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Argos

versión On-line ISSN 1853-6379

Argos vol.36 no.2 Ciudad Autónoma de Buenos Aires dic. 2013

 

ARTÍCULOS

L’occhio indiscreto del biografo
(Prima parte)

Paolo Fedeli

Università degli Studi di Bari Aldo Moro

p.fedeli@ria.uniba.it


Resumen

Una puesta a punto erudita y crítica acerca del género biográfico en Roma, de Cornelio Nepote al Tácito biógrafo, de Suetonio a los escritores de la Historia Augusta1.

Palabras clave. Biografía; Nepote; Tácito; Suetonio; Historia Augusta.

Abstract

A learned and critical update about biographical genre in Rome, from Cornelius Nepos to Tacitus the biographer, from Suetonius to the authors of the Historia Augusta.

Keywords. Biography; Nepos; Tacitus; Suetonius; Historia Augusta.


 

1. Il genere biografico

Lo studioso delle letterature antiche considera suo dovere primario quello di risalire alle origini dei generi letterari e delle opere dei singoli autori; per lo studioso di una letteratura come quella latina, poi, un tale compito appare imprescindibile, considerati gli stretti e dichiarati rapporti di dipendenza nei confronti di quella greca. Se si limita un tale discorso all’ambito del genere biografico, esso serve a spiegare il motivo per cui autori come Cornelio Nepote e Svetonio fra i Latini, Plutarco fra i Greci, siano stati più volte sezionati da una critica desiderosa di rintracciare le fonti e di ritrovare nella biografia latina e greca di età tardo repubblicana e imperiale le antiche vestigia della biografia greca.

Sull’origine del genere biografico ha furoreggiato a lungo la teoria di uno studioso sommo, quale fu Friedrich Leo, che fissava il punto di partenza nei due tipi di biografia ellenistica, sorti entrambi nella scuola di Aristotele: le biografie di artisti e di scrittori, da un lato, quelle di filosofi, per esigenze di scuola in ambito peripatetico dall’altro2. Ne sarebbero derivati il tipo ‘svetoniano’ e quello ‘plutarcheo’: il primo avrebbe privilegiato le biografie di artisti e di scrittori, accordando le sue preferenze alla caratterizzazione dell’individuo, coi suoi vizi e con le sue virtù, e relegando in secondo piano l’elemento cronologico; il secondo, invece, avrebbe sviluppato le biografie di uomini politici e di statisti, conferendo un’importanza primaria proprio alla componente cronologica. L’opera di Svetonio sarebbe la massima espressione del primo tipo, quella di Cornelio Nepote, oltre a quella di Plutarco, del secondo.

C’è probabilmente qualcosa di vero nella tesi del Leo, anche se oggi si tende a relegarla impietosamente in secondo piano: gli studi più recenti, infatti, privilegiano i rapporti del genere biografico con quello storiografico; di esso le antiche biografie costituirebbero un’espressione secondaria, tutta incentrata su singole personalità, con un ovvio approfondimento di quegli elementi personali che la storiografia aveva relegato sullo sfondo. Le biografie greche ed ellenistiche vengono distinte in biografie poetiche (costruite sulla base dei versi di poeti arcaici), aneddotiche (con la caratterizzazione fisica ed etica di personaggi del mondo politico o culturale), filosofiche (con la presentazione della figura del protagonista da un lato etico-psicologico: esempio insigne, l’Apologia di Socrate), politico-ideologiche (col ritratto di un personaggio che assurge a modello politico-militare, come nell’Agesilao di Senofonte o nell’Evagora di Isocrate), scolastiche (i profili bio-bibliografici premessi alle edizioni di testi). In epoca alessandrina, poi, il genere ebbe un grande sviluppo grazie alle numerose biografie di Alessandro Magno.

Appare ovvio che alla nascita della biografia romana abbiano concorso sia elementi ellenistici –sarebbe singolare, infatti, la loro assenza se si considera il peso della componente ellenistica nella cultura latina– sia elementi originali, presenti nelle antiche laudationes funebres, negli elogi sepolcrali, nel liber pontificalis; a favorire, però, lo sviluppo del genere a Roma contribuì in modo sostanziale l’emergere di grandi figure di capi militari e di uomini politici. Bisogna giungere sino a Cornelio Nepote per trovare attestato il primo esempio romano del genere: prima di lui, però, si ha notizia di Cornelio Epicado, liberto di Silla che alla morte ne completò l’autobiografia, e di Voltacilio Pitolao, liberto di Pompeo e autore delle biografie di Pompeo stesso e del padre. Cultori del genere furono anche T. Pomponio Attico (109-32 a.C.), il ricco finanziere amico di Cicerone, che nel suo Liber annalis fornì cronografie e dati di genealogia nobiliare e, inoltre, scrisse monografìe genealogiche per le gentes più illustri, e soprattutto M. Terenzio Varrone, il massimo erudito della fine della repubblica (116-27 a.C.), che nelle Imagines unì al ritratto dei singoli personaggi un epigramma tale da caratterizzarli. Secondo Svetonio sarebbe stato autore di biografie anche un Santra, di cui però sappiamo solo che s’interessò di poeti e di oratori. I massimi rappresentanti del genere furono Cornelio Nepote, Svetonio e gli Scrittori della Storia Augusta, oltre al Tacito dell’Agricola.

2. Cornelio Nepote

Dell’opera biografica di Cornelio Nepote ci è giunto, solo in piccola parte, il De viris illustribus3. In origine si trattava di almeno 16 libri di biografie, suddivise per sezioni (re, generali, storici, grammatici, poeti e forse anche oratori, filosofi, artisti); ogni sezione era divisa in due libri, il primo per gli esponenti stranieri, il secondo per quelli romani: si trattava di un’innovazione di Cornelio Nepote, ripresa poi da Plutarco (ma analogo è lo schema seguito, nel I sec. d.C., da Valerio Massimo nella raccolta di episodi esemplali contenuta nei suoi 9 libri di Fatti e detti memorabili). È ovvio che la tecnica del confronto non sia potuta esistere nelle biografie ellenistiche, perché un Greco non si sarebbe mai paragonato ad un barbaro, ed è probabile che la contrapposizione di personalità rappresenti una concessione del genus biografico allo schema tragico del confronto-scontro fra il protagonista e il suo antagonista. Dell’opera ci è giunto soltanto il libro relativo ai generali stranieri (il Liber de excellentibus ducibus exterarum gentium), costituito da 22 biografie: alle 19 di generali greci si aggiungono quelle del persiano Datame e dei Cartaginesi Amilcare e Annibale); ci restano, poi, un elenco di re stranieri (De regibus) che furono anche abili condottieri e le biografie di Catone e di Attico, che appartenevano al libro degli storici romani. Un particolare significato ideologico assume la biografia di Attico, di cui Cornelio Nepote si preoccupa di mettere in chiaro l’appartenenza convinta al campo dei conservatori e di giustificare il rifiuto della vita politica attiva con l’avversione nei confronti delle sue degenerazioni: in primo piano viene posta la sua piena disponibilità nei confronti degli amici, a prescindere dalla loro collocazione nel campo politico; come osserva Emanuele Narducci, “era ovvio sospettare in questo atteggiamento la volontà di non urtare i rappresentanti di nessuna delle due opposte fazioni, di tenere sempre i piedi in due staffe: proprio per questo Cornelio Nepote si ritiene obbligato a precisare che la liberalitas di Attico non è mai opportunistica, che egli interviene di solito in favore dei perdenti, e non dei vincitori”4.

