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Argos

versión On-line ISSN 1853-6379

Argos vol.34 no.1 Bahía Blanca ene./jun. 2011

 

ARTÍCULOS

Dedalo e Pigmalione: la parodia dell' ékphrasis nel Satyricon

 

Claudia Mazzilli

Università degli Studi di Bari

claudia.mazzilli@libero.it

 


Resumen

En la Cena, las esculturas gastronómicas de Dédalo aluden al arquetipo del artista y valorizan la mímesis como estética de los libertos. En Sat. 126, Polieno admira a Circe como si fuera una estatua: esta ékphrasis, moldeada sobre la base de textos ovidianos, alude a Pigmalión, el artista que crea figuras depuradas de las imperfecciones de la realidad (Met. 10. 238-297). El arte suya no es antinaturalística: la dissimulatio artis asegura la verosimilitud: Circe es más genuina que Polieno, cuya belleza es sofisticada. Petronio irónicamente confunde o invierte la relación entre arte y naturaleza: mientras en la Cena él apunta a la caracterización social, aquí en cambio cada cosa oscila entre el realismo y la ficción literaria.

Palabras clave. Mímesis; Arquetipo de artista; Ékphrasis; Dissimulatio artis; Alusiones ovidianas.

Abstract

In the Cena, Daedalus' gastronomical sculptures allude to the archetype of the artist and emphasize the mímesis as aesthetics of freedmen. In Sat. 126, Polyaenus admires Circe like a statue: this ékphrasis, modelled on Ovidian sources, hints at Pygmalion, the artist who creates images free from reality impurities (Met. 10. 238-297). His art is not anti-naturalistic; the dissimulatio artis ensures the verisimilitude: Circe is more genuine than Polyaenus, whose beauty is sophisticated. Petronius confuses ironically or overturns art and nature: while in the Cena he aims at a social characterization, here everything is uncertain between realism and literary fiction.

Keywords. Mímesis; Archetype of artist; Ékphrasis; Dissimulatio artis; Ovidian allusions.


 

Nella Cena Trimalchionis il momento sociale del convito, in cui sono ritualizzati i modelli culturali della paideía classica, è aggredito attraverso la gastronomia ed il mimo, l'espressione teatrale più in voga nell'età neroniana1. Come ha mostrato Cucchiarelli2, mimo e gastronomia non mirano ad un intrattenimento fine a se stesso, ma sono fortemente integrati nella regía trimalchionica e fondano un'unica arte dalla spiccata vocazione mimetica, capace di ricreare per via di finzione la realtà per poterla conoscere e dominare. Nel corso della Cena, grazie all'ausilio del mimo,spesso è drammatizzato il momento in cui gli alimenti sono sottratti allo stato di natura (come nella scena venatoria del c. 40) e la preparazione di una portata diventa essa stessa spettacolo. Le capacità illusionistiche del mimo e della cucina interagiscono perfettamente quando Dedalo intona un canto stridulo, che offende le orecchie di Encolpio, ma che riproduce onomatopeicamente lo sfrigolio delle lumache alla griglia (70. 7: has lautitias aequavit ingeniosus cocus; in craticula enim argentea cochleas attulit et tremula taeterrimaque voce cantavit). Dedalo, che già porta il nome dell'artefice per eccellenza, capace di creare statue ed automi di straordinaria verosimiglianza, e dunque in grado di realizzare la mimesi al suo massimo livello3, reduplica la capacità imitativa della sua cucina con il canto, che è una sua caratteristica identificante, in cui non si esibisce in modo occasionale (a 70. 13 lo ritroviamo impegnato ad imitare il tragedo Efeso). Attraverso questo ed altri esempi, Cucchiarelli dimostra che la mimesi costituisce, per un ceto che trova nella emulazione sociale la propria identità, una categoria mentale univoca e totalizzante, agli antipodi rispetto ai principi fondanti dell'estetica aristocratica di Platone che, nel terzo libro della Repubblica, considerava quanto mai deleteria per i custodi della città ideale una eccessiva consuetudine con le attività imitative4.

