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Argos

On-line version ISSN 1853-6379

Argos vol.35 no.1 Ciudad Autónoma de Buenos Aires Jan./June 2012

 

ARTÍCULOS

Retractationes Propertianae (4.6)

 

Paolo Fedeli

Università di Bari

p.fedeli@ria.uniba.it

 


Resumen

Entre los comentarios coetáneos de la obra properciana, los de Fedeli al primer libro (1980), al tercero (1985) y al segundo (2005) resultan inexcusables para el estudioso del poeta de Asís. Actualmente Fedeli trabaja -acompañado por R. Dimundo e I. Ciccarelli- en un nuevo comentario del cuarto libro, que tiene un especial interés porque da cuenta de su reconsideración de numerosos problemas crítico-textuales, de lo que resulta un texto bastante diferente no sólo del de la edición juvenil del cuarto libro editada por Fedeli en 1965, sino también del de su edición crítica de la obra completa, de 1984. El gran propercianista nos concede el honor de publicar en nuestras páginas una muestra de este nuevo comentario que es, además, una inagotable lección de método y de saber filológicos*.

Palabras clave: Propercio 4. 6; Crítica textual; Edición; Comentario; Retractationes.

Abstract

Among modern commentaries on Propertius, those of Fedeli on Book 1 (1980), 3 (1985) and 2 (2005) are essential for researchers on the poet of Assisi. Together with R. Dimundo and I. Ciccarelli, Fedeli is currently working on a new commentary on Book 4, of special interest because it reconsiders many textual problems and therefore offers a text quite different both of Fedeli's early 1965 edition of Book 4 and of his critical edition of the entire corpus of 1984. The great Propertian scholar honors our review publishing some samples of this new commentary, which provide at the same time an unending lesson in philological method and expertise.

Keywords: Propertius 4. 6; Textual criticism; Edition; Commentary; Retractationes.


 

Sì, è vero. Scriviamo sempre dopo gli altri. E a me non provoca problemi ricordare di frequente questa evidenza. Di più: mi piace farlo, perché dentro di me si annida un dichiarato desiderio di non essere mai unicamente me stesso, ma di essere anche, sfacciatamente, gli altri.

Enrique Vila-Matas

A distanza di quasi trent'anni dalla mia edizione teubneriana di Properzio, molto è cambiato nel mio modo di confrontarmi col testo che delle sue elegie è stato tramandato: il commento che ho dedicato al II libro (Cambridge, 2005) ne è la prova più eloquente. Grande è il mio debito di riconoscenza nei confronti di quegli studiosi -mi limito qui a ricordare Goold, Heyworth, Hutchinson, ma ne potrei citare tanti altri- che mi hanno indotto a riflettere e a sottoporre a critica l'eccessiva fiducia di un tempo nei confronti di un testo che ha una tradizione tarda e ampiamente interpolata. Qui di seguito discuterò i passi dell'elegia del IV libro composta in occasione del XV anniversario della battaglia di Azio. È questo il carme properziano che in modo più evidente sviluppa l'elogio di Augusto: la vittoria aziaca consente al poeta di esaltare la gens Iulia, la politica espansionistica di Augusto, la sua divinizzazione in vita, soprattutto il suo stretto legame con Apollo, sua divinità tutelare. Proprio ciò spiega la singolare ambientazione dell'esordio e lo sforzo costante di conciliare la sacralità con la proclamazione di una poetica di tipo nuovo. Premetterò ogni volta il testo della mia edizione del 1984, indicando in tondo e sottolineando le parole che ora non ritengo più genuine. vv. 1-4:

Sacra facit vates: sint ora faventia sacris     et cadat ante meos icta iuvenca focos. Cera Philiteis certet Romana corymbis     et Cyrenaeas urna ministret aquas. Un maestoso poliptoto a cornice (sacra... sacris) introduce il lettore in un'atmosfera sacrale e al pentametro è affidato il compito di chiarire che si tratta di un sacrificio: nel distico vengono presentati in successione il sacrificante, gli astanti e la vittima; tuttavia il fatto che esecutore del sacrificio (sacra facit) non sia un sacerdos, ma un vates, fa subito intuire che, sia pur nel rispetto del cerimoniale previsto, non scorrerà realmente sull'altare il sangue di una giovenca, ma si tratterà di un sacrificio metaforico. Mentre, poi, dall'affermazione iniziale il lettore non può dedurre chi sia il vates, il passaggio immediato nel pentametro dalla terza alla prima persona (ante meos... focos) mette in chiaro che è Properzio stesso a indossare i panni tanto del sacerdote quanto del vate e che il suo si configura come un sacrificio privato. Il poeta, dunque, in quanto sacerdote di Apollo e delle Muse può legittimamente esercitare il ruolo dell'officiante; al tempo stesso, considerata la situazione, è ugualmente legittimo che egli si appropri dell'epiteto di vates, che in un libro di poesia elegiaca programmaticamente non convenzionale suscita fondate attese nei confronti di un carme che intende collocarsi a un livello di superiore dignità.Dopo aver preannunciato il proprio ruolo di vates nel primo distico dell'esametro incipitario, Properzio prende a formulare una serie di disposizioni, scandite dai congiuntivi alternanti con gli imperativi, che solo nel v. 9 avranno fine: il discorso continuerà a svilupparsi su un piano di religiosa sacralità, che senza contrasti si confonderà con i principi di poetica; analogamente, gli ordini ai ministri del metaforico sacrificio si mescoleranno agli auspici del vates.Il poeta sacrificante immagina che una folla di fedeli assista alla cerimonia: di conseguenza nel secondo emistichio dell'esametro incipitario egli invita con piglio imperioso i presenti a favere con i loro ora. L'ambiguità del suo ruolo di sacerdos e vates trova un riflesso nell'ambiguità della formula d'invito, che assume un senso diverso a seconda che il punto di vista sia quello del sacerdos o quello del vates, ma l'originalità di Properzio è evidente nel modo stesso in cui egli formula l'invito: ci si attenderebbe, infatti, il solito e ben collaudato favete linguis (come e.g. in Hor. Carm. 3. 1. 2), che corrisponde al greco εὐφημεῖτε, e invece Properzio adotta una ben più complessa struttura participiale (sint ora faventia), in cui la forma perifrastica sint faventia sostituisce il normale faveant1. Si scorge qui il poeta che si sforza di superare l'ovvietà della formula tradizionale in un verso costruito con rara accortezza, non solo grazie al poliptoto a cornice, ma anche con l'insistente allitterazione e con la studiata collocazione di vates prima della cesura pentemimere, che per di più divide l'esametro in due kola simmetrici; a ciò si aggiunge, appunto, la ricercatezza della forma perifrastica, con cui Properzio raggiunge lo scopo di enfatizzare la richiesta di attenta e devota partecipazione dei presenti, che dovrà durare per l'intero svolgimento del rito sacrificale2. Dal punto di vista del sacerdos, qui sint ora faventia sacris costituisce un invito al silenzio rivolto a tutti i presenti: il silenzio durante lo svolgimento del sacrificio costituisce, d'altronde, un obbligo nelle culture più diverse e lontane nel tempo3. Se, però, del ruolo del sacerdote si appropria il poeta, col conseguente spostamento del discorso a un livello metaforico, allora c'è da attendersi che il suo non sia un invito al silenzio, ma piuttosto un'esortazione a offrire favorevoli auspici4. Nelle descrizioni di sacrifici è normale che si parli di caedere victimam o di una victima caesa5: la preferenza che Properzio accorda all'intransitivo cadere non serve solo a porre al centro dell'attenzione la iuvenca che viene sacrificata, ma assegna al pentametro il compito di racchiudere in una rapida sequenza il colpo fatale e l'immagine della vittima che stramazza al suolo. La scena si svolge ante focos del poeta: che qui si tratti dei foci dell'altare su cui l'officiante compie il sacrificio, e non della cella dei Lari familiari, è certo. La successione delle azioni è invertita per conferire maggiore risalto alla caduta a terra, che s'identifica con la fine della vittima. Detto di una vittima sacrificale, il participio passato ictus isola l'immagine del colpo mortale ad essa inferto. Il fatto che nel contesto iniziale dell'elegia properziana si parli del sacrificio di una giovenca non aggiunge un particolare superfluo, ma fa capire che il sacrificio privato del poeta è particolarmente significativo, a causa dell'importanza del suo destinatario.Con buona pace di Richardson, secondo cui -nel suo commento ad loc.- "what P. wants is not to contend with his great model, but to draw inspiration from him", il presente congiuntivo certet, collocato al centro del v. 3, incita a una competizione che, a stare al testo tràdito, dovrà vedere di fronte la cera Romana e i Philitei corymbi (Philitei è correzione palmare, nei recenziori, del tràdito philippeis): com'è normale sin da Plauto, il verbum certandiè costruito col dativo6. Tuttavia i termini del contrasto (cera e corymbi) sono apparsi impropri e incoerenti a più d'un editore, e a farne le spese è stato cera, che già lo Scaligero corresse in serta. Chi continua a difendere cera non si distacca troppo dalla spiegazione che del nesso diede il Beroaldo (versus mei elegiaci, hoc enim significat 'cera romana', certent cum corona hederacea, qua coronatus est Philetas apud Graecos elegiographus poeta); egli fu il primo a intuire che l'unico modo di giustificare la presenza del termine era quello d'intenderlo nel senso metaforico di 'poesia' (carmen, versus). I commentatori successivi, però, si sono accontentati di conferire a cera il suo senso tecnico (cf. e.g. Lachmann: tabulam ceratam dixit, in qua scribebat), suscitando facili obiezioni, come l'impossibilità d'inserire un carme di notevole ampiezza su una tavoletta cerata o l'inopportunità di pensare che quel fragile materiale scrittorio potesse sfidare i secoli. Incuranti del monito di Leo nella recensione al commento di Rothstein, secondo cui "keine Stelle an der Properz aus dem Bilde oder Gleichnis mit einem Worte herausgeht kann hier, wo eine ausführliche Beschreibung der Opferhandlung gegeben wird, cera glaublich machen"7, i difensori del testo tràdito ribattono che altrove in Properzio (3. 1. 18) è il sostantivo pagina a simboleggiare la poesia e si fanno forti dei passi citati da Shackleton Bailey8 per dimostrare che un termine come cera può essere usato anche in riferimento a carmi lunghi. Parallelamente a tali tentativi di difendere il testo tràdito si è fatta strada, da Rothstein in poi, l'interpretazione metaforica di cera già introdotta dal dimenticato Beroaldo, in base alla quale la tavoletta cerata -comune strumento scrittorio dei Greci e dei Romani- sarebbe una metafora della poesia9: non c'è dubbio che, dato il contesto, ci si attenda un termine che simboleggi la poesia, ma non è detto che si tratti di cera. Si considera, poi, rovinoso correggere cera in serta, perché in tal modo si distrugge la triplice allitterazione (cera... certet... corymbis), in particolare quella a cornice10: ma si può obiettare che anche con serta, assonante con certet, si ottiene una figura di suono. Una via diversa per difendere il testo tràdito è stata percorsa da Cairns11, che muove dai vv. 27-31 del I idillio teocriteo, in cui viene descritto il "boccale d'edera profondo, spalmato di cera soave, a due manici, appena fabbricato, odoroso ancora di cesello. Verso i suoi labbri, in alto, si stende l'edera, l'edera intrecciata all'elicrisio; e lungo questo si avvolge la voluta, in tripudio per il suo croceo frutto"12. Fondandosi sul v. 3 dell'elegia properziana, Cairns non solo ritiene che la cera e l'edera di cui parla Teocrito rinviino a motivi di poetica alessandrina e derivino da Fileta, ma vede anche in Theoc. 1. 27-31 un valido sostegno al mantenimento di cera in 4. 6. 3: tuttavia Heyworth ha buon gioco nel rilevare che con un simile ragionamento si cade in una petizione di principio13.C'è un motivo sostanziale che si oppone alla difesa del testo tràdito: che senso ha il confronto tra la cera e un elemento del mondo vegetale? Un discorso di poetica, che come sempre si sviluppa attraverso collaudate metafore, deve essere coerente: il lettore, dunque, si aspetta di trovare un legame fra i due termini, ma non riesce a scorgere alcuna analogia fra loro, perché i corimbi, cioè i grappoli dell'edera che tradizionalmente adornano la fronte di Bacco ispiratore di poesia14, non hanno alcun rapporto con le tavolette cerate. Di contro essi, pars pro toto per la corona d'edera che spetta a Fileta, possono entrare a buon diritto in competizione con la ghirlanda (serta dello Scaligero, appunto) che tocca al poeta romano: non è detto che si tratti di una ghirlanda di fiori di altro tipo, perché serere definisce solo che essi sono intrecciati. All'edera e, quindi, ai corimbi rinvia anche l'esortazione del poeta a Bacco in 4. 1. 62: mi folia ex hedera porrige, Bacche, tua e con la fronte cinta da corimbi Properzio si raffigura in 2. 30. 39, in un contesto in cui si parla di Bacco e dell'ispirazione poetica (vv. 37-40: hic ubi te prima statuent in parte choreae / et medius docta cuspide Bacchus erit, / tum capiti sacros patiar pendere corymbos: / nam sine te nostrum non valet ingenium); identica, poi, è la condizione di Bacco, candida laxatis onerato colla corymbis, in 3. 17. 29. L'ipotesi più probabile, dunque, è che sia Properzio sia Fileta siano coronati di una ghirlanda di corimbi, ovvia metafora della poesia: l'elemento nuovo, però, consiste nella posizione assunta da Properzio, che con Fileta -da sempre suo modello insieme a Callimaco15- sente ora di poter entrare in competizione. Serta è da intendere come un femminile singolare, mentre lo Scaligero pensava a un neutro plurale (serta, -orum) e, di conseguenza, era costretto a correggere certet in certent: in 2. 33. 37, però, il Neapolitanus è l'unico fra i manoscritti a tramandare il femminile plurale demissae... sertae, e la sua lezione trova conferma nella tradizione indiretta, rappresentata da Carisio, che nell'uso del singolare vede una peculiarità properziana16; il femminile è attestato solo in un altro poeta augusteo, Cornelio Severo (fr. 3 M.), ugualmente citato da Carisio. Proprio la rarità dell'uso del femminile serta e l'influsso di certent avranno provocato l'errore dei manoscritti. Non è escluso che la ricercata collocazione a incastro dei termini nell'esametro (serta Philiteis... Romana corymbis) voglia essere un modo di riprodurre l'intreccio dei corimbi della metaforica ghirlanda.Mentre l'esametro, con la presenza di serta e corymbi, si ricollega alla funzione del poeta vates, il pentametro recupera, su un analogo piano metaforico, il motivo del sacrificio e, dunque, il ruolo del poeta sacerdos. In Properzio non è possibile che Fileta sia separato da Callimaco: la definizione delle aquae come Cyrenaeae (v. 4) costituisce, dunque, una chiara allusione alla patria di Callimaco e a lui viene assegnato il compito di ministrare aquas. Se si considera il verso alla luce del sacrificio, l'allusione è all'uso rituale dell'acqua lustrale; però sin dai vv. 108-112 dell'inno callimacheo ad Apollo l'acqua è il simbolo della purezza stilistica, e il legame fra l'acqua e l'ispirazione nei poeti che, secondo Properzio, sono tutti aquae potores (ὑdροπόται), è talmente frequente da non rendere necessaria un'esemplificazione17. L'urna da cui Callimaco versa l'acqua è, dunque, una rappresentazione simbolica della fonte dell'ispirazione.