Scopo della divisione per categorie contrapposte è, naturalmente, quello di suscitare il confronto: lo mette in chiaro la conclusione della Vita di Annibale, con cui si chiude il libro sui generali stranieri (13.4)5:

Ma è tempo ormai di porre termine a questo libro e di cominciare a parlare dei comandanti romani, perché dal confronto fra le imprese di quelli e di questi si possa giudicare quali risultino superiori.

Si è supposto che fine del confronto fosse quello di mostrare la superiorità dei Romani in ogni campo; quanto ci è rimasto, però, non si accorda con una visione a tal punto nazionalistica: d’altronde basta pensare alla presentazione sotto una buona luce addirittura di Annibale, che dei Romani fu il nemico per antonomasia. Significativa è la concessione d’apertura (Vita di Annibale 1.1-2):

Se è cosa certa, e nessuno la mette in dubbio, che il popolo romano ha superato tutti gli altri popoli in valore, non si può tuttavia negare che Annibale si distinse su tutti gli altri comandanti in abilità, quanto il popolo romano sta al di sopra di tutte le genti in forza. Ogniqualvolta, infatti, Annibale si batté con essi in Italia, ne riportò vittoria. E se l’invidia dei suoi concittadini non lo avesse esautorato proprio fra i suoi, con probabilità avrebbe potuto vincere definitivamente i Romani.

Per di più Cornelio Nepote ammonisce a più riprese i suoi lettori romani a non adoperare il proprio metro di giudizio per valutare fatti e personaggi di altri popoli: emblematiche sono le parole che aprono la Vita di Epaminonda (1.1-2):

Prima di incominciare a parlare di lui credo utile rinnovare ai lettori la raccomandazione di non misurare sulle proprie le costumanze degli altri e e di non pensare che abitudini per essi poco dignitose siano state ritenute tali da altri popoli. Cosi, per noi, lo studio della musica disdice a chi è investito di cariche, la danza poi è una cosa riprovevole; eppure codeste manifestazioni per i Greci sono piacevoli, sono apprezzate.

In particolare, l’intera prefazione sviluppa questa tematica: dopo aver affermato, infatti, che vi saranno persone, ignare della cultura greca, che approveranno solo ciò che è in linea col loro modo di vivere, Cornelio Nepote mette in chiaro che, quando esse avranno appreso che diversi nei singoli popoli sono i criteri di valutare il bene e il male e che ogni cosa va giudicata secondo le tradizioni dei propri antenati, non proveranno stupore nel constatare come mai egli, nel trattare le virtù dei Greci, si sia uniformato alla loro forma di civiltà. Si è parlato, a questo proposito, di ‘relativismo culturale’ della prefazione: ma esso non presenta nulla di eversivo nei confronti dei valori tradizionali della società romana e, per di più, non impedisce che nelle singole biografie i generali stranieri vengano giudicati sulla base di valori, quali la pietas, la prudentia, l’abstinentia, che appartengono alla tradizione romana; analogamente anche i personaggi sono scelti in quanto incarnazione di vizi e di virtù, piuttosto che per la loro importanza storica.

Quale sia lo schema a cui si uniformano le singole biografie, è detto in modo chiaro nella Vita di Epaminonda (1. 3-4):

Volendo [...] dare un’idea esatta delle abitudini private e della vita pubblica di Epaminonda, credo necessario non tralasciare nulla di quanto serva ad illustrarla. Perciò accennerò in primo luogo alla sua famiglia, poi ai suoi studi e ai suoi maestri; dirò in seguito del suo carattere e delle sue doti intellettuali e di tutto ciò che comunque merita di essere ricordato; infine tratterò delle sue imprese.

Cornelio Nepote è consapevole, e se ne scusa (ibid. 4. 6), della necessità di compendiare in un unico volume le vite di tanti uomini illustri, ognuna delle quali ha trovato, prima di lui, ampie trattazioni in opere di altri autori; per ovviare a questo difetto, adopera uno stile semplice e chiaro, che rimedia alla monotonia dello schema e alla trattazione sommaria di episodi selezionati. Più grave, invece, è la presenza di errori e di imprecisioni, che tradiscono un uso non sempre accurato delle fonti, talora frettolosamente consultate: emblematica è la confusione, nella Vita di Annibale, fra lo stratega ateniese e lo zio omonimo; d’altra parte lo scopo di Cornelio Nepote non era tanto quello di scrivere un trattato storiografico, quanto piuttosto quello di narrare la vita di alcuni personaggi celebri, privilegiandone il lato privato. Per quanto possiamo dedurre da quel poco che della sua opera ci è rimasto, egli non si proponeva affatto un serio approfondimento storico: anzi, dovevano essergli ben chiari i confini fra storiografia e biografia. Lo mette in chiaro, d’altronde, nell’esordio della Vita di Pelopida (1. 1):

Il tebano Pelopida è più noto agli studiosi di storia che non alla gran massa; e non saprei veramente con quale criterio debba parlare dei suoi meriti, perché temo che una narrazione particolareggiata sembri non un racconto della sua vita, ma una trattazione storica, e che invece una troppo concisa, riuscendo poco comprensibile a coloro che non hanno familiarità con la storia greca, sia insufficiente a far conoscere un uomo di tanto valore. Tuttavia, cercherò di evitare i due scogli per quanto mi è possibile, cercando un rimedio sia all’erudizione sia all’ignoranza dei lettori.

Di conseguenza, domina nei suoi scritti il gusto per la curiosità e per l’aneddoto, mentre il giudizio sui fatti e sui personaggi resta superficiale e resulta intriso di moralismo. Si è visto in lui un precursore del letterato di professione, preoccupato dell’aspetto stilistico e formale della sua opera e, di contro, lontano sia dalle vicende dello Stato, sia dai problemi della società in cui vive: non va dimenticato, però, che il genere biografico, così come da lui venne praticato, rispondeva a un preciso intento ideologico: celebrando col suo stile chiaro e privo d’impennate personaggi insigni del mondo antico e facendoli assurgere al ruolo di figure paradigmatiche, egli si sforzò di rendere popolare un’immagine elitaria del potere e di ribadire implicitamente che la storia è frutto di singole, straordinarie personalità.

