; Julia Roberts si è fotografata nel bagno di casa sua vestita con l’abito favoloso che avrebbe indossato: “Questa sono io...non vado al Ballo stasera”, commenta.

In realtà, già negli ultimi due decenni, la moda aveva spostato gran parte della sua vita sulla rete. Fashion blog, redazioni web, influencer su Instagram e YouTube, sfilate e negozi online, alcuni dei quali, come Etsy, dedicati particolarmente all’artigianato e al vintage, da tempo integrano o sostituiscono del tutto le tradizionali forme di comunicazione e di consumo in presenza dei segni di moda. Attraverso questi mezzi, anche la moda, come le altre forme di comunicazione, si è pertanto disintermediata. I soggetti interconnessi, cioè, partecipano direttamente ai momenti della comunicazione, del consumo e in un certo senso anche della produzione degli oggetti e dei segni di moda. Le forme in cui ciò avviene comprendono, ad esempio, la valutazione degli articoli acquistati, oppure la costruzione del gradimento degli influencer a colpi di Like, insomma l’intervento diretto dei soggetti in rete, senza passare attraverso le tradizionali agenzie di mediazione del sistema, come le riviste specializzate, le settimane della moda tradizionali, o le boutique. Non si tratta però di un semplice trasferimento di sede, dal cartaceo al digitale, o dal negozio nelle vie del centro cittadino allo shop sul web. Quello che è avvenuto è stato un processo di autentica traduzione che ha trasformato qualitativamente e in certi casi definitivamente i processi di comunicazione e le forme culturali del nostro tempo.

La crisi collegata al Coronavirus e la congiuntura devastante del settore stanno però ulteriormente trasformando il rapporto tra moda e media digitali. In direzione opposta rispetto alla disintermediazione, si accentua infatti e si accentuerà sempre più un processo di reintermediazione comunicativa. E, paradossalmente, proprio in epoca di distanziamento fisico e sociale, questa reintermediazione ha al centro i nostri corpi. Non a caso la moda favorisce questa centralità, perché ha a che vedere con il corpo nella sua materialità, e dunque la prospettiva che essa coinvolge non può che resistere costitutivamente all’illusione fugace della disintermediazione. Dico illusione perché la disintermediazione, per realizzarsi, ha in realtà bisogno della massima mediatizzazione possibile, quindi è un concetto in sé contraddittorio, se non in certi casi mistificante.

Quanto tempo dura infatti un like? Quanto credibile nel tempo è un blogger o uno YouTuber? Il virus mette tutti alla prova, compresa la stessa viralità dei media. Parlare di reintermediazione, ovviamente, non può prescindere dalla realtà dell’ecosistema digitale come oggi lo viviamo, ma permette di considerare tale realtà nella prospettiva di una nuova idea di collettivo costituito da soggetti interconnessi e responsabili per altri. In questo senso, il soggetto individualista infantile e narcisista, che fonda la comunicazione online sullo schema che Danesi (2013) definisce dell’io-io-altri eLotman (1972) chiama meccanismo dell’autocomunicazione, secondo un’idea stereotipata di disintermediazione, appartiene a una fase della comunicazione globale che non può riproporsi più, se non come farsa e maschera grottesca.

Così come nel periodo della pandemia hanno assunto affidabilità comunicativa agenzie istituzionali e sanitarie autorevoli, così come i cittadini cercano notizie online selezionando, anche tra i blog e gli account dei social, quelli più seri e che contrastano le fake news, nello stesso senso nella moda cresce e crescerà l’esigenza di affidabilità e autenticità. Primi segni di questo cambiamento sono l’orientamento verso la scelta di materiali sostenibili di cui possiamo conoscere la qualità e la preferenza verso abiti e accessori che durino nel tempo, che possano proteggerci, che ci facciano stare comodi. Nella ricostruzione della filiera della produzione e del consumo di moda diventa allora necessario considerare insieme sia il comune bisogno di bellezza e di piacere, che segue anche come reazione emotiva al periodo della quarantena, sia la capacità di bilanciare l’estetica con l’impegno e la cultura. Tutti i settori che ruotano nel circuito della moda sono incoraggiati a dare un senso alto ai concetti e ai progetti che riguardano l’intraprendere e le imprese. Sarà fondamentale riconsiderare a pieno, insomma, proprio con l’aiuto delle tecnologie e dei nuovi materiali, l’idea di una moda fatta per essere umani, per essere a proprio agio nei nostri corpi che non sono tutti modellati su un ideale unico e stereotipato, ma hanno diverse età, misure, abilità, colori, tipi di pelle, fragilità.