Ora diviene chiara in tutti i suoi particolari la metaforica funzione del sacrificio: Callimaco e Fileta restano i modelli a cui attingere l'ispirazione poetica: tuttavia con i venerati modelli il Romanus Callimachus del IV libro sente di poter stabilire un rapporto che non è solo di devota imitazione, ma anche di aemulatio, e che con loro lo vede impegnato in una nobile gara. Implicitamente Properzio fa capire che le tematiche del IV libro possono essere trattate alla maniera degli Alessandrini, anche quando -come qui- si tratta di una solenne poesia celebrativa: d'altronde 4. 6 vuole essere un carme eziologico, alla maniera callimachea.

Vale la pena di riflettere anche sulla funzione dei congiuntivi nell'esordio del carme: apparentemente certet e ministret si collocano sullo stesso piano di sint e di cadat e rientrano nella metafora del sacrificio quali inviti dell'officiante a quanti lo assistono nello svolgimento del rito sacro. Ciò, tuttavia, è vero per ministret, che in forza del suo etimo inserisce Callimaco stesso fra gli aiutanti del sacerdos, ma non per certet, che non esprime un comando, ma un incitamento del poeta a se stesso e alla sua poesia, che assume anche il carattere di un fiducioso auspicio.

vv. 15-18:      

Est Phoebi fugiens Athamana ad litora portus,                    15    

qua sinus Ioniae murmura condit aquae,

Actia Iuleae pelagus monumenta carinae,    

nautarum votis non operosa via.

La parte narrativa dell'elegia ha inizio con una solenne presentazione del tratto di mare in cui si era svolto il decisivo scontro navale. Dal generico Athamana ad litora si passa a una più precisa determinazione del golfo di Ambracia, dapprima con l'immagine del promontorio su cui sorge il tempio di Apollo Aziaco (Phoebi... portus), poi con la descrizione delle placide acque del golfo sul mare Ionio (v. 16). Est... portus (v. 15) introduce la presentazione del luogo dello scontro navale con un'epica solennità, da Properzio già esperimentata nella ἔκφρασις τόπου dell'elegia di Tarpea (4. 4. 3-6: lucus erat eqs.), che risale ad Ennio (Ann. 20 Sk.: est locus, Hesperiam quam mortales perhibebant) e, ancor più indietro, a maestosi inizi omerici di narrazione18.

Gli Athamana litora indicano il litorale epirota, grazie al rinvio agli Atamani che vivevano in Epiro19, a nord-est del golfo di Ambracia. Il Phoebi portus, che ricorda gli Actia... custodis litora Phoebi di 2. 34. 61, è una designazione del golfo di Ambracia; Properzio parla di un portus perché il golfo è separato e protetto dal mare aperto, mentre la menzione di Febo fa riferimento al tempio del dio sul promontorio che divide il golfo dal mare aperto. Che, poi, un portus sia definito fugiens può solo significare che, per la sua collocazione, il golfo occupa una posizione defilata e lontana nei confronti del litorale; in tal modo ad essere enfatizzata è l'ampiezza del golfo di Ambracia20. Anche se già Postgate aveva interpretato bene fugiens ("'receding' far into the land"), ad Hutchinson e ad Heyworth va il merito di aver messo in crisi l'interpretazione tradizionale, secondo cui il portus è detto fugiens perché si sottrae alla vista per la sua posizione defilata.

Il sinus del v. 16 è, naturalmente, il golfo d'Ambracia considerato nel suo insieme, a cui si attribuisce la prerogativa di calmare il frastuono (murmura) del mare Ionio (Ioniae... aquae): condere ha qui il senso di 'placare' o 'sopprimere' un rumore21; si tratta di un caso di sinestesia, perché -come in 4. 4. 61: tubicen, fera murmura conde- il senso proprio di condere è quello di 'nascondere', ma qui l'idea del sottrarre alla vista è sostituita da quella del sottrarre all'udito.

Il v. 17 è strutturato per coppie di epiteti (Actia Iuleae) e di sostantivi (monumenta carinae), che ci parlano di un 'memorial' della nave giulia. Monumentum è tutto ciò che perpetua -con la forza della testimonianza o del documento- il ricordo di qualcosa, in particolare di un'impresa vittoriosa, come nel caso dello scontro aziaco22. Problematica, tuttavia, resta la funzione di pelagus, che divide gli aggettivi dai sostantivi. Il fatto che solo qui il solenne sinonimo di mare sia attestato in Properzio non rappresenta una valida ragione per considerarlo corrotto: anzi, paradossalmente si potrebbe sostenere che Properzio lo usa solo qui proprio per conferire al contesto una particolare solennità; ben altri, però, sono i motivi che lo rendono insostenibile. Rothstein, che l'accetta, sostiene che "der Hafen, in dem die Schlacht stattgefunden hat, ist ein Siegesdenkmal für die Flotte des Augustus": il portus, però, è altra cosa dal pelagus. D'altra parte Rothstein è costretto a un disperato e improbabile cambiamento di punteggiatura (est, Phoebi fugiens Athamana ad litora portus, / qua... aquae, / Actia Iuleae, pelagus, monumenta carinae), che lo porta a concludere che "Subjekt des Satzes ist pelagus; dazu treten drei Appositionen und ein Satz mit qua, der ihnen logisch gleichsteht". In realtà pelagus può essere solo apposizione di portus nel v. 15 o di sinus nel v. 16 e a sua volta può solo avere Actia... monumenta e via come apposizioni: tutto ciò, oltre che estremamente contorto è improbabile, perché pelagus è il mare aperto, che è ben diverso dalla limitatezza di un sinus o di un portus. Quanti, poi, incuranti di tali difficoltà offrono traduzioni come "un tratto di mare che è ricordo aziaco della flotta giulia", dànno l'impressione di avere sotto i loro occhi un testo quale pelagus (quod est) Actium monumentum Iuleae carinae e non spiegano la presenza del plurale monumenta. D'altra parte non è il mare, ma il tempio di Apollo restaurato da Augusto, che costituisce il monumentum. Un rimedio eccessivo è l'espunzione del distico, suggerita da Hutchinson, anche perché la struttura dell' ἔκφρασις τόπου sembra identica a quella di 4. 4. 3-6; 15-16. È difficile ipotizzare che cosa possa celarsi dietro il tràdito pelagus: forse una preposizione come propter di Richardson, o un verbo come celebrant di Heyworth, o un nome proprio come Leucas di Markland (e poi di Goold), o un nome comune come portus di Waardenburg, o un participio presente come pandens di Fea? In ogni caso non ha gran senso fondarsi sulla verisimiglianza paleografica, perché pelagus può costituire una glossa, o una parte di essa, penetrata poi nel testo. In assenza di una congettura convincente, le cruces desperationis sembrano imporsi.

Le difficoltà che alcuni interpreti recenti vedono nel v. 18 non sembrano insormontabili: i vota dei naviganti possono solo riguardare il felice raggiungimento del porto. Di conseguenza via non ha l'improbabile valore di 'rifugio', ma mantiene il senso di 'percorso': qui, ovviamente, si tratta del percorso che la nave deve seguire per raggiungere il porto. Riferito a via nel senso di 'percorso', non operosa ha il senso di 'non faticoso' e quindi, se si considera la litote, di 'agevole'23. L'affermazione si spiega se si tiene presente quanto dice Virgilio nel descrivere l'arrivo di Enea e dei suoi a Leucade (A. 3. 274-275): mox et Leucatae nimbosa cacumina montis / et formidatus nautis aperitur Apollo. Postgate vi vede un'allusione alla costruzione, voluta da Ottaviano nel 30 a.C. (Suet. Aug. 18. 2) dopo la vittoria aziaca, di un porto a Nicopoli24, capace di offrire sicurezza ai naviganti che dal mare aperto entravano nel golfo25.   

vv. 23-30:                                                     

hinc Augusta ratis plenis Iovis omine velis    

signaque iam patriae vincere docta suae.

Tandem aciem geminos Nereus lunarat in arcus,                25    

armorum et radiis [p]icta tremebat aqua,

cum Phoebus, linquens stantem se vindice Delon    

(nam tulit iratos mobilis un[d]aNotos),

astitit Augusti puppim super et nova flamma

luxit in obliquam ter sinuata facem.                                   30

Alla presentazione della flotta di Antonio, rassegnata in previsione di una sicura disfatta, si contrappone quella della flotta di Ottaviano, che baldanzosamente avanza a vele spiegate, sicura di poter aggiungere una nuova vittoria alle tante già avvenute. Hinc (v. 23) definisce una posizione diversa ('di qua'), che equivale a una contrapposizione nei confronti di altera ('dalla parte opposta'). Properzio dipende da Virgilio, che nella raffigurazione degli opposti schieramenti sullo scudo di Enea si era servito della normale opposizione hinc... hinc e aveva dato la precedenza alla flotta di Augusto (8. 678-684), e al tempo stesso lo varia. Alla rassegnazione alla sconfitta della flotta di Antonio si contrappone nel v. 24 la certezza del successo di Ottaviano e dei suoi, perché  -come fa capire docta- la vittoria è un'arte che s'impara facendovi l'abitudine26.

Tandem mette fine alla situazione di stallo e segna l'inizio delle operazioni: il poeta sembra in preda della stessa impazienza che, secondo le testimonianze degli storici, s'impadronì di Ottaviano al cospetto di un nemico che non accennava a muoversi. Le descrizioni che della battaglia di Azio ci dànno Cassio Dione (50. 31. 4-6) e Plutarco (Ant. 66.1-5) chiariscono il senso del v. 25: l'imponente flotta di Antonio si schierò poco oltre lo stretto, con una disposizione a semicerchio, e lì rimase in attesa; alle sue spalle era schierata la flotta di Cleopatra. Ottaviano dapprima attese le mosse del nemico; poi, resosi conto di dover prendere l'iniziativa, a un segnale convenuto diede inizio a una manovra di accerchiamento, facendo curvare le ali della sua flotta (D.C. 50. 31. 5: τὰ κέρατα ἐξαίφνης ἀμφότερα ἀπὸ σημείου ἐπεξαγαγῶν ἐπέκαμπεν) e adottando così un'analoga disposizione a semicerchio. A quel punto Antonio, per evitare di venire accerchiato, fu costretto ad avanzare e ad accettare lo scontro27.

La disposizione delle navi a falce di luna riguarda entrambe le flotte (cfr. infatti geminos in arcus) e non solo quella di Ottaviano: ma il tràdito aciem, che alcuni recenziori hanno corretto in acies28, può essere mantenuto come singolare collettivo, allo stesso modo della moles pinea dei vv. 19-20. Properzio attribuisce la disposizione a semicerchio della flotta al dio marino Nereo, e dunque alla forza del mare.29 In quanto a geminos in arcus, l'espressione registra la disposizione delle flotte dopo l'inizio della manovra di aggiramento operata dalle ali di quella di Ottaviano: all'inizio, infatti, la disposizione a semicerchio di entrambe le flotte contrapposte oppone convessità a concavità; poi, dopo la manovra di accerchiamento, i due semicerchi sono entrambi concavi e paralleli.

Nel pentametro l'anastrofe di et serve a mettere in risalto i bagliori delle armi che colpiscono l'acqua e la fanno tremolare. Pulchre "tremebat aqua"        -commenta Waardenburg30- quasi metuens has armorum coruscationes. Al tempo stesso il tremore dell'acqua colpita dai bagliori delle armi è un modo di comunicare in forma metaforica l'angoscia e il terrore che si diffondono prima della battaglia. Dopo Williams31, anche Hutchinson continua a difendere il tràdito picta, ma non trova paralleli migliori di Manil. 4. 515 vitreum findens auravit vellere pontum (detto dell'Ariete dal vello d'oro). C'è da dubitare, però, che Properzio possa definire così lo splendore delle armi dipinte che si riflette sull'acqua marina e seri dubbi in proposito sono stati espressi da Housman32 ("the reflexion of light from weapons is virtually of one colour with the reflexion from water, and water which catches the light from weapons suffers no charge of hue"): ben diverso, poi, è il caso dei picta arma di Tazio (4. 4. 20). Il participio passato icta di alcuni recenziori, che nell'identica posizione, all'inizio del secondo emistichio del pentametro, compariva già nel v. 2, unito a radiis è antico quanto Ennio33 e costruisce una semplice correzione del tràdito picta, che è difesa anche da iniciat radios del v. 8634.

Dopo che le flotte, in seguito alla manovra aggirante messa in atto da quella di Ottaviano, si sono disposte su due semicerchi paralleli, tutto è pronto perché abbia inizio lo scontro: il decisivo mutamento della situazione è segnato con efficacia dal cum inversum, che nel v. 27 introduce la straordinaria e risolutiva apparizione di Apollo quale sostenitore di Ottaviano. L'intervento divino non sta solo a indicare la gravità della situazione, ma è garanzia di successo sicuro per chi dal dio è assistito. Per di più Apollo non scende dall'Olimpo, ma per raggiungere Azio ha lasciato addirittura la natia Delo, proprio per l'urgenza e l'importanza del suo intervento. La menzione dell'isola suscita una rapida ma dotta digressione, che interrompe il flusso narrativo e modifica la struttura abituale del distico elegiaco con l'introduzione di una parentesi esplicativa che occupa interamente il pentametro e fa sì che il pensiero espresso nel v. 27 venga completato nel distico successivo35. Legando il participio presente linquens (v. 27) al perfetto astitit del v. 29, Properzio ha voluto dare l'idea della fulmineità del viaggio di Apollo, lasciando nel lettore l'impressione che esso sia durato quanto il brevissimo spazio temporale della sospensione creata dalla parentesi.