Tra i condottieri greci assume un rilievo assoluto il modello ateniese, a tutto detrimento di quello spartano (si salva il solo Agesilao, mentre di Pausania sono messi in rilievo esclusivamente i vizi e di Lisandro la propensione alla tirannide); ma è significativo che, nelle trattazioni degli Ateniesi, vengano posti in risalto sia i valori più vicini al modello tradizionale romano (la fides, la constantia, l’amor patrio, l’attaccamento al proprio ruolo, lo scrupoloso impegno) sia quelli che ben definiscono l’humanitas del cittadino romano ideale. Se ne deduce, dunque, che egli si proponeva di riaffermare ai lettori romani un insieme di valori tradizionali e più recenti, servendosi dell’illustrazione delle doti umane dei grandi condottieri, non disgiunte da quei difetti che ne delimitavano, comunque, l’humanitas; diveniva irrilevante, in questa prospettiva, la completezza storica, mentre assumevano un’importanza decisiva pochi episodi caratterizzanti.

Nell’antitesi fra virtù e vizi, l’interesse preminente di Cornelio Nepote è rivolto alla caratterizzazione delle virtù dei personaggi: fra le doti elógiate spiccano la capacità di anteporre l’interesse comune al potere personale (Vita di Milziade, 3. 6), la lungimiranza (Vita di Agesilao, 5. 1-4), l’astuzia e l’abilità (Vita di Eumene, 5. 4-6; Vita di Datame, 9. 1), l’assennatezza e il senso di giustizia (Vita di Milziade, 2.1-3; Vita di Aristide, 1. 2), la disponibilità (Vita di Milziade, 8. 2-4), la generosità (Vita di Cimone, 4,1-4), il senso dell’onore (Vita di Cabria, 4). Trasibulo, in particolare, è un condensato di virtù (Vita di Trasibulo, 1.1-3):

Se la virtù deve essere valutata per se stessa e non dal successo –proclama Cornelio Nepote– crederei giusto dare a lui il primo posto. Questo poi è certo: non gli antepongo nessuno in lealtà, in fierezza, in grandezza d’animo e in amor patrio. Se molti vollero –e pochi poterono– liberare la patria da un tiranno, a lui riuscì addirittura di rivendicare dalla servitù a libertà la sua, oppressa da trenta tiranni. Non saprei quindi per quale ragione, dato che nessuno lo supera per tali meriti, molti lo abbiano superato in notorietà.

Non gli è da meno, però, Epaminonda, che alle doti fisiche aggiunge quelle morali (Vita di Epaminonda, 3. 1-2):

Era leale, prudente, serio, sapeva approfittare delle circostanze, buon conoscitore dell’arte militare, forte di mano e fortissimo di animo, così amante della sincerità, poi, che non mentiva mai, nemmeno per gioco. Era anche misurato, di carattere mirabilmente dolce e tollerante; sopportava le offese non solo dal popolo, ma anche dagli amici; custode scrupoloso di un segreto confidato, stava molto volentieri ad ascoltare gli altri, qualità non meno utile della facilità di parola, perché era d’avviso che è il miglior mezzo per imparare.

Non sorprende, poi, che assumano un rilievo particolare le doti di Attico: di lui vengono enfatizzati il modo d’esprimersi sia in greco sia in latino (Vita di Attico, 4.16), il disinteresse (9. 77), l’assistenza ai perseguitati (11. 1-28), il senso di gratitudine (11. 59), l’amore per la cultura (14. 110).

Un ruolo di gran lunga minore è occupato dai difetti: dalla superbia di Lisandro (Vita di Lisandro, 1. 3-4) e di Alcibiade (Vita di Alcibiade, 7. 3) alla vita dissoluta di Temistocle (Vita di Temistocle, 1. 1), di Pausania (Vita di Pausania, 1. 1), di Alcibiade (Vita di Alcibiade, 1. 4; 2. 2-3; 11. 4-5); di Agesilao, poi, sono impietosamente elencati i difetti fisici (Vita di Agesilao, 8. 1):

A quest’uomo così grande, la natura, come era stata larghissima dispensatrice di doti morali, così fu esosamente avara di quelle fisiche; erapiccolo di statura, striminzito di corpo, zoppo per di più; dal che gli veniva un aspetto alquanto deforme, e chi non lo conosceva, vedendone la figura esteriore, era portato a disprezzarlo, mentre chi conosceva i suoi meriti non poteva saziarsi di ammirarlo.

Nella costruzione delle biografie un compito importante spetta all’invidia nei confronti dei condottieri: sembra proprio che essi non riescano a scampare al rancore dei concittadini, timorosi dell’accrescersi del loro potere personale; dell’ invidia sono vittime Milziade e Temistocle, Aristide e Cimone, Alcibiade e Dione, Datame ed Epaminonda, Eumene e Annibale.

Tutto preso com’è dalla presentazione di personaggi esemplari per le loro virtù o per i loro vizi, il biografo accorda uno spazio minimo alla descrizione delle battaglie, che pure costituiscono un momento essenziale dell’attività dei condottieri (le uniche su cui egli si sofferma sono quelle di Maratona nella Vita di Milziade, 4. 2-5. 5, di Salamina nella Vita di Temistocle, 4. 5 e di Mantinea, nella Vita di Epaminonda, 9. 1); qua e là affiorano storie d’inganni (Vita di Lisandro, 4. 1-3), di odi familiari (Vita di Timoleonte, 1. 3-6), di esili (Vita di Temistocle, 8. 1 sgg.). Il gusto per la descrizione di morti violente, che sarà esasperato da Svetonio e dagli Scrittori della Storia Augusta, emerge solo in un paio di casi (Vita di Pausania, 5. 1-5; Vita di Alcibiade, 10. 2-6); ma non ottiene uno spazio maggiore neanche la descrizione di morti eroiche, se si eccettua quella di Epaminonda (Vita di Epaminonda, 9. 3-4):

Conscio che la ferita ricevuta era mortale e che la fine avrebbe tenuto dietro immediatamente all’estrazione della punta dell’arma che, staccatasi dall’asta, gli era rimasta confitta nella carne, fece in modo di tenervela dentro finché non gli fu annunziata la vittoria dei Beoti. Allora soltanto: “Ho vissuto abbastanza”, disse, “perché muoio senza una sola sconfitta”.