Le sfilate virtuali potranno sostituire le costose, rituali e faticose, benché splendide, settimane della moda? Certo, non potrà mai trattarsi di una semplice riproposizione della passerella attraverso lo schermo, ma sarà necessario ripensare completamente lo scenario. Prefiguranti sono allora esperienze come quelle di The Fabricant7, la prima casa di moda totalmente digitale che progetta abiti virtuali personalizzati sui corpi delle persone. Chi vuole acquistare a prezzi altissimi un abito invia la propria immagine e da questa i designer realizzano un modello in 3D del corpo su cui adattare un vestito, anch’esso digitale, rispondente ai gusti e alla forma individuale. L’esperienza è più quella di un gioco che di un’effettiva pratica di shopping: cosa indossare poi realmente al mattino per uscire resta infatti tutt’altra cosa. Ma è certo che questo genere di sperimentazioni artistiche possono dare qualche idea per la realtà. Già adesso, ad esempio, su molti siti è possibile creare il proprio avatar digitale per provare un vestito online prima di acquistarlo, definendone nei dettagli le misure e gli stili.

Cosa ne resta però dei corpi reali? Magari di quei corpi di milioni di persone che hanno perso il lavoro, o vivono la paura di perderlo, nel mondo della moda in particolare? Le tecnologie possono molto aiutare a ridare nuove energie a un settore che al momento soffre fortemente la crisi. Sarà importante ad esempio considerare le produzioni locali come una risorsa, non per rinchiudersi in un impossibile e retrivo localismo, ma perché la località comprende le narrazioni di un territorio, le sue rappresentazioni sia dall’interno che dall’esterno, le soggettività in azione, le immagini del suo possibile futuro che deve sempre coniugarsi con un globalismo solidale. L’auspicio è che le tecnologie comunicative, che già ci permettono di far circolare prodotti locali nel mondo globale, potenzieranno in modo virtuoso gli scambi e le traduzioni tra i segni di moda, prima ancora che possano tornare a farlo in modo libero da rischi miliardi di persone.

Bibliografía

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Calefato, P. (1994). Moda & mondanità. Bari: Edizioni Dal Sud. [ Links ]

Danesi, M. (2013). La comunicazione al tempo di Internet. Bari: Progedit. [ Links ]

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Lévi-Strauss, C. (2010). Il pensiero selvaggio. Milano: Il Saggiatore. [ Links ]

Lotman, J. (1972). La struttura del testo poetico. Milano: Mursia. [ Links ]

Maffesoli, M. (2004). Il tempo delle tribù. Il declino dell’individualismo nelle società postmoderne, Milano: Guerini e Associati. [ Links ]

Simmel, G. (1976). La moda, in Arte e civiltà. Milano: Isedi. [ Links ]

1 https://www.edelkoort.com/2015/09/anti_fashion-manifesto-2/

2https://www.instagram.com/p/B94TwvXowbp/

3https://www.instagram.com/p/B-e4CgvpIvu/

4L’azienda Brunello Cucinelli mette da sempre al centro della sua impresa i dipendenti, i luoghi e la qualità, prevedendo che un terzo del profitto sia destinato ai lavoratori - i quali ricevono stipendi superiori alla media di settore -un terzo al territorio e un terzo alla remunerazione dell’imprenditore.

5https://wwd.com/fashion-news/designer-luxury/giorgio-armani-writes-open-le tter-wwd-1203553687/

6https://wwd.com/fashion-news/fashion-scoops/hermes-hauled-in-2-7-million-inone-china-store-on-saturday-sources-1203559738/

7https://www.thefabricant.com/

Received: November 01, 2020; Accepted: December 01, 2020; pub: March 01, 2021

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