Il participio presente linquens è seguito da un altro participio presente (stantem), che asegna a Delo una salda fissità, raggiunta grazie al provvido intervento del dio stesso (l'ablativo assoluto se vindice, in cui vindex, termine del linguaggio giuridico e politico, assume il senso di 'protettore')36. Il Properzio eziologico del IV libro, però, si sente in obbligo di chiarire l'origine e i motivi dell'attuale stabilità di Delo: se vindice si preoccupa d'individuare l'artefice, l'espressione parentetica del v. 28 di spiegare la differenza fra la condizione passata e quella presente. Il fatto stesso che Delo venga definita col participio presente stans fa capire che nel passato la sua situazione era diversa, come appunto mette in chiaro mobilis nel v. 28: che Delo prima della nascita di Apollo fosse un'isola erratica (Ov. Met. 6,333) era ben noto sin dai vv. 49 sgg. dell'inno omerico ad Apollo; proprio per l'ospitalità concessa a Latona in occasione del suo parto divino era stata premiata dal dio con la stabilità sulle acque37.

Nel v. 28 i codici poziori tramandano nam... unda, che alcuni recenziori correggono in non... una: con buona pace di Kraffert (1864: 355-356), che collega il v. 28 non a quanto precede ma a ciò che segue, e di Hosius, che senza alcun turbamento lo accetta così com'è tràdito, il testo dei codici più autorevoli non dà senso. Non è detto, però, che il rimedio appropriato sia quello dei recenziori, sia perché il nam causale che introduce la breve spiegazione sembra ineccepibile, sia perché una assegna a Delo una condizione che, secondo le antiche testimonianze, non fu soltanto la sua: altre isole in balía delle acque sono ricordate da Seneca (Nat. 3. 25. 8), da Plinio (Nat. 2. 209), da Pomponio Mela (1. 55), da Macrobio (Sat. 1. 7. 29). La correzione migliore del tràdito unda è ante di Lipsius, che ben si unisce a mobilis per specificare quanto non era stato chiarito esplicitamente, e cioè che in passato, prima dell'intervento di Apollo, Delo era in totale balía dei flutti marini (si pensi solo alla rabies Noti di Hor. Carm. 1. 3. 14); traduce bene Heyworth: "for in past it was mobile as it bore the anger of the winds". Mobilis ante e la menzione della sconvolgente furia dei venti, riferiti al passato, si collegano a quanto Virgilio aveva detto di Delo in riferimento al presente, sostenendo che Apollo immotam... coli dedit et contemnere ventos (Verg. A. 3. 77).

vv. 31-36 :

Non ille attulerat crines in colla solutos    

aut testudineae carmen inerme lyrae,

sed quali aspexit Pelopeum Agamemnona vultu    

egessitque avidis Dorica castra rogis,

aut qualis flexos solvit Pythona per orbes                                             35    

serpentem, imbelles quem timuere lyrae.

La presentazione di Apollo guerriero, che interviene in favore di Ottaviano, non trascura -sia pure per contrasto- le caratteristiche dell'Apollo citaredo dalla lunga chioma fluente sulle spalle, che vengono a sommarsi a quelle dell'Apollo feroce e implacabile dei due distici successivi; l'Apollo citaredo, poi, comparirà nell'ultima parte dell'elegia, al termine delle ostilità. La duplice presenza del dio corrisponde a quella di Apollo nel suo tempio sul Palatino, descritto da Properzio nell'elegia 2. 31 in occasione dell'inaugurazione del portico: lì la decorazione delle porte rinviava alla funzione di Apollo vendicatore della hybris dei nemici, mentre le due statue -l'una di Scopa, nella cella del tempio, l'altra fra il portico e il tempio- raffiguravano Apollo citaredo, con ogni probabilità caratterizzato dalla lunga chioma, che è simbolo di giovinezza e di bellezza38. Il combattivo Apollo, invece, si presenta con la chioma raccolta (v. 31), proprio perché deve entrare in azione senza alcun impedimento.

Nel v. 33 non è sottinteso astitit del v. 29, come sostengono Rothstein e Butler-Barber, ma il ppf. attulerat del v. 31: di conseguenza ci si attende sed attulerat talem vultum, quali aspexit Pelopeum Agamemnona e poi, di conseguenza, nel v. 35 aut quali eqs.; i manoscritti, invece, non si sono resi conto dell'omissione di talem e, di conseguenza, hanno corretto nel v. 33 vultum in vultu per accordarlo con quali (oppure, se non si vuol pensare a un calcolato intervento, può essere semplicemente caduto il segno di abbreviazione). Successivamente, nel v. 35, hanno preferito riferire, alterando il testo, qualis ad Apollo, distruggendo così il necessario parallelismo (sed quali... aut quali) della similitudine dall'arcaica risonanza, che ben s'inquadra nel livello alto adottato da Properzio nel suo carme celebrativo: a Rossberg va il merito di avere ristabilito in entrambi i casi il testo esatto39.

Properzio allude ai vv. 43-52 del I canto dell'Iliade: lì Apollo, udita la preghiera di Crise, era sceso dalla cima dell'Olimpo «con l'ira nel cuore» (v. 44 χωόμενος κῆρ). Omero l'aveva raffigurato con l'arco infallibile e con la faretra colma di frecce, mentre Properzio -come si è visto- preferisce variare nei vv. 31-32 e proporre in negativo l'immagine di Apollo citaredo. Poi, mentre Omero raffigura il dio che prende a colpire con i suoi dardi prima i muli e i cani, poi gli uomini, e continua per nove giorni a devastare l'accampamento degli Achei, Properzio trasferisce l'ira di Apollo sullo sguardo torvo con cui il dio fissa Agamennone: forse il suo è un modo di rendere l'omerica descrizione del volto rabbuiato del dio, che "con l'ira nel cuore avanzava, simile alla notte" (v. 47). Subito dopo, nel v. 34, Properzio passa alla descrizione degli effetti della furia divina, riprendendo nell'immagine di Apollo che "con roghi insaziabili spopolò l'accampamento dei Greci" l'omerica rappresentazione del fuoco dei roghi, che per nove giorni senza sosta brucia i cadaveri (v. 52: αἰεὶ dὲ πυραὶ νεκύων καίοντο θαμειαί)40.

Come in Stat. Theb. 1. 37, che parla di egestas alternis mortibus urbes, il nesso egerere castra ha qui il senso di 'svuotare gli accampamenti'41, mentre con l'ablativo di mezzo avidis... rogis Properzio rende in modo espressivamente drammatico l'idea delle fiamme che 'divorano' i cadaveri causati dalla pestilenza che infierì nell'accampamento degli Achei42. Un'alternativa consiste nel considerare egerere quale sinonimo di efferre, nel suo senso tecnico di 'portare alla sepoltura'43, e avidis... rogis come un dativo di direzione: mentre i traduttori moderni sono prevalentemente schierati in favore della prima interpretazione, la seconda è sostenuta da Shackleton Bailey44; tuttavia non gioca a suo favore la difficoltà d'intendere egerere castra nel senso di egerere mortuos e castris, come vorrebbe Shackleton Bailey.

Quale secondo esempio dell'atteggiamento di Apollo vendicatore Properzio sceglie la sua uccisione del mostruoso serpente Pitone, guardiano dell'oracolo di Delfi: Apollo compì la sua impresa quando era ancora un imberbe giovanetto, scagliando sul mostro le sue infallibili frecce: fu così che riuscì a impadronirsi dell'oracolo45. La riesumazione del mito sia da parte di Properzio sia da parte di Ovidio (Met. 1. 438-444) non ha il valore di un semplice omaggio letterario nei confronti degli Alessandrini, ma si carica di un preciso significato ideologico: c'è da chiedersi, d'altronde, perché mai Properzio abbia scelto di porre accanto all'immagine di Apollo sterminatore nel campo degli Achei per punire la hybris del loro condottiero -con un chiaro monito, dunque, nei confronti dei nemici dei Romani e dei loro capi- proprio quella di Apollo che uccide il mostruoso serpente. Ha visto giusto Buchheit quando, a proposito del contesto ovidiano sopra citato, ha sostenuto che la vittoria di Apollo sul Pitone quale simbolo della forza del male sta a simboleggiare la vittoria di Ottaviano ad Azio46.

Anche nel caso della vittoriosa lotta col serpente è sulla forza dello sguardo di Apollo che si appunta l'attenzione di Properzio; nella sua descrizione la morte del mostro diviene (v. 35) il risultato dell'azione di Apollo saettatore, che lo "scioglie per le sue spire sinuose"47: ciò suscita l'impressione di un totale rilassamento nella morte, che progressivamente (per) si comunica alle spire del serpente delfico (nove per Call. Hymn. 4. 93, sette per Stat. Theb. 1. 563-564). Molto suggestiva è l'interpretazione suggerita da Postgate, che fa dipendere da solvit il solo Pythona e mette flexos per orbes in rapporto diretto con serpentem, da intendersi come participio presente: ne vien fuori, valorizzata dall'enjambement, l'immagine dell'imponente Pitone che striscia lungo le sue spire sinuose; c'è, però, la difficoltà d'intendere solvere nel senso di vita solvere, mentre per solvere con per e l'accusativo cfr. Lucr. 6. 797-798 membra per artus / solvunt.

Secondo un'interpretazione ampiamente diffusa, nel resto del v. 26 si direbbe che Pitone era il terrore delle Muse. A dire il vero non si capisce come mai le Muse, abitatrici dell'Elicona, abbiano potuto aver paura del guardiano dell'oracolo di Delfi e per ovviare a una simile incoerenza geografica si ritiene che Properzio possa aver tenuto presente una scena in cui le tradizionali accompagnatrici di Apollo sarebbero state messe in fuga da Pitone. Ma all'assenza di attestazioni di un tale episodio si aggiunge il fatto che i manoscritti non citano le Muse come soggetto di timuere, ma parlano di imbelles... lyrae: si è ritenuto di poter giustificare l'uso metaforico di lyrae nel senso di Musae col rinvio48 a Hor. Carm. 1. 6. 10: imbellisque lyrae Musa potens vetat, dove però non solo non è l'imbellis lyra a definire la Musa, ma il nome stesso e, per di più, il fatto che esista una Musa che odia il canto di guerra non esclude che esista la Musa dell'epos che, invece, tale canto predilige. In quanto, poi, a Stat. Theb. 7. 630-631: vidistis (sc. Pieriae) enim, dum Marte propinquo / horrent Tyrrhenos Heliconia plectra tumultus49, il ricorso alla metafora si giustifica nell'ambito di una contrapposizione, tutta giocata a livello metaforico, fra lire (plectra) eliconie e trombe (tumultus) di guerra d'origine etrusca.

All'inizio del XVIII sec. Willymott suggerì di correggere lyrae in deae, intendendo con deae le Muse50: chiara sarebbe l'origine dell'errore, o meglio della svista di un copista, provocata da lyrae in fine verso più sopra (v. 32). Se, però, deae dovesse indicare le Muse, si ricadrebbe nella stessa difficoltà in precedenza sottolineata a proposito dell'assenza di testimonianze su un drammatico incontro delle Muse col serpente. A una soluzione accettabile è giunto vicino Hutchinson, che però non ha percorso sino in fondo la via giusta: egli ha prospettato la possibilità che qui si alluda alle Ninfe, fondandosi su Call. Fr. 75. 56-57 Pf. e su Apoll.Rhod. 2. 711-712 da cui emerge la loro tradizionale pavidità, e ha concluso, però, che se si correggesse lyrae in deae il sostantivo richiamerebbe le Muse; per questo motivo Hutchinson ha preferito porre lyrae fra le croci. La soluzione più semplice e ovvia, considerata anche la presentazione del precedente esempio di Apollo saettatore, è che imbelles quem timuere deae non si riferisca a una vicenda a noi sconosciuta per le lacune della tradizione, ma sia in rapporto con l'episodio narrato, cioè con l'uccisione del serpente da parte di Apollo, e recuperi l'episodio noto in epoca alessandrina. Nei vv. 703-713 del II libro delle Argonautiche di Apollonio Rodio, Orfeo canta l'uccisione del mostruoso Pitone grazie ai dardi di Apollo, sotto il giogo del Parnaso, e aggiunge che, mentre il dio lottava col serpente, le ninfe Coricie lo incitavano gridando ἵη ἵε, da cui avrebbe tratto origine il ritornello in onore di Apollo. Se così stanno le cose, allora imbelles non vuole sottolineare in modo generico la pavidità delle Ninfe, ma piuttosto, sulla base dell'episodio narrato da Apollonio Rodio, la loro astensione dalla lotta e la loro funzione di interessate spettatrici.

vv. 45-46 :

Et nimium remis audent prope: turpe Latinis 45

principe te fluctus regia vela pati!

Nei vv. 37-44 il discorso di Apollo ad Ottaviano si è snodato attraverso un'impressionante serie di riconoscimenti e di elogi al futuro vincitore di Azio: egli è il salvatore del mondo, le sue origini sono legate ad Alba Longa (e, dunque, ad Enea tramite Iulo), già ad Azio ha diritto ad essere apostrofato come Augusto, discende da antenati troiani ma di loro è più grande, deve vincere sul mare perché già sua è la terra, è protetto dal favore di Apollo, ha il compito di allontanare i motivi di timore dalla patria che confida nella sua vendetta e a lui ha affidato i voti comuni, è certamente il defensor patriae perché se così non fosse vorrebbe dire che Romolo ha preso male gli auspici sul Palatino. Come si può constatare, Properzio recupera una fitta serie di motivi che sono alla base della concezione augustea del supremo reggitore dello stato. Nello stesso periodo non è diverso l'atteggiamento dell'Orazio del IV libro dei Carmina, la cui esaltazione del buon governo del principe culmina nella sua divinizzazione (4. 5. 17-36) e nella proclamazione di una vera e propria aetas di Augusto (4. 15. 4), che s'identifica con una nuova età dell'oro. Properzio, però, si spinge molto più in là, perché è addirittura una divinità a rivolgersi a Ottaviano-Augusto con l'atteggiamento tipico dell'orante e adottando lo stile della preghiera.

Nei vv. 45-46 la constatazione della tracotante audacia della flotta nemica si unisce alla deprecazione della sua presenza in acque romane. Al di là dei problemi testuali presentati dall'esametro, si nota nel discorso di Apollo       -dopo l'enfasi dell'esortazione ad Ottaviano- la ricerca di una maggiore essenzialità stilistica, che dipende anche dal contenuto del distico: si può convenire con Richardson che "the elliptical, almost telegraphic, style of this couplet conveys tension and urgency as the fleets manoeuvre for position".