L’identico procedimento è seguito nel caso di nobili decessi: fa eccezione, e ciò non sorprende, l’ampia descrizione degli ultimi giorni di Attico (Vita di Attico, 21. 4-22. 3):

Sentendo di giorno in giorno acutizzarsi i dolori cui si era aggiunta la febbre, fece chiamare il genero Agrippa e con lui Cornelio Balbo e Sesto Peduceo. Quando se li vide vicini, si appoggiò sul gomito e disse: “Avete veduto con i vostri occhi con quante e quanto diligenti cure io abbia cercato in questi tempi di difendere la mia salute: non è necessario che io ve lo faccia notare con chiacchiere. Poiché dunque ho piena coscienza di non aver tralasciato nessun mezzo che potesse guarirmi, non rimane altro se non che io provveda a me stesso. Non voglio tenervelo nascosto: ho deciso di non alimentare più oltre la mia malattia: il poco cibo preso in questi giorni ha servito a prolungarmi la vita per farmi soffrire di più, senza darmi speranza di guarigione. Vi chiedo quindi prima di tutto di approvare la mia decisione, poi di rinunziare ad ogni inutile tentativo di impedirla”. Pronunziò tali parole con voce e con viso tanto tranquilli che pareva non già sul punto di uscir di vita, ma di passare da una casa ad un’altra. E per quanto Agrippa tra le lagrime e i baci andasse pregandolo e scongiurandolo di non anticipare volontariamente quello a cui la legge della natura lo avrebbe obbligato, dicendo anche che quella crisi poteva essere superata, che si conservasse per sé e per i suoi, Attico fece cessare ogni preghiera chiudendosi in un silenzio ostinato. Dopo due giorni di digiuno completo, la febbre cadde di colpo e cominciò un leggero miglioramento. Egli tuttavia non recedette punto dal suo proposito; e così quattro giorni dopo il principio del digiuno, il 31 marzo dell’anno consolare di Cneo Domizio e Caio Sosio, si spense.

Al modo di procedere moralistico ben si adatta il gusto della massima e della sentenza ad effetto: nella Vita di Trasibulo (1. 4) si sostiene che “la gloria delle imprese militari, i capi la dividono con i soldati e con la fortuna, perché nel corso del combattimento l’iniziativa passa dal piano strategico al numero e all’impegno dei combattenti. A ragione perciò il soldato rivendica dal comandante la sua parte, ma la fortuna se ne rivendica una anche maggiore e può vantarsi di avervi contribuito più di ogni altro”. Più sotto si legge (4. 2) che “succede spesso che le ricompense modeste siano durature, mentre quelle considerevoli non lo sono affatto”; nella Vita di Dione (9. 5) si mette in risalto quanto sia odiosa ogni forma di dispotismo e quanto siano da commiserare coloro che antepongono l’essere temuti all’essere amati. A proposito di Cabria, la cui vita da gran signore era oggetto delle malevole chiacchiere della gente, si sentenzia (Vita di Cabria, 3. 2-3) che è “triste sorte comune alle città grandi e libere, codesta, che l’invidia s’ accompagni alla gloria e si sparli con piacere di coloro che si elevano alquanto sopra il livello comune, e che i poveri guardino con occhio malevolo la ricchezza degli altri”. Nella Vita di Datame (5. 4) il bersaglio è costituito dal modo d’agire dei re, che “di ciò che va male danno la colpa agli altri; i successi li ascrivono alla loro buona stella: di conseguenza, si lasciano facilmente indurre a rovinare i capi di un’impresa di cui venga loro annunziata la cattiva riuscita11”.

3. Tacito biografo

La carriera di Tacito fu abbastanza rapida, considerato che non poteva esibire nobili natali. A quanto pare era originario della Gallia, dove sarebbe nato verso il 56-57 d.C.: il padre va probabilmente identificato con un Cornelio Tacito, agente finanziario del governo della Gallia Belgica, che apparteneva al ceto, allora emergente, dei burocrati. Tacito, però, riuscì a trovare un illustre patrono nel suocero, Gneo Giulio Agricola, che era stato console e successivamente governatore della Britannia, dove aveva avuto modo di condurre fortunate campagne militari. Neppure Agricola apparteneva alla nobiltà di sangue: il padre era stato pretore e aveva esercitato l’avvocatura sotto Caligola, dal quale era stato condannato a morte: rappresentava, dunque, il tipico esempio del provinciale, che aveva percorso una splendida carriera nell’esercito, nelle province, nelle magistrature e aveva goduto del favore dei principi. Tuttavia, nonostante le doti personali e le benemerenze accumulate, Agricola era stato emarginato da Domiziano, anche se era riuscito ad aver salva la vita. Gli ultimi anni di vita appartata e, poi, la morte del suocero danneggiarono la carriera di Tacito, come dimostra il fatto che solo sotto Nerva, nel 97 d.C., egli poté raggiungere il consolato. Non stupisce, quindi, che dopo la morte di Domiziano egli abbia sentito la necessità di scrivere la biografia di Agricola, che è al tempo stesso l’elogio del suocero defunto e l’atto d’accusa nei confronti del dispotico tiranno12.

Scritta agli inizi del principato di Traiano, la biografia di Agricola si apre con l’omaggio al nuovo regime, che ha inaugurato un beatissimum saeculum, perché Nerva ha saputo unire “due cose da gran tempo inconciliabili, il principato e la libertà” e Traiano accresce giorno dopo giorno la felicitas temporum (3. 1). Tacito, però, non ha una visione pienamente ottimistica della nuova era, perché ritiene difficile che anche un regime giusto e capace d’instaurare un’atmosfera di fiducia riesca a far dimenticare gli orrori dell’epoca passata. Nello stesso capitolo in cui tesse l’elogio del nuovo imperatore, Tacito ricorda anche gli anni temibili del principato di Domiziano (3. 2):

Se in quindici anni, che è lungo spazio di vita mortale, molti scomparvero per cause accidentali, e tutti i più coraggiosi morirono per la crudeltà del principe, non è vero che in pochi siamo sopravvissuti, per così dire, non solo agli altri, ma anche a noi stessi, poiché dal corso della nostra vita dobbiamo cancellare tanti anni, durante i quali, nel silenzio, giovani toccammo le soglie della vecchiezza, e vecchi giungemmo quasi ai termini ultimi dell’esistenza?

Nel ricostruire la carriera e la personalità del suocero, un uomo eminente che si trovò a vivere in un’epoca così travagliata, Tacito si propone non solo e non tanto di attestare la restaurata libertà, quanto piuttosto di rievocare la servitù passata, perché tempi così crudeli non abbiano a tornare. Lo schema è quello tipico delle biografie, che accordano uno spazio obbligato alle notizie relative alle origini, all’educazione, agli inizi della carriera e alla personalità del protagonista. Un’ampia sezione è dedicata al governatorato in Britannia, in modo tale che vengano messe nell’opportuno rilievo le campagne militari e le vittorie di Agricola. Tacito sostiene il principio che proprio tali vittorie resero inviso il suocero a un personaggio sospettoso come Domiziano, anche se Agricola riuscì a superare indenne i terribili rischi legati all’invidia del principe: pur avendo diritto al trionfo, fece ritorno a Roma senza alcuno sfarzo: ritiratosi a vita privata, diede prova di tale modestia e moderazione da non offrire mai al principe il minimo appiglio per accusarlo. La morte, intorno alla quale Tacito fa aleggiare il sospetto dell’avvelenamento, gli risparmiò il dolore di assistere ai crimini peggiori di Domiziano.