La descrizione delle portate della Cena, inoltre, realizza una parodia del modulo dell'ékphrasis, che nella letteratura alta spesso ha implicazioni metaletterarie5. Petronio infatti evade velocemente le occasioni standard in cui potrebbe descrivere opere d'arte; impiega invece procedimenti di enárgheia nella descrizione delle sculture gastronomiche, che mette esplicitamente in competizione con le opere d'arte tradizionali. Anche nel caso dell'ampio ciclo parietale del portico (29.1-6), l'autore non persegue fini di virtuosismo descrittivo, ma si serve dell'istantaneità del codice iconico per anticipare sinteticamente, a mo' di locandina, i motivi fondamentali della Cena e della personalità del padrone di casa, sfruttando la funzione prolettica che l'ékphrasis aveva già nell'epica virgiliana (si pensi alla descrizione del tempio di Giunone di Aen. 1. 450-493 e del tempio di Apollo di Aen. 6. 20-34); analogamente, a 30. 3-4, le tabulae in utroque poste defixae, con soggetto astrologico, meritano solo un cenno rispetto alla descrizione del piatto dello zodiaco e, a 40. 1, i toralia, su cui è rappresentata una scena venatoria, pur offrendo un pretesto ecfrastico di gusto squisitamente alessandrino e neoterico (si pensi al Carme 64 di Catullo, dove il mito di Arianna è rappresentato sulla coperta nuziale di Peleo e Tetide), suscitano ben poco interesse rispetto alla movimentata e pantomimica scena di caccia che prende avvio subito dopo. Petronio altrove non disdegna l'impiego dell'ékphrasis, sia pur sottilmente parodico, secondo lo schema consolidato nei generi letterari alti e poi abusato nella letteratura di consumo6, ma nella Cena ricorre ai procedimenti ecfrastici soprattutto per i capolavori gastronomici di Trimalchione. Non solo le portate sono descritte con felici effetti di enárgheia, ma sono esibite nel corso della cena secondo un criterio (uno ius cenae, per dirla con Trimalchione) che fa corrispondere una sempre maggiore efficacia mimetica all'uso di materiali di volta in volta più vili. L'asellus di bronzo corinzio di 31. 9-11, munito di preziosi piatti d'argento, sostiene con un'architettura composita gli antipasti, che invece sono quasi del tutto privi di sofisticazione. Il modulo ékphrasis risulta così degradato in modo non troppo trasgressivo: la cura descrittiva non è ancora rivolta ai cibi, ma le stoviglie da cucina, benché ancora realizzate in materiali pregiati, sostituiscono i nobili oggetti d'arte della letteratura alta. Si raggiunge un più felice illusionismo (ed un maggiore equilibrio tra il cibo ed un materiale dell'artigianato, meno nobile del metallo, ma pur sempre tradizionale) nella gallina lignea di 33. 3-8, che cova le uova ex farina pingui figurata, con tanto di beccafico all'interno. Nelle successive portate, invece, metalli e legno sono definitivamente messi al bando e l'attenzione si sposta dagli utensili ai materiali commestibili, di cui si esaltano le potenzialità plastiche. Nella portata dello zodiaco (35. 2-5) i cibi non rappresentano i segni corrispondenti in modo realistico, bensì per analogia o per metonimia, attraverso associazioni simboliche ora banali ora ingegnose; ma ormai la cucina si impone come "arte d'avanguardia", la cui novitas (a 35. 1 il termine è riferito appunto allo zodiaco) merita una più evidente rappresentazione da parte dell'autore. Un maggiore realismo è evidente nei minores porcelli di pasta biscottata di 40. 3-4, serviti intorno ad un cinghiale vero (la loro presenza lascia intendere ai commensali che è stata servita una femmina circondata da lattanti). Seguono il Priapus a pistore factus di 60. 4, i turdi siliginei uvis passis nucibusque farsi di 69. 6, le mele cotogne confitte di spine in modo da sembrare ricci di mare (69. 7: Cydonia... mala spinis confixa, ut echinos efficerent), in un crescendo di capolavori che si superano l'un l'altro per la verosimiglianza nella reciproca mimesi tra i cibi, fino all'ultima eccezionale portata di 69. 8 (un'oca ingrassata, circondata da pesci e uccelli di ogni sorta), in cui tutte le carni imbandite si confondono con gli originali; ma quando il padrone di casa chiarisce che tutto è fatto de uno corpore, gli ospiti, e soprattutto Encolpio, temono che le vivande siano state realizzate con fango o addirittura con sterco: in realtà sulla tavola c'è solo carne di porco, ma il raccapricciante sospetto dei commensali realizza la massima degradazione possibile quanto a materiali utilizzati, insieme alla definitiva consacrazione di Dedalo e del suo talento mimetico (70. 2: de vulva faciet piscem, de lardo palumbum, de perna turturem, de colaepio gallinam... Nam Daedalus vocatur). Tuttavia le lusinghe di Trimalchione nei confronti di Dedalo suonano come un elogio tardivo, direi quasi postumo: al c. 65 è sopraggiunto l'ospite ritardatario, il lapidarius Abinna, al quale il padrone di casa dedica ogni premura. D'ora in poi ogni interesse convergerà sulla morte, sulla realizzazione del monumento funebre, su rimbrotti e risse tra personaggi umani e canini, sul rimpianto del passato e sull'apologia di sé, con la conseguente emarginazione dei cuochi e delle loro vitali e straordinarie qualità. Dedalo fa un'ultima comparsa a 74. 4-5, dove si limita a cucinare un banalissimo manicaretto, il galletto infausto che, oltre a preannunciare un decesso o un incendio nel vicinato, certamente sancisce la morte di Dedalo come cuoco-demiurgo. Proprio l'ingresso di Abinna anticipava il ritorno ad una cucina più ordinaria; egli infatti a 66. 1-7 esordisce con il resoconto del lautum novendiale:a questa cena manca quell'ambiguità semantica ricercata da Trimalchione per ogni parola o pietanza ed è del tutto assente la tensione ironica tra l'aspetto delle cose e la loro vera natura, la reciproca mimesi dei cibi, il sottile equilibrio tra denotazione e connotazione per ogni gioco linguistico o sorpresa gastronomica. Soprattutto, mentre prima tutto ciò che Trimalchione aveva da esibire o raccontare di sé era stato rappresentato sub specie epularum7, ora invece la descrizione del monumentum (71. 5-12) e il lungo resoconto autobiografico di Trimalchione (75. 3-77. 7) segnano il ritorno ai codici più convenzionali della scultura (con il recupero di un materiale tradizionale, il marmo) e della retorica. Com'è noto, la cultu ra dell'immagine è tipica dei liberti, mentre quella della parola, e soprattutto della scrittura, appartiene agli scholastici.Ma, all'interno delle arti figurative praticate dai liberti, si possono constatare rilevanti differenze tra l'arte gastronomica e le arti tradizionali, esibite nella porticus e nel monumentum. Già nella porticus, il curiosus pictor aveva chiosato con didascalie le pitture raffiguranti i primi successi di Trimalchione: si tratta, dunque, di un artista che non sa imitare, la cui opera è così scadente che in essa parola ed immagine hanno bisogno l'una dell'altra8. Nell'autobiografia e nel monumentum, l'emulazione esteticamente mediocre e retrospettiva della tradizione è portata fino alle estreme conseguenze (Trimalchione non ha altri progetti da realizzare, guarda esclusivamente al passato e s'immagina ormai morto), perché essa reca in sé la semantica della nostalgia e della decadenza di un'aristocrazia ormai fiacca (in tutte le espressioni sociali, politiche e poetiche) o addirittura sterile, quasi a preannunciare la dimensione di Crotone. La gastronomia, invece, con i suoi umori sapidi, è il codice con cui i liberti esprimono meglio la loro dirompente presenza nella società. La successione delle portate infatti individua un'evoluzione positiva: i materiali di partenza, di per sé vili, forzati gradualmente fino alle loro massime potenzialità espressive, assurgono a simbolo dell'origine umile dei liberti e, nonostante tutto, della loro ascesa, anche in virtù della consapevolezza di sé come ceto e del loro bisogno di autorappresentazione attraverso un codice proprio, quello della cucina.

"C'è dunque una motivazione ben precisa per il fatto che la Cena Trimalchionis si sia guadagnata la fama nella letteratura latina di capolavoro della mimesi (o più esattamente, della ‘mimesis'). ‘Mimesis' non qualifica solo la volontà autoriale, il progetto letterario di Petronio, ma anche la natura intrinseca della materia prescelta, il mondo dei liberti"9, per i quali la mimesi costituisce una categoria mentale così unilaterale, ed applicata in modo ossessivo, da essere agli antipodi dell'estetica di Platone, detrattore delle arti mimetiche.

Ma non tutto il Satyricon ha come fine la rappresentazione di vecchie e nuove forze sociali. Spesso Petronio perviene ad un diverso effetto di realismo attraverso il contrasto tra i meschini casi di Encolpio e gli episodi esemplari del mito, con i quali il narratore mitomane si misura in un confronto asimmetrico: ad esempio, l'episodio di 83. 1-6 (in cui Encolpio, abbandonato da Gitone, cerca di nobilitare la propria vicenda sulla scorta dei celebri paradigmi mitologici che vede raffigurati nei quadri della pinacoteca) risponde a questo meccanismo di degradazione romanzesca. Un altro breve inserto ecfrastico, suscettibile di ulteriori indagini, è la descrizione di Circe (Sat. 126. 13-18): 

[13] Nec diu morata dominam producit e latebris laterique meo applicat, mulierem omnibus simulacris emendatiorem. [14] Nulla vox est quae formam eius possit comprehendere, nam quicquid dixero, minus erit. [15] Crines ingenio suo flexi per totos se umeros effuderant, frons minima et quae radices capillorum retro flexerat, supercilia usque ad malarum scripturam currentia et rursus confinio luminum paene permixta, [16] oculi clariores stellis extra lunam fulgentibus, nares paululum inflexae et osculum quale Praxiteles habere Dianam credidit. [17] Iam mentum, iam cervix, iam manus, iam pedum candor intra auri gracile vinculum positus: [18] Parium marmor extinxerat. Itaque tunc primum Dorida vetus amator contempsi.