Soggetto sottinteso di audent (v. 45), come più volte accade in Properzio, è un generico homines, che nel caso particolare s'identifica con i nemici guidati da Antonio e Cleopatra. Che un et possa aprire un periodo di transizione, come suggerisce Rothstein, è ben noto51: non è detto, però, che l'et tramandato dai manoscritti all'inizio del v. 45 debba avere un compito di transizione in un momento così intensamente drammatico, in cui non c'è semplicemente il passaggio da una fase ad un'altra di uno sviluppo narrativo. Qui ci si attende, piuttosto, che Apollo chiarisca ad Ottaviano perché la difesa della patria da parte sua sia a tal punto urgente; come alternativa, Apollo potrebbe esprimere disapprovazione o indignazione per l'eccessivo avvicinarsi dei nemici: in questo caso sono ah52 o heu53 ad avere le maggiori possibilità di successo, anche se non sono da escludere né aten dei recenziori; en è accettato da Goold e da Heyworth: ma in Properzio l'unica sua presenza sicura è nel nesso en agedum di 1. 1. 21, mentre in tutti gli altri casi elencati da Kershaw54 è frutto di congetture tutt'altro che certe. La frequenza nell'epos di heu nimium55 inviterebbe a preferire questa fra le due proposte di Kershaw: c'è da chiedersi, però, se l'interiezione lamentosa par excellence sia appropriata alla battagliera fierezza del dio. Sia pure nella consapevolezza di una perdurante incertezza, propongo di correggere et in nam: in tal modo la breve frase che la particella introduce chiarisce il motivo per cui l'audacia del nemico, che con la sua flotta si è pericolosamente avvicinato a quella romana, esiga l'intervento immediato di Ottaviano; c'è da tener presente che un nam incipitario può essere facilmente caduto di fronte a nimium, inducendo poi a completare in qualche modo il verso.

Non sembra impossibile, invece, accettare il tràdito nimium remis audent prope, che indica il pericoloso avvicinarsi della flotta nemica a quella romana (non a Roma, come pensano Camps e Richardson). Prope è stato corretto nell'indignato pro dai recenziori e in quam, da unire a turpe, da Hall: ma il nesso nimium prope può esser difeso se non altro da Pl. Curc. 207 nimium consultas diu56, mentre per l'uso assoluto di audere (qui occorre sottintendere adire o navigare o sim.) cfr. ThlL II 1255, 64 sgg. e per la sua unione con avverbi di luogo57 Stat. Theb. 11. 258 huc audeat, Tac. Hist. 2. 25: unde... ausi, 5. 11: longius ausuri58.

In sé e per sé non è improbabile la dipendenza del dativo plurale Latinis da turpe (sc. est): tuttavia a far propendere per la sua correzione nell'accusativo Latinos (sc. fluctus) ad opera di Markland sono da un lato la facilità con cui un originario accusativo plurale in -os può essere divenuto un dativo plurale in -is a causa del precedente remis, dall'altro la perfetta corrispondenza nella successione aggettivo-sostantivo fra Latinos... fluctus -al cui centro si colloca il maestoso ablativo assoluto con valore temporale principe te59- e regia vela; è proprio una tale simmetria, enfatizzata dall'enjambement e dall'iperbato, che rende ancor più evidente l'assurdità di un mare che, pur appartenendo a Roma e ai Romani, è solcato da regia vela. L'avversione dei Romani per tutto quello che ricorda i re e la monarchia ha modo di manifestarsi  in tutta la sua pienezza nel pentametro grazie all'opposizione fra princeps e regius: mentre il secondo epiteto rinvia a un potere assoluto e incontrastato, il primo fa di chi lo detiene un primus inter pares60. In definitiva l'esortazione di Apollo diviene un monito ad Ottaviano per un suo pronto intervento, perché è vergognoso e infamante (turpe) che un princeps -investito dai Romani di un potere costituzionale e legale- permetta che nel mare di Roma si aggiri l'esponente di un potere dispotico, qual è il rex. Pati, allitterante a cornice con principe, fa capire come si tratti di una vera e propria sofferenza, che i Latini fluctus sono costretti a sopportare contro la loro volontà: lo stesso motivo verrà ribadito nel v. 48 da invito... mari.

vv. 47-50:

Nec te, quod classis centenis remiget alis,

terreat (invito labitur illa mari),

quodque vehunt prorae Centaurica saxa minantes    

(tigna cava et pictos experiere metus).                                              50

Casi d'incongruenza nell'uso dell'indicativo e del congiuntivo in proposizioni dipendenti non sono rari in Properzio: si possono citare 2. 16. 29-30: aspice quid... invenit... / arserit et eqs., 2. 30. 29-30: ut... est combustus, ut est deperditus... / denique ut... volarit, 2. 34. 33-36: licet... referas... / fluxerit ut... / atque etiam ut... / errat et decipit, 3. 5. 26-28: quis deus... temperet... / qua venit... qua deficit, unde... /... redit, ibid. 36-37: cur coit... / curve non exeat. Però in tali casi si tratta sempre di proposizioni interrogative indirette e per di più nel nostro c'è il sospetto che nel v. 47 il presente congiuntivo remiget dei codici poziori -dai recenziori corretto in remigat (a ragione, a causa del successivo quodque vehunt)61- sia stato causato da influsso di terreat del pentametro.

Quando Apollo descrive la flotta nemica che naviga con centinaia di remi, egli vuole iperbolicamente definire la mole delle navi, su cui a lungo si sofferma Ottaviano nel discorso ai suoi, riportato da Cassio Dione62, per mostrare come essa sia stato d'impaccio nelle manovre e l'abbia ridotta a facile preda della sua flotta veloce. Il distributivo (centenis) in luogo del cardinale (centum) serve a sottolineare come le gigantesche e poderose navi nemiche, nonostante l'iperbolico numero di remi (cento per ogni nave) siano impacciate nelle manovre proprio dalla loro mole eccessiva. Invito... mari del v. 48 viene spesso interpretato come un preciso rinvio alla violenta tempesta nel corso dello scontro navale, che ostacolò la flotta di Antonio63: tuttavia nel racconto di Properzio non c'è posto per i dettagli atmosferici e la presenza di aequor nel v. 19 fa pensare piuttosto a una superficie piatta e non agitata; d'altra parte labitur, che sin da Enn. Ann. 376 Sk. indica il movimento di una nave sul mare, non allude affatto a un faticoso procedere, ma ad un facile scivolare in un mare privo di ostacoli64. Apollo, dunque, invita Ottaviano a non restare atterrito (nec te... terreat) di fronte alla mole delle navi di Antonio, sospinte da innumerevoli remi, perché ostile ad esse è il mare stesso, che controvoglia le accoglie65.

Ottaviano non deve neppure spaventarsi per le minacciose raffigurazioni, sulla prora delle navi di Antonio, di Centauri con massi enormi (v. 49). I manoscritti tramandano quodque (dai recenziori corretto in quotque) vehunt prorae Centauria (N¹Y : Centaurica N² e gli altri) saxa minantes. Il tràdito quodque può essere difeso, senza alcuna necessità di accordargli il senso di «in quanto al fatto che» e di separarlo dal distico precedente: quodque, infatti, allo stesso modo del quod del v. 47 dipende da nec terreat e introduce quello che per Apollo potrebbe rappresentare un secondo motivo di terrore (dopo l'imponenza delle navi di Antonio, le raffigurazioni minacciose di Centauri che sollevano macigni). Non c'è dubbio che dia un buon senso anche quotque, preferito da Goold ("and all the Centaurs threatening to throw rocks borne by their prows") e da Hutchinson: ma non si vede la necessità di correggere il tràdito quodque, distruggendo così il perfetto parallelismo strutturale dei due distici (47-48. 49-50), in cui l'elemento minaccia è seguito, in entrambi i casi, da un inciso esplicativo. Hutchinson ritiene problematico desumere l'oggetto di experiere se si mantiene quodque: ma nulla vieta di sottintendere eos (sc. Centauros) esse (experiere <eos esse> tigna cava et pictos metus).

Molto più audace e disperata, di contro, appare la difesa di Centaurica saxa minantes, che si è tentato di spiegare considerando minantes o come un accusativo plurale dipendente da vehunt, che dovrebbe indicare generiche "figure che minacciano (di lanciare)" i Centaurica saxa (cioè rocce simili a quelle che lanciano i Centauri; così, seguito da Butler-Barber, Postgate che traduce: "from threatening with Centaur's rocks"), oppure come un nominativo plurale, epiteto di prorae (Viarre: "ce que les navires menaçantes portent de rochers brandis par des Centaures"). Ma è improbabile che Centaurica saxa minantes possa significare Centauros minantes cum saxis e la semplice correzione di Guyet (Centauros saxa minantes) risolve ogni dubbio. Per la iunctura  Centauros ...minantes Properzio ha subito la suggestione del contesto in cui Virgilio descrive le navi degli alleati etruschi di Enea: cfr. in particolare A. 10.194-197: filius, aequalis comitatus classe catervas, / ingentem remis Centaurum promovet: ille / instat aquae saxumque undis immane minatur / arduus et lunga sulcat maria alta carina, dove ille (sc. Centaurus) saxum minatur anticipa il testo che si ottiene con la correzione di Guyet.

Raffigurazioni lignee o dipinte di esseri mostruosi o di animali minacciosi sulla prua delle navi dovevano essere abituali: lo fanno capire i nomi stessi delle navi che gareggiano nel V dell'Eneide (vv. 116-123: Pristis; Chimaera; Scylla), in particolare quella di Sergesto, chiamata Centaurus; Κενταύρα, poi, era nome frequente di navi greche66. A stare alla testimonianza di Gramm. suppl. 236, 18 Centaurus... depingebatur in navi, ut demonstraretur velocitas navis: qui, però, si tratta di Centauri che sollevano macigni, pronti a lanciarli, e lo scopo è chiaramente quello della minaccia. Nell'arte figurativa è convenzionale la rappresentazione di Centauri che sollevano massi destinati ad essere scagliati contro i loro avversari67.

La spiegazione che Apollo fornisce nel pentametro per tranquillizzare Ottaviano ci consente di acquisire altre informazioni sul modo di decorare la prua delle navi: il fatto che egli definisca i Centauri, minacciosi con i loro macigni, come tigna cava e pictos metus (con un'elegante disposizione chiastica dei termini), da un lato conferma quanto è abbondantemente attestato, e cioè che tali raffigurazioni erano vivacemente colorate68, dall'altro fa capire che non si trattava di semplici pitture, ma di figure lignee a rilievo riccamente colorate. Il plurale tigna indica genericamente il legname da costruzione69, ma l'epiteto che lo qualifica fa capire che quei Centauri lignei, minacciosamente prominenti dalla prua delle navi di Antonio, in realtà dietro il legno dipinto nascondono il vuoto delle loro concavità, che nel contatto con le navi di Ottaviano non avrebbe opposto alcuna resistenza. Paradossalmente, nella descrizione che dello scontro fa Cassio Dione (50. 33. 7), gli antoniani stessi, ormai sopraffatti, saranno costretti a difendersi lanciando pietre sui nemici. È significativo che qui Apollo adoperi il futuro (experiere) che, col suo rinvio a un'imminente esperienza diretta, ha il senso di una profezia destinata ad avverarsi ed è per Ottaviano garanzia di una vittoria sicura70.

vv. 69-74:    

Bella satis cecini: citharam iam poscit Apollo

victor et ad placidos exuit arma choros.                            70

Candida nunc molli subeant convivia luco,

blanditiaeque fluant per mea colla rosae,

vinaque fundantur prelis elisa Falernis,

perluat et nostras spica Cilissa comas.                        

La proclamazione di aver cantato a sufficienza argomenti bellici potrà pure apparire "incongruous, after so undetailed a narrative" (così Hutchinson): ma ugualmente povera di particolari era stata la descrizione virgiliana nell'VIII libro dell'Eneide; e, soprattutto, la novità del carme properziano consiste nell'aver inserito nella poesia elegiaca augustea, convenzionalmente ostile al canto di guerre e battaglie, la narrazione dello svolgimento di uno scontro navale. In quanto al mutamento dell'Apollo guerriero nel pacifico Apollo citaredo, esso ha un evidente significato ideologico: in un mondo dominato dalle guerre, qual è quello romano fino alla battaglia di Azio, il dio decide di assumere l'aspetto guerriero, e il suo è un intervento decisivo; d'altra parte, nella concezione dei poeti augustei, alla guerra si può mettere fine solo sgominando le forze del male che contro Roma si sono coalizzate e hanno portato alla contrapposizione dell'Oriente all'Occidente. Dopo la vittoria di Ottaviano ad Azio, nel mondo regna la pace e a tale nuova situazione fa riscontro l'atteggiamento di Apollo che, victor allo stesso modo del principe, si spoglia delle armi ad placidos choros: fuor di metafora, ciò costituisce un'esaltazione della pax Augusta e riflette lo stato d'animo del poeta 15 anni dopo Azio.

Dopo la vittoria, lo spazio della guerra viene sostituito da quello del convito: identica era stata, non a 15 anni di distanza ma subito dopo Azio, la scelta di Orazio e non può essere un caso che il triplice nunc con cui si apre l'ode 1. 37 trovi riscontro qui nel nunc del v. 71, chiaro segnale di una voluta allusione al contesto oraziano71. Al tempo stesso nunc, preannunciato da iam del v. 69, segna qui il ritorno al canto elegiaco, una volta esaurita la parte "epica" del carme. Il segnale lessicale è fornito, invece, da molli, che a nunc è contiguo: di fronte a molli... luco i commentatori si limitano a segnalare che mollis è sinonimo di amoenus o a spiegare che i conviti avevano luogo spesso in un prato erboso; Richardson s'interroga addirittura sull'esistenza di un mollis lucus tutt'intorno al tempio di Apollo Palatino. Solo Hutchinson ha chiarito che sarà pure ameno il boschetto in cui si svolge il convito, ma al poeta interessa mettere in risalto mollis (μαλακός), che quale termine di poetica sta ad indicare il ritorno alla scelta della Musa tenue: lo conferma l'allusione al blandum carmen nel pentametro, quale che sia il testo accettato. Mollia sono anche i prata di 3. 3. 18, dove l'uso dell'epiteto quale termine di poetica è evidente. In contesti del genere mollis può designare sia la poesia tenue sia il pentametro, che caratterizza il distico elegiaco. Qui il poeta ha dimostrato che si possono celebrare le belliche imprese del principe anche nel verso mollis degli elegiaci e immagina, ora, che altri poeti lo seguano e cantino in distici elegiaci le imprese del principe.