L’intera biografia tacitiana ha un carattere encomiastico: essa è un inno di lode ad Agricola tanto per le sue virtù quanto, soprattutto, per la moderazione di cui seppe dar prova in tempi molto difficili. Secondo Tacito di fronte a un tale atteggiamento l’imperatore, pur essendo per natura incline all’ira e tanto più implacabile quanto più sapeva dissimularla, rimase sorpreso e disarmato di fronte alla moderazione e alla prudenza di Agricola, che non cercava con ostinazione o con spavalderia la fama e la morte (42. 5). Tacito ne ricava un precetto di alto valore morale (42. 6):

Sappiano coloro che son soliti ammirare gli atti di illegalità, che anche sotto cattivi principi vi possono essere uomini grandi e che, con l’obbedienza e un giusto equilibrio accompagnati da un’energica attività, si può giungere a toccare quella fama, per la quale divennero celebri molti che, attraverso vie aspre e scoscese, cercarono una morte sensazionale, senza alcun vantaggio per la cosa pubblica.

Molte obiezioni sono state formulate dalla critica nei confronti del ritratto encomiastico di Agricola, grazie al quale Tacito ha fatto del suocero una vittima del regime di Domiziano. Si è notato che, in realtà, sotto i Flavi il suocero dello storico aveva percorso una brillantissima carriera e che essa non si era affatto interrotta al tempo di Domiziano: anzi, l’ultimo dei Flavi lo aveva onorato riconoscendo i suoi meriti nelle campagne contro i Britanni. Si accusa, dunque, Tacito, di aver falsato la realtà dei fatti: una prova della sua tendenziosità risiederebbe proprio nella presentazione degli ultimi anni di vita del suocero, il quale non fu toccato dalle feroci persecuzioni che, invece, infierirono sui rappresentanti dell’aristocrazia: anche il sospetto di avvelenamento si rivelerebbe del tutto gratuito, perché con ogni probabilità Agricola morì dì morte naturale.

È logico chiedersi perché mai Tacito abbia voluto fare del suocero la figura paradigmatica dell’uomo virtuoso, che sa conservare la propria dignitas anche sotto il tiranno, e con quale fine ne abbia composto la biografìa. La maggior parte della critica ritiene che essa abbia uno scopo politico e lo ravvisa nell’esaltazione di un tipo di condotta, improntato a moderazione, che consentiva all’aristocratico di conservare la propria dignità senza mettere necesariamente a repentaglio la propria vita. Infatti il quietismo di Agricola chiarisce il punto di vista di Tacito: la lotta contro il principato non ha alcuna prospettiva di successo; perciò, piuttosto che imitare il modello dello stoico che si oppone a tutti i costi al regime autoritario, appare più saggio adattarsi a un realistico ideale di condotta. D’altra parte anche nelle opere storiche della maturità, quando si modificò profondamente il punto di vista di Tacito sull’opposizione agli imperatori, è facile verificare il suo consenso nei confronti di figure che, in qualche modo, richiamano quella di Agricola: è questo il caso del console Marco Lepido, che morì vecchissimo dopo essere passato indenne attraverso il principato di Tiberio senza compromettere la propria rispettabilità e senza macchiarsi di servilismo. D’altronde nell’anno del consolato di Tacito l’unico suo atto degno di nota fu l’orazione che egli tenne in memoria di Virginio Rufo, un personaggio di notevole importanza sulla scena politica di quegli anni, la cui figura ricorda per molti aspetti quella di Agricola: governatore della Germania superiore al tempo di Nerone, Virginio Rufo debellò la rivolta di Giulio Vindice e, con un atteggiamento improntato a suprema lealtà nei confronti dello Stato, quando le sue milizie lo proclamarono imperatore rinunciò al titolo. Dopo aver attraversato indenne il periodo dell’anarchia militare e quello dei Flavi, egli morì, console per la terza volta, sotto il breve principato di Nerva: anch’egli, dunque, a giudizio di Tacito, fu capace di conciliare la lealtà nei confronti del potere imperiale con la salvaguardia della dignitas e con una condotta di vita irreprensibile.

Non deve destare stupore il fatto che sia stato questo l’ideale di Tacito agli inizi della sua attività, perché egli stesso, come il suocero, aveva goduto del favore dei Flavi, che lo avevano ammesso all’ordine senatorio, e la sua carriera non era stata eccessivamente danneggiata dalle persecuzioni di Domiziano. Non sono mancati studiosi, anzi, i quali hanno avanzato l’ipotesi che l’Agricola abbia avuto il fine di stornare dalla figura del suocero l’accusa di aver collaborato col passato regime. È certo, in ogni caso, che Tacito non fu un perseguitato, come tanti aristocratici del tempo, ma piuttosto un rappresentante della nuova nobiltà, di estrazione provinciale, che seppe raggiungere un posto di prestigio anche sotto gli imperatori meno liberali. Come afferma Ronald Syme nella sua monumentale monografia su Tacito, “i Cesari avevano bisogno di servitori leali e capaci, sia in patria che all’estero. I provinciali erano accorti e solerti. Non si lasciavano influenzare né da rancori né da idealismi [...]. L’epoca dei grandi uomini e delle splendide virtù era ormai tramontata. Per avere successo o anche solo per sopravvivere, erano indispensabili modestia e discrezione; mentre la quies, un tempo caratteristica del cavaliere romano, divenne ora un segno di distinzione dei senatori. La stessa libertas, la più preziosa virtù dei nobili, dovette ritirarsi e cedere il passo all’obsequium”13.

4. Il De vita Caesarum di Svetonio.

Quando Gaio Svetonio Tranquillo scrisse il De vita Caesarum14 erano trascorsi almeno 150 anni dall’epoca di redazione dell’opera di Cornelio Nepote: un secolo e mezzo denso di storia, che aveva visto la fine della repubblica e la nascita dell’impero; il nuovo regime si era ormai definitivamente consolidato, nonostante la sanguinosa fine della dinastia giulio-claudia e di quella flavia, e sembrava avviarsi verso un periodo di maggiore tranquillità e prosperità con Traiano e con gli Antonini. Naturalmente Svetonio non si azzarda a toccare nella sua opera biografica la storia più recente, ma si arresta prudentemente alla fine della dinastia flavia: il De vita Caesarum comprende, quindi, le biografie dei detentori del sommo potere da Cesare sino a Domiziano. Che fra i 12 imperatori sia incluso anche Giulio Cesare è significativo ed è indizio di sano realismo: capiamo, infatti, che per Svetonio contava l’accentramento del potere nelle mani di un’unica persona; d’altronde Augusto si ricollegava a Cesare per via dinástica e Cesare poteva essere legittimamente definito il capostipite della prima familia imperiale. Dopo la biografia di Cesare vengono quelle di Augusto, Tiberio, Caligola, Claudio, Nerone, Galba, Otone, Vitellio, Vespasiano, Tito, Domiziano: l’opera è divisa in 8 libri, in quanto i sei rappresentanti della dinastia giulio-claudia hanno diritto ciascuno ad un libro, mentre uno raggruppa i tre imperatori del 69 d.C. (Galba, Otone, Vitellio) e uno i tre Flavi.