Fattasi attendere brevemente, fa comparire dal suo nascondiglio la padrona e mi piazza al lato una donna più perfetta di tutti i ritratti del mondo. Non c'è espressione che possa rendere come si deve la sua bellezza, e infatti qualunque mio tentativo di descriverla a parole le sarà inferiore. I capelli, ondulati di natura, le ricadevano su tutte quante le spalle, la fronte era minuscola e da essa partiva l'attaccatura dei capelli che si staccavano all'indietro, la linea delle sopracciglia correva fino a dove inizia il disegno delle guance e, dalla parte opposta, arrivavano quasi a congiungersi intorno ai limiti degli occhi, gli occhi erano più brillanti di stelle quando splendono in assenza di luna, le narici un po' ripiegate verso l'interno e la boccuccia fatta come quella che doveva avere Diana a giudizio di Prassitele. Il suo mento, il collo, le mani, il candore dei piedi, attraversato da una sottile cordicella d'oro: tutto aveva già eclissato il marmo di Paro. Fu così che allora per la prima volta non provai niente per Doride, il mio vecchio amore.10

Molti interpreti riconoscono in questo passo un intento parodico nei confronti del romanzo greco, dove la descrizione della bellezza dell'eroina passa obbligatoriamente attraverso una topica consolidata (capelli graziosamente ondulati, splendore degli occhi, candore della pelle)11. Dimundo12 invece suggerisce un confronto tra il ritratto di Circe e quello di Dafne in Met. 1. 495-502, ulteriormente complicato da interferenze allusive properziane e ovidiane. In effetti, il confronto con il canone properziano ed ovidiano della bellezza muliebre è indispensabile, poiché l'orchestrazione intertestuale di Petronio è spesso stratigrafica e, soprattutto quando si rivolge agli intertesti greci, li filtra attraverso mesotesti latini, che fungono da spie linguistiche ed attivano nel lettore colto e smaliziato numerose possibilità di decodifica: non solo la descrizione di Circe, ma gran parte della vicenda tra Circe ed Encolpio-Polieno presenta una filigrana di intertesti eterogenei, tutti giocati sull'eros e sulla bellezza: essi ironicamente denunciano la rarefatta artificiosità delle esperienze di Encolpio nella sezione crotoniate. Questa tecnica compositiva si presta ad essere mediata da intertesti ovidiani, proprio per il consumatissimo lusus allusivo che è sempre presente in Ovidio13.

Come nota Dimundo, la Circe petroniana e la Dafne ovidiana si caratterizzano entrambe per una capigliatura priva di cura artificiosa (Sat. 126. 15: crines ingenio suo flexi e Ov. Met. 1. 497: inornatos... capillos); i particolari fisionomici di maggiore attrattiva sono gli occhi (Sat. 126. 16: oculi clariores stellis extra lunam fulgentibus e Ov. Met. 1. 498-99: videt igne micantes / sideribus similes oculos) e la bocca (Sat. 126. 16: osculum quale Praxiteles habere Dianam credidit e Ov. Met. 1. 499-500: videt oscula, quae non / est vidisse satis); per entrambe ricorre il paragone con Diana (la dea in Ov. Met. 1. 486-87, la statua della dea in Sat. 126. 16); la loro genuina bellezza è in armonia con l'ambiente naturale, con cui hanno familiarità (pertanto la menzione del laureto di Sat. 126. 12, oltre ad attivare una scenografia stereotipa per i convegni amorosi, è un ulteriore riferimento al modello ovidiano). Petronio recupera questo modello "non senza aver prima operato una raffinata ed intelligente opera di degradazione": lo scarto tra i due testi "va rapportato ad un contrastante atteggiamento psicologico dei protagonisti maschili: in Ovidio, infatti, la descrizione dei particolari che suscitano l'ammirazione e poi l'irrefrenabile passione di Apollo è scandita da verbi che sottolineano la straordinaria partecipazione emotiva di chi, come Apollo, è già ardente di passione (spectat, videt... videt... vidisse, laudat... meliora putat); in Petronio la descriptio venustatis di Circe tradisce solo una statica contemplazione di Polieno, presagio evidente dell'amara conclusione della vicenda, che vedrà il trionfo della passività"14.     

La bellezza naturale di Circe-Dafne è in contrasto con la sofisticata e artificiosa bellezza di Polieno (126. 1-5)15, che presenta le caratteristiche dell'uomo pathicus ed è descritto quasi come una meretrice da Criside, che sapientemente reimpiega una topica elegiaca che culmina nella quasi-citazione del titolo dell'opera di Ovidio sul trucco (126. 2: facies medicamine attrita); risulta chiaro anche il rapporto allusivo con Properzio 1. 2. 7-8, dove è censurato l'abuso di cosmetici e di cure eccessive per i capelli, che rischiano di trasformare Cinzia in una prostituta (crede mihi non ulla tuae est medicina figurae: / nudus Amor formae non amat artificem).

Ma appunto la combinazione di tratti comuni e tratti specifici degli ipotesti, per cui ad una memoria se ne associa un'altra, consente di riconoscere altre presenze ovidiane. D'altronde è tipico di Petronio predisporre simultaneamente nel testo un sistema di insistita allusività che struttura fortemente il racconto, fornendo così una robusta griglia intertestuale indispensabile all'interpretazione, insieme ad ammiccamenti più sottili, che funzionano come rapidissimi flash. Pertanto, ad un primo livello, il materiale linguistico del c. 126 richiama scopertamente la questione properziana ed ovidiana del rapporto tra bellezza e cosmesi; ad un livello già più nascosto, l'isotopia Circe-Dafne connota di ulteriore letterarietà il contesto, mentre l'inserto in versi di 126. 18 (cf. vv. 3-5: nunc erat a torva submittere cornua fronte, / nunc pluma canos dissimulare tuos. / haec vera est Danae...) richiama alla memoria del lettore, attraverso altrettante metamorfosi, le donne mortali amate da Giove (Europa, Leda, Danae): poiché tutto il contesto ridonda di allusioni ai più celebri archetipi di bellezza muliebre, credo che la situazione narrativa presenti anche un'analogia tra la contemplazione di Circe-statua da parte di Polieno e l'amore di Pigmalione per l'eburnea virgo, essa stessa paradigma di bellezza, non meno della Cinzia properziana o di Dafne, o dell'ideale configurato dalla precettistica ovidiana16. Cf. Met. 10. 247-58:

Interea niveum mira feliciter arte
sculpsit ebur, formamque dedit, qua femina nasci
nulla potest, operisque sui concepit amorem.
Virginis est verae facies, quam vivere credas
et, si non obstet reverentia, velle moveri:
ars adeo latet arte sua. Miratur, et haurit
pectore Pygmalion simulati corporis ignes.
Saepe manus operi temptantes admovet, an sit
corpus, an illud ebur, nec adhuc ebur esse fatetur.
Oscula dat, reddique putat, loquiturque tenetque,
et credit tactis digitos insidere membris
et metuit, pressos veniat ne livor in artus.

Ma un giorno, con arte felice e meravigliosa, si mise a scolpire dell'avorio bianco come neve e gli dette forma di donna, così bella, che nessuna può nascere più bella. E concepì amore per la sua opera. L'aspetto è quello di una fanciulla vera, e diresti che è viva e che, se non fosse così timida, vorrebbe muoversi. Tanta è l'arte, che l'arte non si vede. Pigmalione è incantato, e in cuore gli si accende una fiamma per quel corpo finto. Spesso passa la mano sulla statua per sentire se è carne o invece avorio, e non si risolve a dire che è avorio. Le dà dei baci, e gli pare che gli siano resi, e le parla e l'abbraccia, e ha la sensazione che le dita affondino nelle membra che tocca, e teme che la pressione non lasci un livido sugli arti17.