Nel v. 72 i manoscritti tramandano blanditiaeque... rosae, che suscita non poche perplessità: lo si intende di solito nel senso di 'le carezze delle rose' o 'lo charme delle rose', considerando dunque rosae come un genitivo singolare collettivo72 e attribuendo a blanditiae un senso che per piante, fiori e sim. non sembra mai attestato. C'è da chiedersi, per di più, se alle 'carezze delle rose' si addica il verbo fluere: a quel che sembra, non esistono esempi validi a giustificare una simile possibilità, né c'è da pensare, con Rothstein e ora anche con Riesenweber che blanditiae... rosae possa equivalere a rosae blandae73. Di conseguenza bisogna convenire che aveva ragione Waardenburg, quando osservava che blanditiae, quae propriae sunt hominum et in verbis maxime consistunt, ad flores insolenter translatae, multo etiam insolentius dicuntur fluere per colla74. Insomma, come osserva Lachmann ad loc., 'blanditias rosae' quis dixit aut quis intelligit? Per parte sua Lachmann, seguito ora da Heyworth, proponeva di correggere il testo tràdito in blandae utrimque, col rinvio a Ov. Met. 9. 90, fusis utrimque capillis: ma che i capelli siano fusi utrimque è comprensibile, che possa esserlo una corona di rose è piuttosto bizzarro e, se così fosse, in un banchetto susciterebbe il riso dei convitati75. Qui ci si attende piuttosto l'immagine di profumati petali di rosa che cadono lungo il collo dei banchettanti. Si può ottenere questa immagine se si corregge blanditiaeque in blanditaeque, anche se -è bene ammetterlo- quella che Lachmann definiva una perquam infelix Scaligeri emendatio (ma essa compare già in alcuni recenziori) non scioglie tutti i dubbi: è necessario, infatti, che il participio passato blanditae abbia il valore di un aggettivo ('piacevoli') equivalente a blandae, mentre il considerarlo equivalente al participio presente blandientes ('allettanti', 'seducenti') aggiungerebbe un'ulteriore difficoltà. Di blanditus nel senso di blandus non si sono trovati esempi anteriori a Plinio (Nat. 9. 35: antemeridiano tempore blandito, 10. 67: blandita peregrinatione; incerto è 25. 17: radicem silvestris rosae... blanditam sibi aspectu, dove Hutchinson vorrebbe correggere blanditam in blanditae). Tra gli esempi del ThlL II 2032, 64 sgg. di blandiri, l'unico che si riferisca a un elemento del mondo vegetale è Ov. Met. 10. 555: blanditur populus umbra. Anche se per blanditae i dubbi restano, ineccepibile, di contro, appare il tràdito per mea colla, se si tiene presente che tipicamente poetico è l'uso di per colla76.

Ai vv. 73-74 è affidato il compito di caratterizzare il convito nel segno dell'abbondanza e del lusso: italico è il vino, ma si tratta del nobile Falerno. È vero che in materia di vini i poeti elegiaci sono molto più selettivi di Orazio e finiscono per citare invariabilmente il Falerno77; in ogni caso non c'è dubbio che dei vini italici il Falerno sia il più pregiato78. Anche se c'è una differenza tra fundere ed effundere79 e, quindi, al verbo semplice non è necessariamente associata l'idea dello spreco, è il plurale vina80, unito allo iussivo fundantur, a far capire che quel vino pregiato dovrà essere versato in abbondanza. Il pentametro introduce un tocco di esotica raffinatezza grazie allo spiconardo della Cilicia (raffinatezza lessicale è anche nell'epiteto, calco del greco Κίλισσα qui per la prima volta attestato), che dovrà profumare le chiome dei banchettanti e unirsi alla pioggia di petali di rose del v. 72. Di uva prelo domita Caleno aveva parlato Orazio (Carm. 1. 20. 9)81; Properzio preferisce la più convenzionale immagine della spremitura dell'uva nel torchio (prelis elisa) e del vino che ne è il risultato82. La spica Cilissa è il profumato e ricercato zafferano della Cilicia, che ai tempi di Plinio continuava a mantenere inalterata la sua fama83.

Perque lavet tramandano i codici nel v. 74, per indicare le chiome inzuppate del liquido che si otteneva dalla lavorazione della spica Cilissa, e tale lezione non è stata messa in dubbio sino ad un'epoca molto recente, fatta eccezione per il tentativo di alcuni recenziori che correggono perque in terque, introducendo però una consuetudine (il bagnarsi tre volte i capelli col liquido della spica Cilissa) che non è altrove attestata. Una prima difficoltà è posta dalla tmesi; in sé e per sé si tratta, in realtà, di una difficoltà non insormontabile, perché è vero che in Properzio non ne sono attestati altri casi, ma il fatto che l'ammettano Lucrezio, Virgilio, Ovidio garantisce che anch'egli avrebbe potuto farvi ricorso84. Si è obiettato85 che la tmesi di per con aggettivi e verbi s'incontra solo nei poeti comici e in Cicerone (epistole e "dialoghi"): neppure questa obiezione è decisiva, proprio perché Properzio -come sopra si è detto- ha dato il segnale del passaggio, anche stilistico, dalla solennità alla tenuitas. Sono, piuttosto, ragioni lessicali che fanno escludere la genuinità del congiuntivo perlavet: del verbo perlavare, infatti, esistono solo sporadiche attestazioni, tutte molto tarde e in contesti testualmente incerti86, tanto che del composto di lavo non c'è traccia nell'OLD. Palmare è la correzione in perluat et di Morgan, col rinvio a Petron. 128. 6 v. 4, sudor quoque perluit ora87: la presenza del preverbio per- serve a ribadire l'idea dell'abbondanza e dell'opulenza, già presente in fluant e fundantur. Che l'autore della brillante congettura sia un fisico nucleare dell'Università del Deleware è stupefacente, e il suo contributo alla soluzione di cruces merita ammirazione: ma anche le opinioni altrui meritano sempre rispetto. Se, dunque, filologia è precisione e rispetto delle opinioni altrui, allora va detto che il testo dei manoscritti non era stato accettato solo da sprovveduti editori, ma anche da Friedrich Leo, che uno sprovveduto non era, in uno dei pochissimi casi di accordo con Rothstein88. Ma, a parte questo non insignificante dettaglio, Morgan ha travisato il pensiero di Questa, che pur prendendo atto dell'accordo degli editori properziani del tempo suo sulla tmesi, si mostrava tutt'altro che favorevole all'adozione del verbo, visto che in Pl. Most. 112 rifiutava <per>lavit di Ritschl e in quanto a Pelagon. 359 Ihm sosteneva che "l'editore legge a ragione perluatur contro perlavetur"; e continuava affermando che in Tert. De paen. 4. 3 "si dovrà leggere senza alcuna incertezza prolevabit (...), lezione che si è corrotta in perlavabit di L". Riguardo, poi, al perlaves di Diosc. 2. 71b, per Questa si tratta del futuro di perlavere e non del congiuntivo presente di perlavare.; in quanto, infine, al comportamento dei lessici nel caso del passo di Tertulliano, Questa critica sia il Forcellini, sia il Lewis-Short sia addirittura il Blaise perché registrano il passo tanto sotto perlavo quanto sotto prolevo89. Nel verso di Properzio è facile spiegare l'origine dell'errore:90 nella originaria successione perluatet è stato omesso at (oppure et) per aplografia e successivamente si è cercato di recuperare in qualche modo la sillaba mancante.

vv. 75-76:

Ingenium positis irritet Musa poetis:                                      75    

Bacche, soles Phoebo fertilis esse tuo.

I vv. 75-76 non costituiscono un distico di transizione, in cui solo formalmente il congiuntivo con valore iussivo è sullo stesso piano dei precedenti: ora si capisce che Properzio immagina un simposio di poeti e che l'invito a mescere vino nel v. 73 serviva a preparare il lettore alla presenza determinante di Bacco accanto ad Apollo, quale divinità ispiratrice di poesia. La constatazione che Bacco suole essere fecondo per Apollo (v. 76) fa capire che i poeti riuniti a banchetto non sono aquae potores alla maniera callimachea, ma vini potores; encomiastici e bellici, d'altronde, sono tutti i loro argomenti di canto, che esigono un'ispirazione robusta, quale soltanto il vino può dare. Di ciò i poeti latini erano ben consapevoli, tanto che Orazio poteva affermare che Ennius ipse pater numquam nisi potus ad arma / prosiluit dicenda (Ep. 1. 19. 7-8). Di conseguenza nell'atteggiamento di Properzio non va ravvisata alcuna presa di posizione polemica nei confronti di Callimaco, che sarebbe del tutto immotivata: non a caso all'inizio il poeta-vates aveva preannunciato una nobile gara fra serta Romana e Philitei corymbi (v. 3), mentre all'urna di Callimaco spettava il compito di ministrare aquas (v. 4), e non a caso egli aveva previsto di percorrere un novum iter (v. 10).

Nella chiusa, in cui i poeti vini potores assumono un ruolo protagonistico, Properzio tira le fila del suo discorso e fa capire che la poesia celebrativa, che canta le gesta dei grandi personaggi, ha bisogno di un'ispirazione diversa e si abbevera a una fonte diversa da quella della poesia tenue: è questo, d'altra parte, un modo di valorizzare il suo stesso esperimento poetico. In tale prospettiva non esistono dubbi sul fatto che al tràdito positis (v. 75) debba essere preferito potis di alcuni recenziori: è indubbio che positus possa significare 'sdraiato'91; specificare, tuttavia, che i poeti a banchetto sono sdraiati avrebbe costituito una banale ovvietà per i contemporanei di Properzio; dire, invece, che essi hanno bevuto, da un lato richiama il v. 73 e fa capire che le bevute sono state abbondanti, dall'altro funge da collegamento col motivo dell'ispirazione dionisiaca della poesia. Il testo così corretto offre, per di più, un apprezzabile gioco di parole fra potis e poetis.

vv. 77-84:

Ille paludosos memoret servire Sygambros,    

Cepheam hic Meroen fuscaque regna canat:

hic referat sero confessum foedere Parthum:    

'Reddat signa Remi, mox dabit ipse sua:                           80

sive aliquid pharetris Augustus parcet Eois,

differat in pueros ista tropaea suos.

Gaude, Crasse, nigras si quid sapis inter harenas:    

ire per Euphraten ad tua busta licet.'

L'ambiente dei poeti a banchetto, che cantano belliche imprese, ricorda quello degli arcaici carmina convivalia, in cui venivano rievocate le gesta gloriose degli eroi, leggendari o reali, romani o stranieri. Qui, però, il canto dei poeti è destinato a celebrare Augusto e le sue imprese più recenti, e a ciascuno spetta il compito di cantarne una. Non stupisce che il poeta assegni ad altri l'elogio della gloria militare del principe (ille... hic...hic), perché ad Augusto egli ha già dedicato il canto dello scontro navale ad Azio. Non è escluso, però, che anch'egli si unisca agli elogia degli altri poeti, perché solo in questa atmosfera celebrativa può inserirsi il suo ducere noctem carmine della chiusa dell'elegia (v. 85).

Le imprese destinate a costituire oggetto di canto mostrano come l'imperium di Roma si sia ampliato ormai in ogni direzione, a nord con i Sigambri, a sud con gli Etiopi, a est con i Parti. Chiara è l'idea di un imperium universale, e se non si accenna all'ovest, è solo perché l'Oceano misterioso rappresenta un limite naturale: però ci si cautela esortando il principe a lasciare qualche gloriosa possibilità di conquista ai suoi pueri e, in compenso, l'enfatizzazione encomiastica trasforma in grandi successi militari anche quelli che in realtà non lo sono stati. Non solo l'enniano e virgiliano memorare (v. 77)92, ma anche canere (v. 78)93 e referre (v. 79)94 fanno capire che si tratterà di canti dallo stile elevato, com'è ovvio trattandosi di epiche imprese.

Per quanto riguarda i Parti, quello ottenuto nel 20 a.C. non fu un successo militare, ma piuttosto il risultato di una trattativa diplomatica: fu allora, infatti, che Fraate IV, re dei Parti, per evitare un attacco da parte dei Romani, pensò bene di restituire le insegne sottratte a Crasso al tempo della disastrosa disfatta di Carre. L'unica concessione di Fraate IV ad Augusto fu quella di recarsi a Roma per rendergli omaggio con la genuflessione orientale (la προσκύνησις); ad essa allude Hor. Ep. 1. 12. 27-28: ius imperiumque Phraates / Caesaris accepit genibus minor, che vede nel gesto l'accettazione delle leggi e dell'imperium di Augusto. Fu Augusto stesso a dare un'enfasi esagerata all'accaduto, perché -come commenta Cassio Dione- si comportò come se avesse vinto in guerra i Parti e si vantò di aver recuperato senza colpo ferire quello che gli altri avevano perso in battaglia. Per di più decretò che adeguati sacrifici celebrassero il successo e che le insegne fossero dedicate nel tempio di Mars Vltor sul Campidoglio (54. 8. 2-3)95. Agli onori tributati ad Augusto in quella occasione si associarono i poeti con i loro elogi, da Virgilio (A. 7. 606) ad Orazio (Carm. 4. 15. 6-8; Ep. 1. 18. 56-57), da Properzio ad Ovidio (Fast. 5. 579-580; Trist. 2. 227-8).