Le singole biografie seguono uno schema fisso: dapprima vengono fomite le notizie relative alla famiglia dell’imperatore e alle vicende anteriori alla sua assunzione al sommo potere. Il periodo di regno di ciascun imperatore non è analizzato sulla base di un’esposizione cronologica dei fatti più salienti, ma secondo la suddivisione degli avvenimenti per categorie: le virtù e i meriti precedono i vitia e la biografia si conclude con la descrizione della morte, del funerale e dell’apoteosi dell’imperatore. Questo procedere per species, cioè per categorie, era programmatico: lo chiarisce Svetonio stesso nella Vita di Augusto (9. 1), quando preannunzia che, dopo averne dato il sommario della vita, ne svilupperà le singole fasi non in ordine cronologico ma per categorie, col fine di renderla maggiormente comprensibile. Nello sviluppo complessivo di ogni biografia la parte relativa all’analisi della personalità dell’imperatore e delle caratteristiche del suo regno assume uno sviluppo di gran lunga maggiore di quella riservata ai dettagli biografici (per non fare che un esempio, la Vita di Augusto dedica solo 8 dei suoi 101 capitoli alla rassegna in ordine cronologico delle notizie della sua vita). Tuttavia non sempre lo schema è applicato in modo rigoroso, per il semplice fatto che non tutti gli imperatori possono avere l’identico rilievo: è questo il caso di Galba, Otone, Vitellio, le cui scialbe figure consentono solo una presentazione in ordine cronologico delle varie fasi della vita, o –al contrario– di Tito, l’imperatore prediletto da Svetonio, il quale ne elenca i pochi vizi nella sezione che precede la sua ascesa al trono e, successivamente, fa di lui l’esempio dell’imperatore ideale.

Centrale, e non potrebbe essere altrimenti, è la figura dell’imperatore, che viene tratteggiata grazie al ricorso non solo a vicende storicamente importanti, ma anche a fatterelli irrilevanti e a veri e propri pettegolezzi. L’assenza di un quadro rigorosamente cronologico è la causa principale delle non poche ripetizioni: non è raro, infatti, che uno stesso fatto venga raccontato due volte per illustrare atteggiamenti diversi dell’identico imperatore; il caso emblematico è quello dell’impresa di Cesare in Britannia, di cui si parla due volte nella sua biografia: una prima volta a proposito delle sue guerre di conquista, una seconda quando il biografo si sofferma sulla sua passione per il lusso e per gli oggetti preziosi (per di più in questa occasione si viene a sapere che, secondo molti, Cesare avrebbe invaso la Britannia nella speranza di trovarvi una grande quantità di perle). Le incongruenze tendono ad accrescersi nelle biografie di imperatori sciagurati e destinati a una tragica fine: in esse è evidente la tendenza a distinguere fra una prima parte della vita, caratterizzata da un comportamento onesto o non del tutto biasimevole, e una seconda in cui emerge ogni specie di nefandezze.

Le singole biografie si sviluppano su un terreno di assoluta autonomia, tanto che fatti relativi a più d’una di esse vengono sistematicamente ripetuti: è questo il caso, ad esempio, delle imprese militari di Augusto, che in diverse circostanze furono condotte da Tiberio quale rappresentante del potere imperiale: ebbene, le ritroviamo sistematicamente descritte sia nella Vita di Augusto sia nella Vita di Tiberio. Ciò fa capire che Svetonio si muove nel totale disinteresse del metodo degli storici: né questo modo di procedere sorprende, perché la sua voleva essere un’opera biografica, non storiografica. Di conseguenza egli riprende e sviluppa le stesse linee di tendenza presenti nell’opera di Cornelio Nepote: guerre e congiure, che nell’epoca analizzata avevano avuto uno sviluppo non irrilevante, passano decisamente in secondo piano, mentre a interessare l’occhio indiscreto del biografo sono particolari secondari e curiosi, che servono tuttavia a definire in modo migliore il carattere e la psicologia dei personaggi al centro della narrazione. Acquistano, quindi, assoluto rilievo vizi e virtù, manie e depravazioni, passione per gli spettacoli e rapporto non sempre facile con la plebe e con gli eserciti, tutto ciò insomma che dovrebbe fornire il quadro umano, piuttosto che lo spessore politico, di ogni imperatore.

Una caratteristica dell’opera svetoniana è costituita dalla limitazione della narrazione alle vicende interne della corte. Mentre in Tacito è possibile intravedere, sullo sfondo di feroci lotte intestine, movimenti più vasti come quelli degli eserciti, in Svetonio il giuoco appare chiaramente ristretto all’oligarchia dirigente, che viveva a Roma a stretto contatto con l’autocrate: il racconto per categorie induce, dunque, il biografo a privilegiare il ruolo degli aneddoti, nei quali emergono in modo migliore i vizi e i meriti del principe, e a limitare l’indagine a lui e ai personaggi che lo circondano. Il gusto dell’aneddoto, che quasi sempre si accompagna alla definizione di abitudini stravaganti o addirittura di depravazioni sessuali, serve a tener desta l’attenzione di lettori non particolarmente esigenti e ci fa capire come si sia ampliato, anche in conseguenza della più diffusa alfabetizzazione dopo la creazione di scuole pubbliche, il panorama dei fruitori delle opere letterarie. È questo un dato che ha un’importanza sostanziale per capire i contenuti dell’opera biografica di Svetonio e, poi, degli Scrittori della Storia Augusta.

Al campo dell’aneddotico appartiene la puntuale registrazione della iella che accompagnò alcuni imperatori sino a farne a loro volta degli iettatori, delle loro stranezze e del loro carattere superstizioso, degli scherzi che architettarono e subirono, delle figuracce pubbliche. È difficile trovare un imperatore più iellato di Tiberio, che perse entrambi i figli maschi, Germanico in Siria e Druso in Roma: tanta sfortuna lo trasformò in un grande iettatore, a stare al racconto del biografo. Sconvolto dalle sventure, Tiberio decide, infatti, di lasciare Roma per sempre e si mette in viaggio per la Campania: non fa a tempo, però, a fermarsi a Terracina per pranzare in un casino di campagna (detto La Grotta, annota Svetonio), che enormi macigni precipitano dall’alto sulla comitiva imperiale, travolgendo e uccidendo commensali e servi. Tiberio rimette insieme i resti del suo seguito e riesce a giungere all’amata Capri; ma è costretto a ritornare sui suoi passi perché nel frattempo a Fidene, durante uno spettacolo gladiatorio, è crollato l’anfiteatro e sono morte più di 20.000 persone (Vita di Tiberio, 39-40). Ma la palma dello iettatore spetta senz’altro al saggio Tito, durante il cui impero ebbe luogo l’eruzione del Vesuvio, funesta per tutto il territorio circostante, e per di più, Roma fu devastata da un furioso incendio per tre giorni e per tre notti, prima, da una pestilenza terribile, poi (Vita di Tito 8).