L'estetica antica ha elaborato due concezioni dell'arte: essa è innanzitutto approssimazione al vero, imitazione della natura; Dedalo è l'archetipo dell'artista dotato di prerogative di eccellenza, colui che realizza le potenzialità dell'arte al massimo livello, portando l'imitazione alla totale adesione alla realtà, perché riesce a plasmare statue uguali ad esseri viventi e con facoltà di parola18. Dunque l'arte è, tecnicamente, mimesi, sia per Platone sia per Aristotele: nella concezione platonica, tuttavia, l'arte è considerata negativamente ‘copia della copia', degradazione di secondo grado dell'idea. Come nota Panofsky in un contributo fondamentale per la storia dell'estetica19, il mondo antico perviene anche ad una diversa concezione dell'arte, che può essere capace non solo di imitare fino ad aderire totalmente alla realtà ma, addirittura, può essere superiore alla natura, depurandola delle sue imperfezioni. L'arte impone i suoi modelli alla natura, senza tuttavia essere antinaturalismo, perché il principio della dissimulatio artis preserva i canoni tradizionali dell'estetica antica: l'opera d'arte deve pur sempre sembrare naturale e non deve tradire l'artificio. A partire dalla Roma augustea e nella prima età imperiale, accanto al principio platonico dell'inferiorità dell'arte (sia rispetto al mondo delle idee sia rispetto alla realtà, imitata, nel migliore dei casi, sino alla perfetta illusione), si fa strada il principio della superiorità dell'arte rispetto alla natura stessa, in quanto, "correggendo la deficienza rispetto a singoli prodotti naturali, liberamente le contrappone nuovi aspetti della Bellezza"20. Rosati21 individua in Ovidio le prime tracce della teoria che postula la superiorità dell'arte rispetto alla natura, in sintonia con le arti figurative del suo tempo. Senza voler fare di Ovidio il teorico di una nuova estetica, non c'è dubbio che in molti passi delle Metamorfosi, ma soprattuttonel mito di Pigmalione (Met. 10. 238-297), l'artista non imita, ma ha un'autonoma facoltà creatrice, fornisce un'immagine ideale, distillata dalle scorie che inficiano la realtà concreta; l'opera d'arte creata da Pigmalione conquista una sua naturalezza, che non è quella spontanea, ingenua e ordinaria della natura, ma una seconda naturalezza recuperata nella finzione (Met. 10. 252: ars adeo latet arte sua)22. Queste implicazioni intellettualistiche del mito di Pigmalione non sono prive di conseguenze nell'interpretazione del contesto petroniano, com'è possibile dimostrare attraverso un'ulteriore indagine lessicale.

A 126. 13-14, rinviano all'ambito della scultura il sostantivo forma (esso ha in sé sia il consueto significato di "bellezza" sia quello di "creazione plastica dell'artista" come in Met. 10. 248: sculpsit ebur formamque dedit)23 e il comparativo emendatiorem, che richiama l'uso di emendare, regolarmente registrato dai lessici nel suo significato tecnico24, ma che a me sembra ancora più pregnante in una prospettiva estetica: infatti è possibile individuare una sottile differenza tra i luoghi in cui emendare si riferisce al labor limae dello scultore (che perfeziona sempre più la sua opera, secondo criteri che sembrerebbero intrinseci alla stessa) e quelli in cui il verbo indica esplicitamente il lavoro di idealizzazione e trasfigurazione dell'oggetto reale preso a modello (che risulta corretto dall'arte)25.

Interessante è anche l'espressione supercilia usque ad malarum scripturam currentia, che  indica non solo il "profilo" delle sopracciglia in armonia con il contorno delle guance, ma, ad un secondo livello di lettura, il "disegno" complessivo dei lineamenti di Circe che, in quanto statua, è stata ideata da uno scultore: infatti il sostantivo scriptura non è un semplice sinonimo di extrema linea o confinium ed è attestato solo in Petronio con un'accezione26 che a me sembra ricalcata su un uso tecnico di scribo (analogo a fingo, pingo o sculpo)27; anche il verbo curro (supercilia... currentia), infine, può avere un significato quasi tecnico (cf. Vitr. 5. 6. 2: anguli trigonorum, qui currunt circum curvaturam circinationis)28. Va segnalata anche la diversa interpretazione di Pacchieni per il termine scriptura29: la studiosa valorizza il suffisso -tura (in origine impiegato per astratti, ma che già in epoca arcaica può assumere un significato concreto) e considera scriptura un'espressione originale per indicare il fucus, sulla base di Plaut. Most. 262-264 (dove pictura e offucia indicano il "trucco"). Dimundo invece interpreta l'espressione supercilia usque ad malarum scripturam currentia et rursus confinio luminum paene permixta nell'ambito della pratica femminile di riempire artificiosamente, per moda, lo spazio tra le due sopracciglia (cf. Ov. Ars 3. 201: arte supercilii confinia nuda repletis)30. Questo sobrio maquillage si contrappone, come già detto, alla facies medicamine attrita di Polieno, che abusa del trucco. Dunque, integrando l'accezione tecnico-plastica, che qui ho discusso, con le analisi già acquisite di Pacchieni e Dimundo, tutto il contesto sembrerebbe giocato, attraverso la polisemia di alcune parole chiave, sull'ambiguità tra la bellezza genuina di una donna vera, appena ritoccata dal trucco, e la bellezza quasi naturale di una statua, entrambe in netta contrapposizione con la bellezza estremamente artefatta di Polieno.

Significativo è anche l'uso del verbo flectere, che nella lingua elegiaca è sinonimo di crispare31 (cf. Ov. Am. 1. 14. 13: dociles et centum flexibus apti sunt crines); esso istituisce a distanza un efficace contrasto tra la bellezza artefatta di Polieno e la bellezza semplice e naturale di Circe: alle flexae pectine comae di Polieno (126. 2) si contrappongono i crines ingenio suo flexi di Circe (126. 15); Dimundo giustamente osserva che qui tutte le scelte lessicali sono meditate, perché Petronio opera una sottile distinzione tra il termine coma (cheindica la capigliatura acconciata) e i crines (i capelli naturalmente fluenti), già acquisita dalla lingua elegiaca (per la prima volta è in Tib. 1. 9. 67-68: tune putas illam pro te disponere crines / aut tenues denso pectere dente comas) e rafforzata con la contrapposizione tra ‘arte' e ‘natura' dei costrutti ablativali (pectine e ingenio suo)32.

Ma mentre nella descrizione di Polieno il verbo flecto ricorre solo una volta, nella descrizione di Circe di 126. 15-16 esso è triplicato: crines ingenio suo flexi... frons minima et quae radices capillorum retro flexerat... nares paululum inflexae. C'è il sospetto che tale insistenza miri ad interrogare l'intelligenza del lettore e veicoli una particolare ironia attraverso una voluta ambiguità semantica, che è già suggerita dal passaggio dal verbo semplice al composto inflecto, non più riferito alla cosmesi dei capelli, ma al "profilo" di Circe, come la già discussa espressione supercilia ad malarum scripturam currentia.