Sero confessum foedere tramandano i codici nel v. 79: in genere i commentatori e gli interpreti da un lato riconoscono che confessum è usato in senso assoluto, dall'altro, però, lo intendono come se da confessum dipenda un accusativo (culpam, crimen, soprattutto cladem): cfr. e.g. la traduzione della Viarre ("le Parthe confessa sa faute en un traité tardif") o il commento di Hutchinson ("confiteor can probably also be used absolutely of admitting defeat"): ma nei passi dell'OLD s.v. [1c] invocati per confiteri nel senso di 'confessare una colpa', il contesto fa sempre capire di quale colpa si tratti: e poi, quale colpa dovrebbero confessare i Parti? Di avere sgominato i Romani a Carre e di essersi impadroniti delle loro insegne? È chiaro che qui ci si attende solo la confessione - senz'altro esagerata per compiacere il principe - di una disfatta. Così intende l'OLD s.v. [1d] ('to admit defeat'), che però oltre che al nostro caso può rinviare solo a Ov. Met. 5. 214-6: supplex / confessasque manus obliquaque bracchia tendens, / 'vincis', ait, 'Perseu'. Ma ha ragione Heyworth quando sostiene che sia nel contesto ovidiano sia in Plin. Pan. 16. 3: tam confessa hostium obsequia ut vincendus nemo fuerit è il contesto -grazie a vincis e al tendere le braccia in Ovidio, a vincendus in Plinio- ad aggiungere il motivo della sconfitta a quello della confessione (o dell'ammissione)96. Nulla di tutto ciò avviene in Properzio, dove per di più la presenza di un serum foedus accresce le difficoltà. Alle stesse conclusioni si può giungere per quanto riguarda i rinvii all'uso del semplice fateri: cfr. e.g. Enn. Ann. 513 Sk.: qui vincit non est victor nisi victus fatetur, Liv. 4. 10. 3: fatentes victos se esse et imperio parere, citati dal ThlL IV 226, 55 sgg. per l'uso assoluto del verbo, dove l'idea della sconfitta si desume facilmente da victus e victos se esse. Non convince, però, la correzione in sero confectum foedere del Livineius (accettata da Heinsius, poi da Schippers97 e ora da Heyworth): secondo Heyworth confectum dovrebbe avere il senso di 'pacified by a late treaty'98; ma confectum tutt'al più può significare 'vinto', 'prostrato'99: un senso, questo, che risulta improprio ed esagerato in rapporto con un foedus. Di contro troppo blando appare il sero confisum foedere che Giardina propone nella sua edizione del 2010, perché non accorda alcun ruolo ad Augusto e ad un suo risolutivo intervento. Migliore appare, allora, constrictum di Hardie, che si colloca a metà strada fra il troppo violento confectum e il troppo blando confisum: da un lato, infatti, sottintende una minacciosa e decisiva pressione da parte di Augusto, dall'altro richiama l'immagine del constringere vinculis e sim., per cui cfr. Cic. De orat. 1. 226 e OLD s.v. [1b].

Dal v. 80 al v. 84 Properzio inserisce in forma diretta i versi del poeta che nel simposio canta la resa dei Parti di fronte ad Augusto, individuando così il vero problema per la politica espansionistica di Roma. Il congiuntivo reddat del v. 80, apparentemente ineccepibile, viene inteso in genere con valore iussivo (e.g. Goold: "he must return"; Viarre: "qu'il rende"; Giardina: "restituiscano per ora"): ma ha senso l'esortare a compiere un gesto che risale almeno a cinque anni prima? Per questo motivo alcuni interpreti si cautelano attribuendo al congiuntivo una sfumatura concessiva ('restituisca pure le insegne'), che però lascia praticamente inalterata la difficoltà cronologica. D'altronde già il nunc del v. 71 ha ricondotto il lettore a una realtà che è quella dei giorni suoi e la menzione dei Sigambri ha appena confermato un tale ritorno al presente. Avevano visto bene, dunque, quei recenziori che avevano corretto il tràdito reddat in reddit: il presente indicativo può riferirsi allo stato attuale della questione partica, ma potrebbe anche avere il valore di un presente storico e anticipare il perfetto restituit dell'oraziano tua, Caesar, aetas / ...signa nostro restituit Iovi / derepta Parthorum superbis / postibus (Carm. 4. 15. 4-8). D'altra parte l'origine dell'errore (o del voluto intervento) è facile da spiegare: un originario reddit, collocato fra canat... referat, prima, e differat, poi, aveva la sorte segnata.  

L'affermazione dell'immaginario poeta -e dunque di Properzio- ha il sapore di una profezia e il valore di un'esortazione a risolvere in modo definitivo il problema partico. Non è detto che Augusto si sia trovato d'accordo con questa prospettiva e, anzi, c'è da dubitarne fortemente: ma l'atteggiamento di Properzio conferma la tesi secondo cui i poeti augustei, presi da un entusiasmo patriottico, si sono posti in prima linea nell'incitare il principe a compiere una politica espansionistica, che probabilmente non rientrava nei suoi piani.

Siue aliquis, che nel v. 81 i codici più autorevoli tramandano, non dà senso ed è un chiaro errore banale causato dalla contiguità con pharetris. La semplicissima correzione dei recenziori (sive aliquid) è stata accettata sin dal Beroaldo, ma alla fine del XIX sec. ha trovato scettici sia Housman, che ha congetturato sive aequus, sia Baehrens, che ha preferito correggere in sive almus: la proposta che Housman aveva dubbiosamente avanzato è stata ripresa da Heyworth100, che l'ha corroborata col rinvio a 3. 19. 28: victor erat quamvis, aequus in hoste fuit, dove l'epiteto si riferisce a Minosse, e a Hor. Carm. 1. 12. 57: te minor laetum reget aequus orbem, dov'è epiteto di Augusto. La scelta della lezione giusta coinvolge anche il successivo differat (v. 82), che il Francius (Peter de Franz, vissuto dal 1645 al 1704) propose di modificare nel futuro differet101. Tanto sive aliquid dei recenziori quanto differat dei poziori sembrano preferibili alle altre soluzioni: come ha notato acutamente Günther, il discorso del poeta non solo riecheggia in più breve spazio quello di Apollo ad Ottaviano, ma ha una funzione analoga all'intervento del dio che, dopo aver illustrato la situazione, aveva esortato il condottiero ad agire prontamente in difesa della patria, prevedendo come certa la sua vittoria102. Qui il poeta da un lato profetizza una imminente resa dei Parti (mox dabit) e la soluzione del problema orientale, dall'altro esorta (differat) il principe a lasciare un po' di spazio (aliquid) a future imprese dei giovani rampolli della famiglia imperiale. In tal modo non solo si finisce per auspicare con il simbolico "passaggio del testimone" una continuità dinastica, ma al tempo stesso si mette in chiaro -grazie al limitativo sive aliquid... parcet- che l'imperium di Augusto è ormai universale e che di terre da conquistare ne restano ben poche. I pueri per cui si auspica una futura gloria militare sono Gaio e Lucio Cesare, figli di Agrippa e di Giulia, che Augusto aveva adottato l'anno prima, nel 17 a.C.: a loro pensava il principe per la successione103, ma il primo morirà nel 4 d.C., il secondo nel 2 d.C.; poiché Gaio Cesare era nato nel 20 a.C. e Lucio Cesare nel 17 a.C., all'epoca di redazione dell'elegia quello di Properzio era un auspicio di lunga durata: forse era questo un modo per augurare una lunga durata all'imperium di Augusto e per prevedere un duraturo periodo di pace, ora che i principali nemici erano stati domati.            

2.

In appendice ai casi in cui non ritengo più di poter mantenere le scelte fatte quasi trent'anni fa, mi soffermo su tre passi in cui mi sembra importante riaffermare la validità del testo allora accettato e qui indicato dal tondo sottolineato. vv. 19-24: 

Huc mundi coiere manus: stetit aequore moles

pinea, nec remis aequa favebat avis.                                   20

Altera classis erat Teucro damnata Quirino    

pilaque femineae turpiter apta manu.

Hinc Augusta ratis plenis Iovis omine velis,    

signaque iam patriae vincere docta suae.

I vv. 19-20 muovono dalla proclamazione del carattere ecumenico del conflitto; è questo il modo in cui i poeti augustei si servono della vittoria aziaca per proclamare il carattere universale dell'impero di Augusto: lo fa Virgilio nella descrizione della battaglia sullo scudo di Enea, presentandola come uno scontro fra Occidente augusteo e Oriente sotto il dominio di Antonio (A. 8. 685-688), e lo fa qui Properzio quando afferma che huc mundi coiere manus. Il suo atteggiamento è ora ben diverso da quello assunto qualche anno prima nella trattazione del tema aziaco: in 3. 11, infatti, egli si era limitato a contrapporre Roma e l'Egitto e si era ben guardato dal fornire una caratterizzazione dello scontro navale come guerra fra le armate del mondo intero, come fa qui servendosi del nesso mundi manus, che una maestosa allitterazione lega a moles.

Compito di Properzio è quello di caratterizzare in pochi tratti -facendo le veci dello storico- l'imponenza delle flotte che si fronteggiano; il verbo stare dà l'idea di una maestosa immobilità e registra una fase di attesa: le flotte hanno occupato la loro posizione e ora, immobili, si studiano prima che si scateni la battaglia navale. Se lo scontro è stato presentato come un "conflitto mondiale", è ovvio che le forze in gioco debbano essere imponenti: a questo serve la caratterizzazione cumulativa di entrambe le flotte -e non solo di quella di Antonio, come in passato qualcuno ha creduto- con l'immagine di una moles. Quanti hanno sostenuto che qui si parla solo della flotta di Antonio sono stati fuorviati dalle testimonianze di Cassio Dione (50. 23) e di Plutarco (Ant. 65. 4-66. 2) sulla difficoltà di manovra delle troppo ingombranti navi di Antonio, a confronto con l'agilità delle liburne di Ottaviano104. Moles dà l'idea di una massa gigantesca,105 che di solito è di pietra, sia che si tratti di una diga sia che si parli delle piramidi: l'originalità properziana risiede nell'averla inserita nel mare, e dunque in un elemento in cui non ci attenderemmo la sua presenza. Che Properzio voglia sfruttare l'elemento sorpresa è chiaro sia per la contiguità di aequore e moles sia per la collocazione in enjambement dell'epiteto: solo dopo l'inevitabile pausa di senso il lettore viene a sapere che quella moles è fatta di legno di pino; un elemento, questo, che contribuisce ad accrescere il carattere straordinario della moles stessa. L'immobilità della flotta si trasmette inevitabilmente al mare stesso: non a caso per definirlo Properzio ha scelto aequor, che etimologicamente rinvia a una superficie piatta106. Diverso era stato l'atteggiamento di Virgilio, che aveva costruito uno sfondo di bianchi flutti in un mare in tempesta107 e aveva parlato di bronzee navi108.

L'ultimo elemento che Properzio vuole caratterizzare è la diversità degli auspici: in aequa... avis l'epiteto dà luogo a un elegante gioco di parole col precedente aequoribus, costruito sulla stessa radice, mentre il sostantivo rinvia genericamente al volo degli uccelli che consente di prendere gli auspici. Secondo Svetonio, d'altronde, Augusto bellorum omnium eventus ante praesensit (Aug. 96. 1): egli elenca una serie di omina legati ad animali e, a proposito di Azio, sostiene che al principe descendenti in aciem asellus cum asinario occurrit: homini Eutychus, bestiae Nicon erat nomen; e conclude dicendo che utriusque simulacrum aeneum victor posuit in templo, in quod castrorum suorum locum vertit109. Di conseguenza nec si carica di una sfumatura avversativa ed equivale a nec tamen110: come prima la moles, così ora i remi non sono solo quelli delle quinqueremi di Antonio (come pensa Postgate), ma quelli di entrambe le flotte.      

Ci si attende, a questo punto, una chiara contrapposizione degli schieramenti, magari scandita dal convenzionale ricorso ad alter... alter: ciò, tuttavia, si realizza solo in parte, perché ad altera classis, che nel v. 21 designa la flotta di Antonio, non corrisponde all'inizio del v. 23 un secondo altera, bensì l'avverbio di luogo hinc. Si possono capire, però, le ragioni di una tale scelta stilistica: quella di Antonio è realmente l'altera classis, perché è diversa da quella di Ottaviano, e il disprezzo nei confronti del vinto è tale che non solo manca un termine capace di designarla come flotta di Antonio, il cui nome viene sempre taciuto da Properzio, ma addirittura il primo altera trova rispondenza in hinc, che non si riferisce alla flotta di Ottaviano ma alla posizione da essa occupata: hinc, però, è seguito dal pomposo Augusta ratis e dall'immagine di una flotta che, invece, procede a vele spiegate perché è Giove stesso a spingerla col suo omen.

Sulla base del ThlL V 1, 18, 39 e dell'OLD s.v. damno [4a] si continua a intendere (si veda da ultima la Viarre) che la flotta di Antonio è "votata al teucro Quirino": si ritiene, cioè, che damnatus sia costruito col dativo di termine e si rinvia a Hor. Carm. 3. 3. 23: (Ilion) mihi (sc. Iunoni) castaeque damnatum Minervae e a Sil. 4. 229: damnati superis (a un dativo di termine pensa anche Hutchinson, che traduce "consigned to Quirinus for destruction"). Ma sia in Properzio sia in Orazio sia in Silio Italico si tratta di dativi d'agente, come aveva ben visto Housman111e come correttamente intendono Nisbet e Rudd nel loro commento a Hor. Carm. 3. 3. 23. Nel caso di Properzio la giusta interpretazione è sia in Goold, sia in Heyworth, sia nella traduzione di Guy Lee (Oxford 1994: "doomed by Trojan Quirinus"). Romolo ha la simbolica funzione del giudice che emette la condanna e damnare è verbo del lessico giuridico. Nel caso specifico l'espressione preannuncia una chiara sentenza di morte, come già al tempo di 2. 16. 38: Actia damnatis aequora militibus: lì, ad una collocazione dei termini ad incastro, che deve far capire come tutto sia già stato bloccato e fissato dal destino, si aggiunge l'immagine dei soldati di Antonio, damnati perché su di loro incombe un esito funesto: la loro sconfitta è già segnata, ancor prima di combattere112. A Romolo è assegnata la prerogativa di condannare, in forza della sua natura divina che Quirinus mette in piena luce, in quanto non è appellativo del solo Romolo divinizzato ma anche di Marte. Teucro... Quirino113 rinvia alle sue origini troiane, che in quanto figlio di Ilia lo accomunano non solo ad Enea, ma ad Augusto stesso: in quanto tale egli è protettore di Roma è può legittimamente emettere una sentenza di morte nei confronti dei suoi nemici114.

Nonostante l'esatta interpretazione di Lachmann (Antonii classis et Cleopatras arma divo Quirino ab Augusti partibus stanti damnata erant. Sic intellige, non Augustum pro Quirino) contenesse già il rinvio ai casi sopra citati di dativo d'agente, sino al commento di Butler-Barber incluso continuava ad essere riproposta la vetusta identificazione, suggerita da Passerat, del Teucro Quirino con Augusto: si capisce bene perché mai Housman, recensendo il commento di Butler-Barber, abbia severamente criticato quanti volevano fare di Quirino una persona diversa da Quirino stesso senza spiegarne la ragione115 e si sia chiesto spazientito: "will this crazy notion of Passerat's never be packed off to limbo?"116.