Infinito è il capitolo delle stranezze e delle stravaganze imperiali, per cui ci si deve limitare a un campionario: Cesare monta un cavallo eccezionale, con piedi quasi umani e con unghie simili a quelle delle dita umane; è un cavallo che ha allevato con grande cura, da quando gli aruspici gli hanno pronosticato che esso annunzia al suo padrone l’impero sul mondo (Vita di Cesare, 61). Di Augusto viene ricordato l’eccessivo scrupolo superstizioso: timoroso dei tuoni e dei fulmini, si premunisce usando come amuleto una pelle di vitello marino; crede ai sogni suoi e degli altri e sogna soprattutto in primavera: proprio in seguito a una notturna premonizione, ogni anno in un giorno ben preciso era solito mendicare in pubblico e porgere il cavo della mano a chi gli offriva denaro (Vita di Augusto, 90-91). Tiberio, per dare esempio di parsimonia, nei conviti solenni fa imbandire vivande del giorno prima consumate a metà, sostenendo che la metà ha lo stesso sapore dell’intero; per di più vieta con un editto che le persone si bacino quotidianamente e che si scambino regali alle calende di gennaio (Vita di Tiberio, 34). A Caligola lo accomuna la paura dei tuoni e dei temporali: basta che il cielo si oscuri, perché Tiberio metta subito la corona d’alloro, convinto com’è che l’alloro non venga mai colpito dalla folgore (Vita di Tiberio, 69). Caligola, per parte sua, ai minimi accenni di tuoni e di lampi si copre il capo e se il temporale aumenta d’intensità corre a nascondersi sotto il letto (Vita di Caligola, 51). Imperatore stravagante e pazzoide, colloquia abitualmente con i simulacri degli dei (Vita di Caligola, 22), ha un rapporto a dir poco singolare coi senatori e con gli alti dignitari di corte e un’altrettanto singolare concezione della dignità imperiale: costringe alcuni che hanno tenuto le più alte cariche a correre dietro al suo cocchio per parecchie miglia (ibid. 26), schiera i soldati sulle rive dell’Oceano e li invita a raccogliere conchiglie riempiendo gli elmi e le vesti (ibid. 46), s’improvvisa gladiatore, auriga, ballerino e cantore: convoca nel cuore della notte tre ex-consoli e li colloca, atterriti, sopra un palco; mentre i tre pensano a una fine imminente, Caligola balza fuori con grande strepito di accompagnamento musicale e, dopo aver cantato e danzato, rápidamente scompare (ibid. 54). Durante gli spettacoli, poi, Caligola non ammetteva il minimo rumore: una volta che un cavaliere si azzardò a far baccano, lo spedì in Mauritania dal re Tolomeo con una lettera in cui gli si diceva di non fare nulla né di bene né di male al portatore (ibid. 55). Ben nota, poi, è la predilezione per il suo cavallo adorato, di cui non vuole che sia turbato il sonno dal vociare dei cittadini; gli ha fatto costruire una stalla di marmo e una mangiatoia d’avorio e l’ha fornito di coperte di porpora, di monili e di gemme; non contento di ciò, gli ha pure costruito una casa con servi e suppellettili varie e medita di assegnargli il consolato (ibid. 55). Claudio emana un editto in cui avverte che contro il morso di una vipera non c’è nulla di più efficace del succo che si estrae dal tasso (Vita di Claudio, 16) e invita al convito e al giuoco dei dadi molti di coloro che, in realtà, ha messo a morte il giorno prima (ibid. 39). Quando Nerone si esibisce in teatro, nessuno può alzarsi e uscire, neanche per imperiose necessità: sicché non poche donne sono costrette a partorire fra gli spettatori (Vita di Nerone, 23); al tramonto, poi, Nerone si traveste e prende a scorrazzare allegramente per strade e taverne, percuotendo i passanti, gettandoli nelle cloache e divertendosi a scassinare bottegucce (ibid. 26). Non diversamente si comportava in gioventù il futuro imperatore Otone, che nei suoi vagabondaggi notturni si divertiva a dare la caccia agli ubriachi per lanciarli in alto sopra il suo mantello disteso (Vita di Otone, 2). Domiziano nei primi tempi del suo impero trascorre le giornate acchiappando mosche e infilzandole con uno stilo acutissimo: sicché Vibio Prisco, interrogato da un tale se ci sia qualcuno con l’imperatore, può legittimamente rispondergli: “Neppure una mosca” (Vita di Domiziano, 3).

A stare a Svetonio, gli imperatori amano gli scherzi ed hanno senso dell’umorismo. Tiberio si era recato a Rodi per ascoltare il grammatico Diogene, che vi teneva lezione ogni sabato; ma non era stato ricevuto e lo si era rinviato alla settimana successiva per bocca di uno schiavetto: quando, però, Diogene si presentò a sua volta a Roma per ossequiarlo, Tiberio gli disse di ritornare sette anni dopo (Vita di Tiberio, 22). Ma anche un imperatore non sfugge agli scherzi salaci dei sudditi: amante com’era del vino, invece di Tiberio Claudio Nerone il successore d’Augusto era chiamato Biberio Caldio Merone (ibid. 42). Prima d’impazzire del tutto, Caligola era un bel mattacchione: una volta organizzò a Siracusa una gara di eloquenza, in cui i vinti furono costretti a consegnare i premi ai vincitori e a tesserne l’elogio; per di più gli autori della prova peggiore furono obbligati a cancellare i loro scritti con la spugna e con la lingua, per evitare d’esser battuti o gettati nel fiume (Vita di Caligola, 20). Claudio, che passava per scemo e forse un po’ lo era, fu oggetto di scherzi atroci prima di diventare imperatore: se giungeva a cena in ritardo, prima di accoglierlo nel triclinio gli facevano fare ampi giri; quando, poi, si addormentava dopo il pasto i commensali prendevano a bersagliarlo con noccioli di olive e di datteri; mentre russava, gli mettevano i calzari alle mani, in modo che svegliandosi all’improvviso si stropicciasse gli occhi e la faccia con essi (Vita di Claudio, 8). Vespasiano venne rimproverato dal figlio Tito perché aveva messo un balzello anche sull’orina; per tutta risposta gli mise sotto il naso i denari riscossi dal primo pagamento e gli chiese se per caso puzzassero d’orina (Vita di Vespasiano, 23).

Un imperatore non è esente da figuracce: dell’adolescenza dì Claudio si ricorda che si diede a scrivere un’opera storica: quando, poi, si decise a leggerla a un folto uditorio, alcuni banchi si ruppero per l’obesità di uno degli ascoltatori e l’incidente suscitò grandi risate; Claudio diede inizio alla lettura, ma fu costretto a interromperla più volte perché, ripensando all’incidente, non riusciva a trattenersi dal ridere (Vita di Claudio, 41). Ma potevano capitare anche incidenti sulla scena, come quello di cui fu vittima Nerone: quando decise di recitare nella parte di Ercole furioso, un soldato che lo vide in catene accorse in suo aiuto all’inizio della tragedia (Vita di Nerone, 21).