Il verbo flecto nelle Metamorfosi è un tratto caratteristico dell'usus scribendi di Ovidio, che lo utilizza in tre accezioni diverse, ma talora compresenti in uno stesso luogo: esso infatti può riferirsi alla flessibilità e alla capacità di movimento del corpo umano o del corpo di animali (cf. Met. 2. 820-21: ... partes, quascumque sedendo / flectimus, ignava nequeunt gravitate moveri; 3. 187- 88: in latus obliquum tamen adstitit oraque retro / flexit; 6. 308-09: nec flecti cervix nec bracchia reddere motus / nec pes ire potest; 6. 552: flexis post terga lacertis; 9. 64: ... flexos sinuavi corpus in orbes)33, oppure può indicare il processo della metamorfosi (cf. Met. 3. 671-73: ... primusque Medon nigrescere coepit / corpore, et expresso spinae curvamine flecti / incipit; 8. 881: flector in anguem)34; secondo un uso più tecnico, il verbo può riferirsi alla plasticità di un materiale, che si presta ad essere scolpito dall'artista, come appunto nel mito di Pigmalione; a Met. 10. 280-289 convivono con felice illusionismo la prima accezione (flessibilità di un corpo umano vivo), la seconda (il corpo "si trasforma", "si piega in altro aspetto") e quella specifica delle arti plastiche: grazie al favore di Venere, le carezze e gli abbracci di Pigmalione "riplasmano" l'eburnea virgo in una fanciulla in carne ed ossa, come fosse cera dell'Imetto35

Ut rediit, simulacra suae petit ille puellae
incumbensque toro dedit oscula: visa tepere est;
admovet os iterum, manibus quoque pectora temptat:
temptatum mollescit ebur positoque rigore
subsidit digitis ceditque, ut Hymettia sole
cera remollescit tractataque pollice multas
flectitur in facies ipsoque fit utilis usu.
Dum stupet et dubie gaudet fallique veretur,
rursus amans rursusque manu sua vota retractat;
corpus erat! saliunt temptatae pollice venae.

Tornato a casa, Pigmalione subito va a trovare la cara statua della fanciulla, e curvandosi sul letto la bacia. Gli pare di avvertire un tepore. Di nuovo accosta la bocca, e con le mani le palpa anche il seno. L'avorio palpato si ammorbidisce e perduta la durezza si incava e cede sotto le dita, come la cera dell'Imetto al sole torna duttile e plasmata col pollice si piega ad assumere varie forme e più è trattata, più trattabile diventa. Stupito, felice ma incerto, timoroso di ingannarsi, più e più volte l'innamorato tocca con la mano il suo sogno: è un corpo vero! Le vene pulsano sotto il pollice che le tasta.

Il verbo flecto ed il suo composto, di significato pressappoco equivalente36, ben si prestano alla descrizione di Circe, con un effetto di suggestiva sospensione: Circe è umana e quindi suscettibile di movimento proprio, con le narici graziosamente "conformate" e con i capelli "ondulati al naturale", che le ricadono spontaneamente all'indietro, dalla piccola fronte fin sulle spalle (la prima accezione, riferita al movimento di un corpo vivo, qui coincide con la specializzazione cosmetica di flecto,individuata da Pacchieni e Dimundo); ma, già a partire dal comparativo iperbolico mulierem omnibus simulacris emendatiorem, Circe è bella al punto da sembrare una statua scolpita (terza accezione). Allora, a mio avviso, "scolpite" sono le onde dei capelli che tuttavia appaiono naturali (crines ingenio suo flexi), "scolpito" è il profilo della fronte alla radice dei capelli (frons minima et quae radices capillorum retro flexerat), "scolpite" sono le narici (nares paululum inflexae), come "scolpito" è il contorno delle guance, anzi, il disegno delle guance ideato dallo scultore (malarum scripturam): l'ambiguità tra movimento naturale e perfezione statuaria, conferita dal verbo flecto e dal suo composto ad alcune parti del viso, si risolve solo con la menzione della bocca, che è un piccolo capolavoro di scultura (osculum quale Praxiteles habere Dianam credidit). 

Pigmalione ama l'eburnea virgo come una donna vera; Encolpio, con un comico rovesciamento rispetto al modello, contempla Circe come fosse una statua: ma in entrambi i casi è l'arte che impone i suoi modelli. La natura, infatti, è perfetta solo quando sembra un'opera d'arte37. Petronio non intende certo formulare espressamente una teoria estetica ma, come si vedrà più avanti, alcune implicazioni del rapporto natura-arte, già alluse nella tematica cosmetica indagata da Dimundo, generano ironia nel testo.

Anche il confronto tra il parium marmor e il candor di Circe non contrappone arte e natura, ma contribuisce ad assimilare la donna ad un simulacrum e probabilmente si ispira ad un altro tópos caro ad Ovidio che, con aperto estetismo, spesso paragona la bellezza dei suoi personaggi a quella di opere d'arte: ad esempio, il bel corpo di Adone fanciullo ricorda quello degli Amorini che tabula pinguntur (Met. 10. 516); Narciso sembra e Pario formatum marmore signum (Met. 3. 419). Spesso infatti in Ovidio la contemplazione poetica di una forma, con grande virtuosismo descrittivo, si fa emula delle arti figurative, ora in modo implicito, ora in modo esibito, ricorrendo a procedimenti ecfrastici o quasi-ecfrastici, così come, nel nostro contesto petroniano, la parola si mostra inadeguata a descrivere l'ineffabile bellezza di Circe e ricorre all'ausilio del codice eterogeneo dell'arte plastica (126. 14: nulla vox est quae formam eius possit comprehendere, nam quicquid dixero, minus erit).

Per l'analogia della situazione narrativa, può essere utile confrontare il ‘colpo di fulmine' di Encolpio per Circe con Met. 4. 672-77, dove Perseo scambia per una scultura la bella Andromeda, incatenata ad uno scoglio marino:

Quam simul ad duras religatam bracchia cautes
vidit Abantiades (nisi quod levis aura capillos
moverat et tepido manabant lumina fletu,
marmoreum ratus esset opus), trahit inscius ignes
et stupet, et visae correptus imagine formae
paene suas quatere est oblitus in aëre pennas.

Appena la vide, legata per le braccia ad una dura roccia (se non fosse stato che una brezza leggera le agitava i capelli e tiepido pianto le stillava dagli occhi, l'avrebbe scambiata per una statua marmorea), il pronipote di Abante inconsciamente se ne infiammò, rimase sbigottito e, incantato alla vista di tanta bellezza, per poco non dimenticò di battere nell'aria le ali.

È quasi superfluo aggiungere che anche in questo caso il personaggio è più bello proprio perché può essere confuso con una statua, in una prospettiva che, ancora una volta, privilegia il primato estetico dell'arte sulla natura; ma, nello stesso tempo, la bellezza di Andromeda, come quella di Dafne e di Circe, risiede soprattutto in ciò che non può essere sofisticato (luminosità dello sguardo, capelli sciolti, splendore dell'incarnato).

In definitiva, Petronio sta imitando il modo in cui Ovidio realizza l'enárgheia, anche in situazioni narrative opposte, perché la similitudine/confusione tra i personaggi viventi e le statue è usata da Ovidio sia per Perseo che vagheggia Andromeda come fosse un marmoreum opus, sia per Pigmalione che vagheggia una statua come fosse una donna reale. Acutamente Petronio individua (e triplica) come veicolo di allusione il verbo flecto, recuperandone due delle tre accezioni, quella inerente alla mobilità degli arti umani e quella tecnico-artigiana; non è invece attivata nel testo l'accezione metamorfica. Eppure, anche se Circe è sospesa tra la natura umana e quella di statua solo nella fantasia di Encolpio, Petronio, per produrre nel testo quest'ambiguità, tutta giocata sull'evidenza visiva della descrizione, impiega una strategia lessicale tipica di Ovidio38. Nel procedimento retorico-descrittivo ovidiano, il lessico ha una funzione illusionistica essenziale e, attraverso opportuni slittamenti semantici, sviluppa la dialettica tra identità e differenza delle forme, esprimendo la "contiguità universale"39 insieme alla contraddittorietà del reale40 attraverso la persistenza di qualche tratto della prima forma41.

Così anche Petronio, attraverso una maniera tipicamente ovidiana, riesce a visualizzare nel testo scene efficaci42.