I giavellotti (v. 22) fanno parte dell'armamento dei legionari romani117: turpiter stigmatizza sia il loro uso da parte dei nemici, sia il fatto che ad impugnarli sia una mano di donna. Alcuni recenziori correggono in acta il tràdito apta, che è vocabolo dall'arcaica risonanza118: rappresenta, però uno pseudoparallelo il rinvio per acta manu all'identica chiusa di pentametro in Mart. Spect. 6. 6: haec iam feminea vidimus acta manu, dove il senso è ben diverso119; e poi agere pila e sim. fanno pensare a una battaglia già iniziata, mentre qui si è ancora nella fase di presentazione delle flotte che si contrappongono. È comprensibile, invece, che i giavellotti mal si adattino a una mano di donna: d'altra parte la Cleopatra properziana si appropria anche delle competenze che spettano all'ignorato Antonio e al ruolo tipico di una donna attribuisce caratteristiche che sono proprie dell'uomo. È probabile che il tentativo dei recenziori sia stato provocato dalla presenza nel consensus codicum di feminea, che riferito a manu inteso come ablativo rendeva impossibile la presenza di apta: tuttavia manu può essere una forma di dativo, come inducono a credere sia 1. 11. 12 sia 2. 1. 66; in particolare, in quest'ultimo caso (Tantaleae poterit tradere poma manu) i manoscritti principali hanno l'impossibile Tantalea, che i recenziori hanno corretto nel dativo Tantaleae. Qui spetta a Markland il merito di aver ripristinato il dativo femineae da accordare col dativo manu. In quanto al nesso apta manu -in cui aptus ha il senso di 'impugnato'- si può rinviare a Hor. Epod. 7. 1-2: cur dexteris / aptantur enses conditi?.

vv. 55-56:

Dixerat et pharetrae pondus consumit in arcus:                  55    

proxima post arcus Caesaris hasta fuit.

Dixerat et, che in inizio di verso connota un esordio di epica fattura, come in 3. 3. 25 e in 4. 9. 2 equivale al dixit et di 4. 4. 67 e 91 e sta a segnare un rapido passaggio dalle parole all'azione. Non appena ha finito di parlare, Apollo comincia immediatamente a scagliare le sue frecce infallibili sui nemici. Properzio prende le mosse da Virgilio, ma da lui sa anche distaccarsi: alla sua rappresentazione dello scontro navale sullo scudo di Enea egli allude per quanto riguarda l'intervento del dio (A. 8. 704-706: Actius haec cernens arcum intendebat Apollo / desuper: omnis eo terrore Aegyptos et Indi, / omnis Arabs, omnes vertebant terga Sabaei); in Virgilio, però, non c'è traccia del ruolo decisivo di Apollo nella scelta del καιρός; il dio interviene quando si accorge (haec cernens) che la battaglia è già in una fase avanzata e non si stabilisce quel rapporto stretto fra lui e Ottaviano, che invece Properzio affida al suo elevato discorso al condottiero.

Apollo, che in Virgilio tende l'arco, qui esaurisce (consumit) tutte le frecce della sua faretra: consumere dal significato originario di 'consumare', 'spendere', sviluppa quello di 'usare completamente', 'esaurire'120. Pharetrae pondus è un'elegante perifrasi per le sagittae, mentre in arcus è complemento di fine ("per l'arco")121: è Properzio il primo ad attestare, già in 3. 12. 35, l'uso del plurale in arcus per il singolare (Postgate parla di un pluralis magnificentiae), che poi diverrà frequente soprattutto nell'epos per enfatizzare la rapida successione nel lancio delle frecce122. Heyworth ritiene che in arcus derivi qui dal pentametro o dal v. 25 e, ligio alla sua tendenza a diffidare delle ripetizioni di vocaboli, preferisce congetturare in hostes. In tal modo l'espressione è meno ricercata, ma anche molto più banale.

Inutile sembra anche la correzione di fuit in furit di Guyet e di Heinsius, riproposta da Butrica: egli stesso è costretto ad  ammettere che mai furere è detto di armi123 e, d'altronde, non si vede proprio come una lancia possa furere in battaglia una volta scagliata (ben diverso è il caso di V.Fl. 1. 144, dove non è l'ensis a furere, ma è Esone  ense furens). Come alternativa Butrica propone ruit rinviando a V.Max. 4. 7. 2, undique ruentibus telis: orbene, che da ogni parte possano piovere dardi è comprensibile, ma sembra piuttosto difficile ammetterlo per una sola hasta. A indurre Butrica a preferire la congettura al testo tràdito era la presenza del perfetto fuit in un contesto caratterizzato dall'uso del presente (v. 55: consumit, v. 57: vincit... dat, v. 58: vehuntur, v. 59: miratur, v. 61: prosequitur, v. 63: petit): a dire il vero proprio nello stesso contesto il perfetto plauserunt è sullo stesso piano del presente prosequitur. Basterebbe questo particolare a mettere in crisi il suo ragionamento; ma già in Tränkle compare il giusto e decisivo confronto con 4. 8. 55-56: fulminat... saevit... fuit e 81-86: respondi... riserat... suffiit... tergit... imperat... tetigit124. Non c'è alcun motivo, dunque, per toccare fuit.

La lancia, oltre ad essere un simbolo di guerra125, lo è dell'imperium e del comando che spetta al condottiero che la scaglia contro il nemico126, così come l'arco è il simbolo di Apollo guerriero. A Properzio interessa il gesto, mentre ne sottintende le prevedibili conseguenze: al gesto di Apollo, che lancia tutte le frecce della sua faretra, tiene dietro subito dopo, secondo in ordine temporale e per importanza (proxima), il gesto del condottiero, che contro il nemico scaglia la sua hasta: era quello il segnale dell'inizio di una battaglia127.

vv. 59-60:

At pater Idalio miratur Caesar ab astro:    

'Tu deus; est nostri sanguinis ista fides.'                           60

Lo scontro navale non ha avuto quale divino spettatore il solo Apollo: Properzio immagina che ad assistere, dall'alto del suo astro, sia Cesare stesso. Nell'esordio del v. 59 (at pater, e poi, in iperbato, Caesar) at, come in 4. 4. 15, non ha una funzione avversativa, ma serve a introdurre un nuovo personaggio e una nuova situazione. L'iperbato mette in rilievo il ruolo di pater, sia pure adottivo, esercitato da Cesare nei confronti di Ottaviano. Che Cesare sia stato uno spettatore entusiasta del successo di Ottaviano è messo in chiaro da miratur; ma Cesare non si limita a guardare con meraviglia le gesta del figlio adottivo: anch'egli, come Apollo, interviene direttamente, pur limitandosi a pronunciare un solo verso prima di scomparire: però si ha la netta impressione che proprio a quel verso sia affidato il messaggio dell'elegia e che esso costituisce il vero centro del carme. È significativo, d'altronde, che Cesare non si ponga all'identico livello dei mortali, come ha fatto Apollo stesso collocandosi al di sopra della poppa della nave di Ottaviano (v. 29); Cesare guarda ammirato ab astro, cioè da una lontananza siderale che è anche la testimonianza della sua natura divina. Ben diversamente si era comportato il Giove omerico, che dai gioghi del monte Ida aveva assistito alle battaglie dei Greci e dei Troiani128.

Che l'astrum di Cesare sia detto Idalium rinvia a un monte di Cipro caro a Venere e, dunque, forse per influsso di V. Ecl. 9. 47: Dionaei ...Caesaris astrum (Dione è madre di Venere), alle origini della gens Iulia. Della stella di Cesare parla anche Orazio (Carm. 1. 12. 46-48: micat inter omnes / Iulium sidus velut inter ignes / luna minores): Orazio, però, sta pensando ad Augusto stesso129, oppure allude alla cometa che risplendette in cielo per sette giorni dopo la morte di Cesare, nel corso dello svolgimento dei giochi in onore di Venere Genitrice, organizzati nel settembre del 44 a.C. da Ottaviano nel collegium istituito da Cesare stesso due anni prima del suo assassinio130. La cometa venne considerata quale sede della sua anima, accolta fra gli dèi immortali131: Properzio sapeva bene che la menzione del Iulium sidus sarebbe stata molto gradita al principe: infatti Plinio (Nat. 2. 94) nel parlare della cometa ci fa sapere che Augusto l'aveva ritenuta come un segno straordinariamente propizio per i suoi destini; a stare a Serv.auct. ad Verg. A. 8. 681: ipse vero Augustus in honorem patris stellam in galea coepit habere depictam.

Ma quali parole il poeta attribuisce a Cesare? Gli editori più recenti, da Goold alla Viarre, da Hutchinson a Heyworth -che però nel volume di commento appare molto più incline al dubbio132- sono inclini ad accettare il testo del pentametro tràdito dai manoscritti più autorevoli (sum deus; est nostri sanguinis ista fides): fides, come in 4. 1. 108, ha il senso di 'prova', 'testimonianza'133, mentre ista sta per factum istud o sim. e indica la vittoria nello scontro navale. Secondo loro, quindi, il padre adottivo del vincitorericonoscerebbe compiaciuto la propria natura divina e vedrebbe nella vittoria di Azio la prova del sangue comune a lui e a Ottaviano. C'è più di un motivo, però, per sospettare del testo tràdito, a cominciare dalla singolare presenza di est subito dopo che l'esametro è stato aperto da sum; colpisce, poi, l'assenza di una connessione logica fra sum deus e quel che segue nell'esametro: che legame c'è, infatti, fra la natura divina di Cesare e il fatto che la vittoria costituisca la prova del comune sangue divino? E poi, sanguis può realmente significare 'natura divina'? Ma, soprattutto, è piuttosto ridicolo che Cesare proclami ora, trionfalmente, di essere un dio (sum deus), quando da anni la sua divinizzazione era generalmente ammessa. In questo caso ha ragione Butrica a definire banale e ozioso un simile argomento134.

Si capisce, dunque, che non siano mancati tentativi di correzione: l'inconsistenza di quello di Butrica, che intende male la seconda parte dell'esametro e, proponendo di correggere sum deus in cui deus e nostri in vestri, pensa che improvvisamente Apollo si rivolga a Cesare, è stata dimostrata da Heyworth135. Sulla buona strada mette la correzione di sum in tu (Carutti), che Richter ha perfezionato proponendo di leggere tu deus es: nostri sanguinis ista fides136. Ma si può fare un ulteriore passo in avanti e, recuperando l'est della tradizione manoscritta si può leggere, come già nel 1984 ho proposto nella mia edizione teubneriana, tu deus: est nostri sanguinis ista fides. In tal modo la vittoria di Azio costituisce la prova che è un dio Augusto (la divinità di Cesare è da tempo riconosciuta) e che, dunque, nelle vene del giovane condottiero scorre lo stesso sangue del divus Iulius (nostri è plurale maiestatis, riferito al sangue di Cesare). Un importante supporto a questa interpretazione è stato fornito da Mario Lentano, il quale osserva che "intervenendo a battaglia ormai finita e forte del suo duplice statuto di padre e di divus, Cesare mostra tutto il proprio compiacimento e sancisce la compiuta legittimazione del figlio, la sua definitiva ascrizione al sangue del proprio genus: quell'exploit di Ottaviano costituisce la fides, la prova e la conferma  al tempo stesso della sua discendenza divina. E poiché, appunto, Cesare cumula in sé tanto il ruolo di padre che quello di divinità, tale conferma è allo stesso modo duplice: essa non attesta solo il valore di Ottaviano, ma anche la natura sovrumana del rampollo di Cesare"137.

Notas

* Resumen de la Dirección de la revista.

1 Analogo è il caso di Ov. Ep. 16. 58, dove prospiciens eram sta al posto di prospiciebam (sull'interpretazione del verso ovidiano cf. Kenney (1999: 404-459). A stare ad Hofmann-Szantyr (1965: 388) tali forme sarebbero tipiche della lingua d'uso: c'è da dubitarne, almeno per quanto riguarda Properzio, che sia qui sia in 3. 7. 21 sunt testantia se ne serve in contesti di particolare solennità, e bene fa Tränkle (1960: 11)     -col rinvio a Löfstedt (1936: 245)- a sottolineare il tono elevato di entrambi i contesti.

2 Buone riflessioni in Danesi Marioni (1979: 126).

3 Cf. e.g. Hubert-Mauss (1977: 79-80).

4 Già Festo attesta l'oscillazione del significato, quando sostiene che faventia bonam ominationem significat. Nam praecones clamantes populum sacrificiis favere iubebant. Favere enim est bona fari; at veteres poetae pro 'silere' usi sunt 'favere' (Fest. 78. 14-16 L.). Servio combina le due interpretazioni (ad Verg. A. 5. 71: praeco magistratu significante dicebat 'favete linguis', 'favete vocibus', h.e. bona omina habete aut tacete). Sull'ambivalenza della formula si sofferma Frazer nel commento a Ov. Fast. 1. 71.

5 Cf. Lyne a ps.Verg. Ciris 366: caesa pio cecidisset victima ferro.

6 In Properzio cf. anche 1. 7. 3 col mio commento; 1.10. 21; 1. 14. 7; 2. 3. 11.

7 Leo (1898: 193).

8 Shackleton Bailey (1956: 244-245).

9 Il più recente difensore di tale interpretazione metaforica è Riesenweber (2007: 124).

10 Così Eisenhut (1956: 224).

11 Cairns (1984: 97-98).

12 La traduzione è di O. Vox (Torino, 1997).

13 Heyworth (2007: 457).

14 Cf. e.g. Verg. Ecl. 3. 39.

15 Cf. 2. 34. 31; 3. 1. 1; 3. 3. 52; 3. 9. 44.

16 G.L. I 107. 25 K.: 'serta' neutro genere dicuntur,... sed Propertius feminine extulit sic, 'tua praependent demissae in pocula sertae'.

17 Si rinvia, comunque, per il motivo dell'acqua nelle definizioni di poetica e per la relativa bibliografia ai commenti di Fedeli a 2. 10. 25; 3. 1. 3, 6; 3. 3. 6, 52 e a Pfeiffer nell'apparato agli scholia Flor. al fr. 2 degli Aitia callimachei.

18 E.g. Il. 2. 811; 6. 152; 13. 32; Od. 3. 293; ma cf. anche Verg. A. 7. 563: est locus Italiae medio sub montibus altis e Ov. Fast. 2. 491: est locus, antiqui Capreae dixere paludem.

19 Cf. Strab. 7. 326; 9. 440, 442.

20 È questa l'interpretazione sia del ThlL VI 1483, 6 sgg. (i.q. retro iacens), col rinvio a Sil. 15. 175-176: fugiuntque in nubila silvae / Pyrenes, sia dell'OLD, s.v. fugio [7a], che per fugere nel senso di 'to recede' cita anche Sil. 2. 465-466: lumina retro / exesis fugere genis; altri esempi sono portati da Hutchinson (Plin. Nat. 4. 76: longe refugientesoccupat terras) e da Heyworth (2007: 458) (Manil. 4. 625: fugientes aequora terras); in casi del genere il semplice fugere equivale al composto refugere: cf. infatti Verg. A. 3. 536: refugitque ab litore templum.