Come ha notato Dimundo, la descrizione di Circe indubbiamente dialoga a distanza con la descrizione della bellezza artefatta di Polieno. Questa contrapposizione non è giocata soltanto su due diverse concezioni di cosmesi. Trasfigurando Circe in una statua e risemantizzando alcune parole chiave della cosmesi (emendare, flectere, forma, scriptura), che vanno intese anche come termini tecnici della scultura, Petronio ci presenta un arguto paradosso: alla bellezza estremamente artificiosa e posticcia, ma pur sempre umana, di Polieno, si oppone la bellezza di una statua, che è tanto più bella quanto più recupera una sua naturalezza. Soprattutto nella felicissima polisemia di crines ingenio suo flexi (capelli naturalmente "acconciati", ma anche capelli "scolpiti in pietra con grande verosimiglianza", come scolpita è tutta la figura di Circe) Petronio ironicamente recupera tutta la riflessione ovidiana sulla dissimulatio artis; infatti l'ovidiano ars adeo latet arte sua di Met. 1. 252 è valido per qualsiasi ars, dalla poesia alla scultura, dalla cosmesi al corteggiamento: tutto deve apparire naturale43.

Le sculture gastronomiche della Cena Trimalchionis erano mimetiche, sia perché  realistica è la rappresentazione sociale del mondo dei liberti realizzata da Petronio (il quale audacemente usa i materiali linguistici più dimessi, come i cuochi di Trimalchione usano gli ingredienti più disparati per le loro opere), sia perché mimetico ed emulativo è il ceto dei liberti che, come nota Cucchiarelli, con l'arte culinaria è "capace di imitare e al tempo stesso di trasformare la natura", ma anche di assimilare, imitare e "aggredire la cultura degli scholastici"44. Ma questo tipo di realismo non è tout court il principio ispiratore di tutto il romanzo.

Al contrario, l'autore del Satyricon, nei ritratti di Polieno e di Circe, sfruttando un repertorio di motivi e stilemi tipici dell'ékphrasis ovidiana (in cui gli studiosi intravedono i primi nuclei di una diversa teoria estetica, antinaturalistica), si diverte a capovolgere o almeno a confondere il rapporto tra arte e natura. Non è allora un caso che questi ritratti siano collocati nella sezione crotoniate, dove "tutto oscillerà tra realtà e finzione e il sospetto che quanto è presentato come vero sia invece menzogna si accompagnerà costantemente ad ogni avvenimento",dove "la vita del tutto si scandirà nei suoi contrari"45.

Infatti tutta la sezione crotoniate si configura come un mondo alla rovescia, non solo perché il passaggio dall'antico splendore all'attuale decadenza determina un'inversione (rispetto alla Crotone fastosa di un tempo, rispetto alla vitalità commerciale e a suo modo culturale della Graeca urbs, rispetto ad una qualunque città, antica e moderna...) e perché sono capovolte alcune fondamentali norme sociali (le relazioni tra liberi e schiavi, la trasmissione del patrimonio e del nome ai figli...), ma anche perché Petronio stesso riadatta alcuni principi di poetica: alla logica labirintica, tipica degli spazi chiusi, si sostituiscono gli spazi aperti; la caratterizzazione linguistica dei liberti cede all'estrema letterarietà dei discorsi del vilicus e dell'ancilla, inverosimile per personaggi umili di una città dove, per giunta, non litterarum studia celebrantur, non eloquentia locum habet (116. 6); i protagonisti sono in una nuova dimensione (Encolpio e Gitone, fingendosi schiavi di Eumolpo, vivono finalmente una situazione di benessere materiale; la competizione interna al triangolo amoroso sembra attenuarsi perché i personaggi si volgono anche ad amori eterosessuali...). Diversamente dalla Cena Trimalchionis, in questa sezione del romanzo, il confronto con le arti figurative non ha come fine prevalente quello di denunciare la bassa volgarità della realtà e la sua inadeguatezza rispetto ad un mondo ideale, quello della paideía classica. Il ritratto di Circe è in sintonia con la creazione di un mondo (Crotone) che, nonostante l'immancabile rovesciamento previsto dalla degradazione petroniana, spesso è presentato come ideale e incorruttibile non solo dal narratore mitomane, sempre incline ad illudersi, ma anche dalla regía dell'Arbiter: L'autore, con fine autoironia, assume rispetto alla Cena una poetica parzialmente diversa e crea per i suoi personaggi situazioni distillate da una scaltrita letterarietà, in cui sono sperimentati nuovi equilibri narrativi tra il realismo del controcanto romanzesco e l'artificialità intrinseca a qualsiasi riscrittura che non sia ignara della tradizione.

Notas

1 Cf. PANAYOTAKIS (1995).

2 CUCCHIARELLIi (1999).

3 Per queste implicazioni paradigmatiche rinvio all'ormai classico SCHWEITZER (1967).

4 Cf. CUCCHIARELI (1999: 184; 186-7).

5 Cf. FARNETTI (2004: 573-576), cui rinvio per l'ulteriore bibliografia sulle questioni teoriche.

6 L'episodio della pinacoteca di 83. 1-6 è una degradazione di una situazione topica del romanzo greco, in cui spesso la narrazione prende avvio dalla contemplazione di un quadro. Cf. GARSON (1978); BARTSCH (1989); BILLAULT (1990); ELSNER (1993); CROISSILLE (2003) ed EIGLER (2007).

7 Faccio mia la formula di RADIF (2003). Come nota la studiosa (p. 524), anche al di fuori della Cena è onnipresente la dimensione gastronomica, alla quale sembra demandata la funzione estetica e trasgressiva dell'opera.

8 Cf. BOCCIOLINI PALAGI (1994: 107).

9 Sono parole di CUCCHIARELLI (1999: 185).

10 La traduzione è di ARAGOSTI (1995).

11 Cf. PACCHIENI (1976), GONOJI (1996) e STAIANO-SUÁREZ (2003).

12 DIMUNDO (1998: 72 - 75).

13 Mi limito a segnalare i contributi più significativi: RONCALI (1986)riconosce, tra le altre allusioni omeriche, la hierogamía di Zeus ed Era di Il. 14. 317-349, non solo per l'inserto in versi di 127. 9, ma per tutto il primo incontro tra Circe e Polieno. PERUTELLI (1998) mostra in modo convincente come l'iniziale allusione omerica, evidente nell'uso dei nomi di Circe e Polieno, sia contaminata dall'interferenza di modelli elegiaci sia per l'archetipo eroico di Ulisse (cf. Ov. Ars 2. 123: non formosus erat, sed erat facundus Ulixes) sia per la descrizione di Circe, influenzata dai canoni estetici ovidiani (cf. Am. 1. 9), sia nell'epistola di Sat. 130, che risente dei precetti di Ovidio in Ars 1. 437 sgg. Ulteriori riferimenti ovidiani sono individuati da NAGORE (1997). Alla hierogamía omerica rinvia anche  CROGLIANO (2003a).Inoltre CROGLIANO (2003b: 135-142) individua in Encolpio un rovesciamento dell'Ulisse stoico, come ce lo presenta Seneca in Epist. 31. 2; 88. 7 e 132. 12.