21 L'OLD s.v. [7e] cita anche Quint. Inst. 11. 3. 22: nec semper a contentione condere licet (sc. vocem).

22 Il rinvio obbligato è a Catul. 11. 10: Caesaris... monumenta magni; in Properzio cf. anche 3. 11. 61: Curtius... statuit monumenta.

23 Sull'aggettivo cf. ThlL IX 2, 699, 10; OLD s.v. [2a].

24 Cfr. Schober (1936).

25 Che fosse ritenuto particolarmente pericoloso doppiare il promontorio su cui sorgeva il tempio, è confermato dalla preghiera ad Apollo di Leucade per un viaggio sicuro verso il porto di Azio in AP 6. 251 (Philipp.).

26 Sull'uso prevalentemente poetico di doctus nel senso di 'abituato a' cfr. Hus (1965: 132).

27 Sulla tattica dei contendenti nella battaglia di Azio, oltre al vetusto Kromayer (1899: 1-54) e a Leroux (1968), cfr. l'agile presentazione di Carter (1970: 215-227) e inoltre Pelling (1986: 177-181); sulla tradizione poetica della battaglia cfr. Paladini (1958: 240-269; 462-475).

28 Li hanno seguiti Kromayer (1899: 43 n. 5) e, più recentemente, Luck.

29 Per l'uso metonimico di Nereo cfr. Call. Hymn. 1. 40, Pan.Mess. 58, Luc. 2. 713.

30 Waardenburg (1812: 291).

31 Williams (1968: 458).

32 Housman (1894: 108).

33 Ann. 85 Sk.; cfr. anche Tac. Ann. 2. 61, Auson. 418. 24, Mart.Cap. 1. 13.

34 Per il senso Shackleton Bailey (1956: 245) rinvia a Claudian. Carm. 1. 122-123 immensa... cornus in hastam / porrigitur tremulisque ferit splendoribus Hebrum.

35 Sulla legittimità di parentesi che interrompono l'ordinata successione di distici e vanno a inserirsi fra il soggetto (qui Phoebus) e il verbo (qui astitit) si veda Fraenkel (1932: 201).

36 Cfr. Ernout-Meillet (1985: 737) s.v. e OLD [2a] s.v.

37 Cfr. Pind. Fr. 33d,1 sgg. S.-M. e, poi, Call. Hymn. 4. 35 sgg., Verg. A. 3. 73-77, Ov. Met. 6. 189, Sen. Agam. 382 sgg.

38 Apollo, d'altronde, è ἀκερσεκόμης sin da Hom. Il. 20. 39; gli esempi sono raccolti da Navarro Antolín nel commento a Lygd. 4. 27: intonsi crines.

39 Rossberg (1883: 75).

40 Elevatezza di stile e gusto eziologico si combinano nell'epiteto riservato ad Agamennone, che rinvia a Pelope, figlio di Tantalo e padre di Atreo e di Tieste, e dunque alla dinastia degli Atridi: come ricorda Catullo (64. 346), Agamennone era periuri Pelopis... tertius heres. Il virgiliano Pelopeus (A. 2. 193: Pelopea ad moenia), già attestato in 3. 19. 20: Pelopea domus in riferimento agli Atridi, rimane epiteto raro e poetico (Sen. Med. 891, Luc. 7. 778, Stat. Theb. 2. 471).
41 Cfr. gli esempi in ThlL V 2, 243, 38 sgg.

42 Simile è l'ignis avarus di 2. 28. 56.

43 Cfr. OLD s.v. egero [1b] e s.v. effero [3].

44 Shackleton Bailey (1956: 247).

45 Il mito, già presente nell'inno omerico ad Apollo (vv. 356-374), aveva avuto un revival nel mondo alessandrino, sia in Apollonio Rodio (2. 705-707) sia in Callimaco (Hymn. 2. 97-104; 4. 91-93): sulle sue numerose attestazioni letterarie cfr. von Geisau (1963), su quelle dell'arte figurativa Kahil (1994).

46 Buchheit (1966: 90 sgg.)

47 Cfr. OLD s.v. solvo [1a]: "to loosen or untie".

48 Lo ha suggerito Postgate (1883: 363).

49 Si tratta dell'esempio che Shackleton Bailey (1956: 247) riprende da Postgate.

50 Willymott (1705).

51 Basta considerare 4. 4. 63: et iam quarta venit venturam bucina lucem.

52 Proposto da Kershaw (1980: 71-72).

53 Anch'esso proposto da Kershaw (1992: 282-284).

54 Cfr. Kershaw (1992: 283).

55 Oltre a Verg. A. 4. 657; 6. 189; 11. 841; Luc. 8. 139; Sil. 8. 169; 11. 6; Stat. Theb. 7. 547; 9. 624, cfr. anche Ov. Trist. 2. 180; 3. 1. 8; 4. 1. 86.

56 Sull'unione di nimium con avverbi cfr. OLD s.v. [1b].

57 Cfr. OLD s.v. [5]: "to dare to go, venture".

58 Altri esempi sono elencati in ThlL II 1257, 9 sgg.

59 Sul nesso cfr. il commento di Luck a Ov. Trist. 2. 463.

60 Sull'uso di princeps da parte dei poeti augustei cfr. il commento di Nisbet-Hubbard a Hor. Carm. 1. 2. 50 (dove se ne incontra la prima attestazione in riferimento ad Ottaviano), oltre a vari luoghi delle Res gestae di Augusto (13; 30. 1; 32. 3); sulle attestazioni dell'ablativo assoluto e sull'opposizione princeps-rex si sofferma Wickert (1954). 

61 Lo faceva notare già Schrader (1776: 173).

62 50. 29. 1-4; cfr. anche Vell. 2. 84. 1 e Plut. Ant. 62. 2.

63 Ne parla D.C. 50. 31. 2 e vi accenna Mart. 4. 11. 5-6.

64 Cfr. ThlL VII 2, 786, 21 sgg., OLD s.v. labor, -eris [1a].

65 Quello delle aquae invitae, d'altronde, è un topos, presente in Ovidio (Her. 13. 126; 17 [18].194), in Lucano (10. 322), nello ps.Seneca (Oct. 40), la cui origine viene fatta risalire alla costruzione della prima nave che osò sfidare un mare ostile ad accoglierla (cfr. la maledizione del primus inventor in 1. 17. 13-14: a pereat quicumque rates et vela paravit / primus et invito gurgite fecit iter!).

66 Cfr. Miltner (1931).

67 Cfr. Sengelin e AA.VV. (1997), e.g. nn. 8. 12. 14. 59. 74.75; in particolare raffigurazioni di questo tipo sono frequenti nella Centauromachia (ibid. nn. 154-156) e nello scontro con i Lapiti: cfr. Bethe (1921); altre attestazioni in Linant de Bellefonds- Sabrí Alanyali (2009).

68 Un ampio elenco di attestazioni, a cui andrebbero aggiunte se non altro quelle dell'Eneide (5. 663; 7. 431; 8. 93), è nel commento di Bömer a Ov. Fast. 4. 275: picta coloribus ustis; altra bibliografia in Buchheit (1963: 29 e n. 69).

69 Cfr. Ernout-Meillet (1985: 691) s.v. tignum.

70 Per metus nel senso di 'motivo di timore' cfr. OLD s.v. [5b].

71 Lo pensava già Dornseiff (1932: 475).

72 La stessa funzione ha il singolare rosa in 3. 3. 6; 3. 5. 22; 4. 2. 40; 4. 8. 40.

73 Cfr. Riesenweber (2007: 79).

74 Waardenburg (1812: 293).

75 Cfr. in proposito il commento di Bömer a Ov. Fast. 2. 739-740 nurus regis fusis per colla coronis / inveniunt.

76 In Properzio cfr. 2. 3. 13: comae per levia colla fluentes, 4. 5. 51: per barbara colla; e cfr. anche Verg. A. 11. 497; Ov. Fast. 2. 739; Met. 2. 673. 739; 3. 169.

77 Cfr. anche Tib. 1. 9. 34; 2. 1. 27; Ov. Pont. 4. 2. 9; Lygd. 6. 6 col commento di Navarro Antolín.

78 Cfr. Fedeli (1997).

79 Cfr. infatti Sen. Ep. 100. 2 non effundere... orationem, sed fundere.

80 Sul suo uso in poesia cfr. Maas (1902: 483; 503 n. 10).

81 Cfr. il commento di Nisbet-Hubbard ad loc. e sul prelum Hörle (1937).

82 Per l'uso tecnico di elidere detto di liquidi cfr. OLD s.v. [3a]: elisa, grazie alla stessa radice di laedere, comunica in modo fortemente espressivo l'idea dello schiacciare (Ernout-Meillet [1985: 337] s.v. laedo: "faire jallir en pressant, écraser"); in 3. 17. 18, invece, Properzio aveva usato la meno tecnica, ma anche meno violenta, immagine del pressare uvam pedibus.

83 Nat. 21. 31: prima nobilitas Cilicio (sc. croco) et ibi in Coryco monte (cfr. Hehn [1911: 264-270]): la spica Cilissa è ricordata anche da Ovidio, in un verso che da quello properziano dipende (Fast. 1. 76: et sonet accensis spica Cilissa focis).

84 Per arditi esempi di tmesi cfr. Löfstedt (1936: 186-188).

85 Da parte di Morgan (1986: 198).

86 Cfr. infatti il ThlL X 1, 1512, 73 sgg.

87 Cfr. Morgan (1986: 197-198). Altri esempi di perluere, sempre con sostanze liquide, sono nell'OLD s.v. e nel ThlL X 1, 1521, 72 sgg.

88 Cfr. Leo (1898: 193): "dass R. eine allgemein übersehene richtige überlieferung in ihr Recht eingesetzt hat, finde ich nur selten, wie 2,8,31 tractos, 4,6,74 perque lavet".

89 Cfr. Questa (1976: 126 n. 12).

90 In merito cfr. Goold (1992: 314), Günther (1997: 107).

91 Cfr. e.g. 2. 34. 59, Verg. A. 4. 527, Ov. Her. 4. 98.

92 Cfr. anche 2. 1. 25; 2. 10. 3; 3. 11. 69; 3. 17. 39-40 e Norden a Verg. A. 6. 123.

93 Cfr. anche 2. 1. 19; 2. 10. 7. 19; 3. 9. 47; 4. 1. 69.

94 Cfr. già il v. 11 e 3. 9. 39; 3. 17. 39.

95 Sul tempio e sull'avvenimento cfr. Reusser (1966); significative sono le parole di Augusto stesso (Res gest. 29,2): Parthos trium exercituum Romanorum spolia et signa reddere mihi supplicesque amicitiam populi Romani petere coegi, Ea autem signa in penetrali, quod est in templo Martis Vltoris, reposui.

96 Cfr. Heyworth (2007: 463).

97 Schippers (1776: 89).

98 Heyworth (2007: 463).

99 Cfr. OLD s.v. [14a] e Cic. Att. 4. 18. 5: confecta Britannia.

100 Cfr. Housman (1888: 4) e Heyworth (2007: 463).

101 Dopo Schippers (1818: 53) lo seguono, ora, sia Hutchinson sia Giardina.

102 Günther (2006: 377 n. 126).

103 Cfr. D.C. 54. 18. 1.

104 In proposito cfr. anche Prop. 3. 11. 44.

105 Cfr. Ernout-Meillet  (1985: 410) s.v. moles.

106 Cfr. Ernout-Meillet  (1985: 11) s.v. aequus.

107 A. 8. 671-672: haec inter tumidi late maris ibat imago / aurea, sed fluctu spumabat caerula cano.

108 A. 8. 675-676: in medio classis aeratas, Actia bella, / cernere erat.

109 Un'identica storia è narrata da Plut. Ant. 65.

110 Per un tale significato avversativo cfr. Kroll a Catull. 30. 4.

111 Housman (1934: 138-139).

112 In modo analogo di arma damnata parlerà Lucano (4. 359-360) e di agmen damnatum Petronio (124 v. 248).

113 Iliacus Quirinus lo definisce Sil. 13. 266 e pater Iliades Ov. Fast. 4. 23; 5. 565.

114 Cfr. Norden (1901: 264).

115 Così anche Shackleton Bailey (1956: 245) e, in difesa dell'interpretazione di Passerat, Scott (1925: 98-99).

116 Housman (1934: 138).

117 Sul pilum quale loro arma in epoca imperiale cfr. Schulten (1950).

118 Cfr. Enn. Trag. 350 J.: o Fides alma apta pinnis.

119 Cfr. Housman (1893: 193) e Goold (1967: 70).

120 Cfr. OLD s.v. [6a], Ernout-Meillet (1985: 667) s.v. sumo e Fest. 296. 22 L.

121 Consumere è costruito con in e l'accusativo di fine anche in Lucil. 1240 M., Rhet.Her. 1. 4; Verg. G. 3. 178; Sen. Nat. 3. 11. 3; 5. 18. 16; Stat. Theb. 2. 133; Ulp. Dig. 21. 1. 17. 14.

122 Numerosi esempi in  ThlL II 476, 2 sgg.

123 Butrica (1997: 185-186).

124 Tränkle (1960: 157).

125 Cfr. Gell. 10. 27. 3: populum Romanum misisse ad eos hastam et caduceum, signa duo belli et pacis.

126 Cfr. Paul.Fest. 55. 9-10 L.: hasta summa armorum et imperii est e Fiebiger (1912).

127 Cfr. Serv. ad Verg. A. 9. 52 (principium pugnae): hoc de Romana sollemnitate tractum est. Cum enim volebant bellum indicere, pater patratus, hoc est princeps fetialium, proficiscebatur ad hostium fines, et praefatus quaedam sollemnia, clara voce dicebat se bellum indicere propter certas causas (...). Post quam clarigationem hasta in eorum fines missa indicabatur iam pugnae principium.

128 Cfr. e.g. Hom. Il. 8. 41-52.

129 Così Nisbet-Hubbard ad loc.

130 Cfr. Plin. Nat. 2. 93.

131 Cfr. Suet. Iul. 88: stella crinita per septem continuos dies fulsit exoriens circa undecimam horam creditumque est animam esse Caesaris in caelum recepti e inoltre Verg. A. 8. 681, Ov. Met. 15. 843-850, Plut. Caes. 69. 2.

132 Heyworth (2007: 460-461).

133 Esempi in ThlL VI 672, 56 sgg.

134 Butrica (1997: 186): con parole non troppo diverse dalla sue lo aveva già detto Richter (1966: 455).

135 Heyworth (2007: 461).

136 Richter (1966: 457).

137 Lentano (2007: 77).

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Fecha de recepción: 18-06-12
Fecha de aceptación: 30-06-12

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