14 Sono parole di DIMUNDO (1998: 72 e 74).

15 Dopo la constatazione della loro complessiva bellezza (126. 1 venerem tuam e 126. 14 formam eius), alle flexae pectine comae di Polieno (126. 2) corrispondono i crines ingenio suo flexi di Circe (126. 15); alla facies medicamine attrita dell'uno, resa inespressiva e cementificata dall'eccesso di belletto (126. 2), si oppone il trucco leggero e la semplice venustà del profilo dell'altra (126. 15: supercilia usque ad malarum scripturam currentia et rursus confinio luminum paene permixta); la sfrontata e quasi mercenaria oculorum petulantia dell'uomo (126. 2) è in contrasto con la pura bellezza degli oculi clariores stellis extra lunam fulgentibus della donna (126. 16); all'incessus arte compositus (126. 2) corrisponde il più naturale pedum candor intra auri gracile vinculum positus (126. 17).

16 La similitudine con la statua di Sat. 126 potrebbe inoltre riecheggiare una lunga tradizione di descrizioni di statue, risalente già alla prima sofistica e di cui abbiamo sporadiche testimonianze del III-IV sec. d.C. nei Filostrati e in Callistrato: cf. PARATORE (1933: 74) e PACCHIENI (1976: 80-81); utili considerazioni lessicali sono ancora una volta quelle di DIMUNDO (1998: 68-70). L'assimilazione di Circe ad una statua ritorna in Sat. 131. 9: premebat illa resoluta marmoreis cervicibus aureum torum, che sembra ricalcare Ov. Met. 10. 267-69: collocat hanc stratis concha Sidonide tinctis / appellatque tori sociam adclinataque colla / mollibus in plumis tamquam sensura reponit.

17 La traduzione di questo e degli altri passi delle Metamorfosi è di BERNARDINI MARZOLLA (1979).

18 Cf. SCHWEITZER (1967) e FRONTISI-DUCROUX (1975).

19 Cf. PANOFSKY (1952).

20 Cf. PANOFSKY (1952: 11).

21 Cf. ROSATI (1983: 51-83; 136-138 e nn. 80-81; 170-173 e n. 146).

22 Cf. STOICHITA (2006: 1-30 e 97-116).

23 Cf. ThlL VI 1. 1082. 15 sgg.

24 Cf. ThlL V 2. 463. 42 sgg. e OLD s.v. 603 [2].

25 Mi pare che si possa riconoscere la prima accezione in Plin. Nat. Hist. praef. 26-27: ... ex illis mox velim intellegi pingendi fingendique conditoribus, quos in libellis his invenies absoluta opera et illa quoque, quae mirando non satiamur, pendenti titulo inscripsisse, ut APELLES FACIEBAT aut POLYCLITUS, tamquam inchoata semper arte et imperfecta, ut contra iudiciorum varietates superesset artifici regressus ad veniam velut emendaturo quicquid desideraretur, si non esset interceptus ("... vorrei che i miei propositi fossero intesi secondo l'esempio dei famosi fondatori della pittura e della scultura, i quali, come troverai scritto in questi miei libri, terminate le loro opere, anche quelle che non siamo mai stanchi di ammirare, le firmavano con una formula provvisoria, come ‘Apelle faceva' o ‘Policleto faceva', quasi che la loro opera d'arte fosse perennemente iniziata e non compiuta, in modo che, dinanzi alla varietà dei giudizi, restasse all'autore la facoltà di tornare indietro, e quasi di farsi perdonare, correggendo le imperfezioni dell'opera, purché non ne fosse impedito dalla morte"). Cf. anche Plin. Epist. 10. 39. 6: cogor petere a te... mittas architectum dispecturum, utrum sit utilius post sumptum, qui factus est, quoquo modo consummare opera, ut incohata sunt, an, quae videntur emendanda corrigere ("mi sento costretto a chiederti... di mandarmi un architetto che esamini accuratamente se, dopo la spesa già sostenuta, convenga condurre a compimento le costruzioni, in una maniera o nell'altra, secondo il progetto iniziale, oppure perfezionare ciò che va migliorato"). La seconda accezione, invece, è attestata in Plin. Nat. Hist. 35. 153, a proposito di Lisistrato di Sicione, che cominciò a realizzare ritratti più verosimili, attraverso il calco preso direttamente dal volto e poi "corretto"; egli, in seguito, portò ad ulteriori conseguenze la formulazione lisippea del ritratto realistico, scolpendo ritratti al naturale: hominis autem imaginem gypso e facie ipsa primus omnium expressit ceraque in eam formam gypsi infusa emendare instituit Lysistratus Sicyonius, frater Lysippi, de quo diximus. Hic et similitudines reddere instituit; ante eum quam pulcherrimas facere studebant ("Primo di tutti a riprodurre il ritratto umano in gesso ricavandolo direttamente dal volto e, versata la cera nello stampo in gesso, a correggere poi l'immagine fu Lisistrato di Sicione, fratello di Lisippo, del quale abbiamo parlato. Costui cominciò a fare anche ritratti al naturale; prima di lui cercavano di farli i più belli possibile"). Il verbo emendare assume lo stesso valore ("idealizzare" nel rispetto della verosimiglianza, cioè "correggere") in Plin. Epist. 3. 10. 6: ... ut scalptorem, ut pictorem, qui filii vestri imaginem faceret, admoneretis, quid exprimere, quid emendare deberet, ita me quoque formate, regite, qui non fragilem et caducam, sed immortalem, ut vos putatis, effigiem conor efficere ("... come fornireste dei consigli ad uno scultore o ad un pittore incaricato di fare il ritratto di vostro figlio, che cosa egli dovrebbe esprimere, che cosa correggere, allo stesso modo suggeritemi, guidate anche me, che mi sforzo di farne un ritratto non fragile e caduco, ma, stando al vostro giudizio, immortale"). Le traduzioni dei luoghi qui citati sono nostre.

26 L'OLD 1711 [1d] riporta solo il petroniano scriptura nell'accezione di "a line traced, round the outside of something".

27 Cfr. OLD 1709 [1b]; con questo significato, scribo è in Cic. Tusc. 5. 113: (scil. Diodotus Stoicus) geometriae munus tuebatur verbis praecipiens discentibus unde quo quamque lineam scriberent; Plin. Epist. 9. 39. 5: quantum ad porticus, nihil interim occurrit, quod videatur istinc esse repetendum, nisi tamen ut formam secundum rationem loci scribas. Per la scultura di una statua, l'esempio più vicino al nostro contesto è in Stat. Silv. 1. 1. 100-102: ... <A>pelleae cuperent et scribere cerae / optassetque novo similem te ponere templo / Atticus Elei senior Iovis; Silv. 3. 1. 95: tot scripto viventis lumine ceras fixisti, e 3. 1. 117: nec mora, cum scripta formatur imagine tela, con il commento di VOLLMER (1898: 230 e 390).

28 Cf. ThlL IV 1516. 63 sgg.

29 Cf. PACCHIENI (1976: 83-84).

30 Cf. DIMUNDO (1998: 70-71 e nn. 71-75).

31 Cf. PACCHIENI (1976: 80 e n. 20).

32 Per l'espressione ingenio suo, equivalente a sponte aut natura, utili raffronti testuali sono quelli di DIMUNDO (1998: 53 e n. 14).

33 Cf. BÖMER (1976: 91).

34 Cf. BÖMER (1977: 270).

35 Al v. 286, all'accezione metamorfica di flectitur (evidente per la presenza del costrutto in + accusativo, spesso usato in associazione con i verbi vertere e mutare), si sovrappone l'accezione plastica, grazie alla similitudine con la cera; rinvio ai luoghi messi a confronto da BÖMER (1980: 107).

36 Il verbo inflecto non è usato da Ovidio; può anch'esso indicare la mobilità degli arti come in Quint. Inst. 11. 3. 142: digitis leviter inflexis (cf. ThlL VII 1458. 19 sgg.) o essere sinonimo di molliri, anche se per lo più in senso figurato e psicologico (cf. ThlL VII 1459. 37 sgg.).

37 Ad una lettura superficiale, si potrebbe credere che Circe sia più bella delle statue e del marmo pario perché lei è vera e viva, mentre qualunque scultura è mimesi (approssimazione e imitazione della natura, intesa come unico e superiore modello). I punti del testo che si prestano a questo equivoco interpretativo (126. 13: mulierem omnibus simulacris emendatiorem; 126. 17: Parium marmor extinxerat) non devono essere sopravvalutati e vanno opportunamente intesi: a 126. 13 il suffisso del comparativo, aggiunto al suffisso del participio, dà appunto l'idea di un'artificialità di secondo grado, di una bellezza lavorata e poi ulteriormente perfezionata; l'espressione mulierem omnibus simulacris emendatiorem non suggerisce, a mio avviso, un'antinomia tra la natura e l'arte, quanto un confronto tra bellezze già artisticamente trasfigurate: come a dire che Circe è "una statua di donna cesellata meglio di tutte le altre". Proprio perché assimilabile ad un'opera d'arte, per giunta eccezionale, Circe oscura la bellezza umana ordinaria (126. 18: itaque tunc primum Dorida vetus amator contempsi).

38 Cf. PIANEZZOLA (1997: 55-56).

39 È la famosa definizione di Italo Calvino nel saggio Gli indistinti confini,che fa da prefazione a BERNARDINI MARZOLLA (1979: 7-16), ristampato con lievi modifiche e con il titolo Ovidio e la contiguità universale in CALVINO (1991: 36-49).

40 PIANEZZOLA (1973: 33-36) mette in evidenza che tutte le metamorfosi sono riconducibili a pochi schemi di fenomeni (aggiunta/sparizione; indurimento/rammollimento; unione/separazione; accrescimento/riduzione) e ci offre un modello esemplare di analisi dello schema della metamorfosi per il mito di Deucalione e Pirra (Met. 1. 400-415). L'isomorfismo che rende immaginabile la metamorfosi è garantito dalla polisemia del lessico: al v. 410 quae modo vena fuit, sub eodem nomine mansit, il sostantivo vena vale sia nell'accezione geologica sia in quella anatomica; analogamente, la metafora lapides=ossa, attraverso l'ambiguità oracolare, prepara la metamorfosi(vv. 38-383  e 393-394). A mio avviso, anche il verbo flecto è polisemico ai vv. 407-409: quae tamen ex illis aliquo pars umida suco / et terrena fuit, versa est in corporis usum; / quod solidum est flectique nequit, mutatur in ossa: a ridosso della similitudine della scultura, collocato tra vertere e mutare, il verbo flecto si riverbera di tutte le accezioni: si muta in ossa "ciò che è solido e non può essere piegato" (mentre la parte terrena e ricca di umori del v. 407 si trasforma in carne), ma anche "ciò che non può essere scolpito", ovvero "ciò che non può essere trasformato": è così ripristinata l'identità sassi-ossa, che riesce a rendere verosimile il rapporto di equivalenza tra cose tanto diverse e a giustificare la metamorfosi.

41 Si tenga conto che talvolta in Ovidio l'arte della scultura, con il graduale affiorare delle forme dalla pietra, può essere considerata una variante della metamorfosi. VIARRE (1964: 49) avvicina la metamorfosi delle pietre lanciate da Deucalione e Pirra alla creazione artistica di Pigmalione, ma PIANEZZOLA (1973: 35-36) consiglia di non sopravvalutare il paragone con la statua appena sbozzata, per quanto suggestivo (Met. 1. 403-410). È invece più significativo che la metamorfosi in pietra sia sentita come una realtà che diventa finzione, cioè opera d'arte ideale, perché mantiene inalterata nel marmo la tensione vitale dell'ultimo gesto definitivo di un personaggio (cf. Met. 2. 819-832; 4. 543-562; 5. 1-243; 6. 301-312; 10. 238-242; 11. 58-60; 11. 404-406): rinvio alle analisi di ROSATI (1983: 145-148) e FEDELI (1997: 82-83).

42 ROSATI (1983: 151) osserva che è tipico di Ovidio isolare i momenti emblematici dell'evento narrato, scomponendolo in fotogrammi: "come appunto ad offrire, più che una narrazione degli eventi, una descrizione di scene accuratamente effigiate". Anche l'episodio di Sat. 126-132 è articolato in quadretti oleografici; non sempre questo effetto dipende dallo stato lacunoso del testo, che ci priva di alcuni passaggi narrativi. Anche dove il testo è integro, Petronio sembra aver costruito il racconto giustapponendo elegantissimi cammei: il discorso retoricamente elaborato di Criside (126. 1-10), la descrizione del locus amoenus (126. 12) e di Circe (126. 13-18), il primo e il secondo approccio tra Circe e Polieno (cc. 127-128 e 131-132), modellati su Il. 14. 317-349, lo scambio epistolare tra i due amanti (cc. 129-130).

43 Ovidio ironicamente estende anche alle pratiche della seduzione, del corteggiamento e del trucco, nobilitate come arti, un principio retorico già codificato da Aristotele (Rhet. 3. 2. 4), poi passato all'oratoria latina (Cic. Or. 37-38 e Quint. Inst. 2. 5. 8; 2. 17. 6; 4. 1. 9; 4. 5. 4; 12. 5. 9). Se l'atteggiamento di Properzio è fortemente scettico nei confronti della cosmesi (1. 2. 8: nudus Amor formae non amat artificem; 2. 18b. 25: ut natura dedit sic omnis recta figura est), anche a causa della tormentata gelosia per Cinzia, invece Ovidio asserisce la superiorità dell'arte sulla natura, purché dissimulata, nei limiti del decorum (Ars 3. 210: ars faciem dissimulata iuvat); per questo Ovidio suggerisce di non truccarsi in pubblico e di tener conto delle caratteristiche naturali perché il risultato sia verosimile (Rem. 341-356; Ars 3. 188-234). Petronio documenta parodicamente questa topica nell'elegia di 109. 9-10 (che è una parodia di Ov. Am. 1. 14) e a 102. 13-16: qui Encolpio, Eumolpo e Gitone, in trappola sulla nave di Lica, escogitano, tra gli altri piani di fuga, quello di travestirsi da servi etiopi, oppure da Giudei, Arabi o Galli, attraverso altrettante operazioni di maquillage, sulla cui verosimiglianza i tre malcapitati dibattono; si tratta di una degradazione della tematica cosmetica elegiaca; come a 126. 2 (facies medicamine attrita), così a 102. 15 (infectam medicamine faciem) la citazione del titolo dell'operetta didascalica del poeta di Sulmona, perfettamente incastonata nella sintassi petroniana, dà un sigillo fortemente ovidiano al contesto. Per l'ulteriore bibliografia sul tema del trucco negli elegiaci rinvio a MAZZILLI (2000: 60-63 e nn. 11-17); per la generalizzazione del principio della dissimulatio artis a tutte le arti, utili riflessioni sono in ROSATI (1983: 80-132).

44 Faccio mie le parole di CUCCHIARELLI (1999: 177 e 183).

45 Sono parole di FEDELI (1987: 16).

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Fecha de recepción: 02-06-11
Fecha de aceptación: 01-07-11

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