Svetonio non si limita ad accordar credito alle dicerie di ogni tipo, anche quando esse appaiono manifestamente improbabili: nelle sue biografie hanno un notevole spazio gli eventi soprannaturali, i prodigi, i sogni premonitori. Come vedremo in seguito, l’ascesa al trono e la morte di un imperatore sono sempre precedute da una serie di presagi; ma veri e propri prodigi possono accompagnare la morte di chi detiene il sommo potere: è questo il caso della cometa che risplendette in cielo per sette giorni dopo l’uccisione dì Cesare e fu creduta la sua anima accolta in cielo (Vita di Cesare, 88). Di Augusto si mostrava ancora, al tempo di Svetonio, il luogo presso Velletri dove era stato allevato; era impossibile, però, entrarvi, perché una forza misteriosa l’impediva: tentò di farlo il nuovo proprietario del luogo, ma quando cercò di dormirvi venne scaraventato fuori insieme col letto e restò esanime al suolo (Vita di Augusto, 6). Augusto credeva ciecamente ai presagi e agli auspici: se la mattina sbagliava a infilarsi i calzari, lo prendeva per un segno di malaugurio; se invece cadeva la rugiada prima che si accingesse a un viaggio, lo considerava un lieto presagio di un felice ritorno; ma non si sarebbe mai messo in viaggio il giorno dopo quelli di mercato e non avrebbe dato inizio a nulla d’importante nelle None di un mese (ibid. 92).

Lo schema fisso seguito in ogni biografia presenta episodi dell’infanzia dei singoli imperatori, descrive la loro giornata tipica dopo l’ascesa al sommo potere, si sofferma sulle doti principali e sui loro meriti di governo, sottolinea la loro passione per gli spettacoli e per le pratiche sportive e la propensione per le lettere, senza trascurare, tuttavia, l’aspetto fisico e il modo di comportarsi a tavola. Naturalmente la narrazione si anima grazie al racconto di aneddoti e al ricordo di particolari curiosi, che possono accendere la fantasia dei lettori: l’infanzia e la puerizia di Tiberio, ad esempio, vengono caratterizzate come molto travagliate; il neonato Tiberio segue i genitori nelle loro fughe continue e rischia di tradirli con i loro vagiti: per colmo di sfortuna, infatti, i momenti critici sopraggiungono proprio quando sta suggendo il latte materno o quella della nutrice, ed è ovvio che il futuro imperatore non gradisca troppo l’improvvisa, brusca separazione dal seno che lo allatta; viene affidato ai Lacedemoni, che sono sotto il patrocinio dei Claudii, e sfortunato com’è rischia di perire nell’incendio dei boschi circostanti. A nove anni tesse dai Rostri l’elogio del padre defunto; ancor giovanetto accompagna Augusto nel trionfo aziaco. Dopo queste notizie si passa rapidamente al periodo della giovinezza e all’ascesa al principato (Vita di Tiberio, 6). Claudio, ben noto per la salute malferma e per la non proprio brillante intelligenza, sin dall’infanzia mostra i futuri difetti. Già da bambino è perseguitato da varie e tenaci malattie, tanto che non viene ritenuto atto ad alcun ufficio pubblico o privato. Invano cerca di riscattarsi coltivando le discipline liberali, perché la sua più convinta diffamatrice è proprio la madre Antonia, che lo definisce un mostro d’uomo, soltanto abbozzato dalla Natura, e sostiene che non esiste persona più idiota del figlio; la nonna non gli rivolge la parola e comunica con lui per mezzo di terzi; la sorella Livilla, quando sente dire che forse Claudio un giorno diverrà imperatore, dà in escandescenze e compiange la sorte del popolo romano; saggiamente Augusto si preoccupa di attenuare le critiche, ma nella corrispondenza epistolare coi familiari li invita a non esporre troppo Claudio agli sguardi del pubblico e compiange quel ‘povero ragazzo’ (Vita di Claudio, 2-4). Più rapida, anzi velocissima, è la descrizione del periodo infantile degli imperatori dell’anno 69: della fanciullezza di Galba si sa solo che, quando egli salutò Augusto insieme ad alcuni coetanei, l’imperatore lo prese per il ganascino e gli disse bonariamente, ma con animo presago del futuro: ”Anche tu, figliuolo, assaggerai il nostro impero” (Vita di Galba, 4); di Otone ci si limita a dire che fin dalla prima adolescenza fu prodigo e sfrontato, sì che spesso il padre lo picchiò (Vita di Otone, 2); di Vitellio si legge che trascorse la prima adolescenza a Capri, fra i giovanetti debosciati di cui si circondava Tiberio per soddisfare la propia libidine, e fece carriera concedendo con generosità il proprio corpo (Vita di Vitellio, 4).

La giornata di Augusto è descritta con abbondanza di dettagli, prendendo lo spunto dalla sua morigeratezza nel mangiare e nel bere: dopo il pasto meridiano Augusto era solito riposare un poco, con le gambe scoperte e una mano sugli occhi. Poi si ritirava sulla sua lettiga da lavoro e lì rimaneva sino a notte inoltrata, attendendo al lavoro programmato per la giornata. Di lì passava a letto, ma non dormiva mai più di sette ore; si destava sempre tre o quattro volte e, se non gli riusciva di riaddormentarsi, faceva venire lettori che lo intrattenessero sin oltre l’alba; poi era pronto per i pubblici uffici: tuttavia, bisognoso com’era di sonno, dormiva mentre era trasportato lungo le vie di Roma o quando la lettiga era costretta a sostare un po’ (Vita di Augusto, 78). Ben diversa era la giornata di Vespasiano: di solito si svegliava molto presto e, letta la corrispondenza e i rapporti di vario tipo, ammetteva gli amici alla salutatio mentre si vestiva; sbrigati gli affari andava a passeggio in lettiga e poi riposava insieme a una delle sue concubine; quindi passava nel bagno e nel triclinio, l’ambiente da lui preferito; terminata la cena era di grande compagnia e amava gli scherzi e i motteggi (Vita di Vespasiano, 21).

Nella rappresentazione svetoniana gli imperatori non brillano per preclare virtù, fatta eccezione per Augusto e per Tito. Di Cesare si mette in luce il ricercato atteggiamento di grande clemenza dopo la vittoria su Pompeo (Vita di Cesare, 75). Ma la clemenza è una dote che anche Angusto possiede: anzi, per Svetonio c’è l’imbarazzo della scelta e non è possibile citare i tanti nemici perdonati e graziati; a stare a lui, Augusto si sarebbe limitato a punire con una multa in denaro solo Giunio Novato e con un breve esilio solo Cassio Patavino (Vita di Augusto, 51): peccato che egli dimentichi il più lungo e definitivo esilio di Ovidio!

Oltre ad essere clemente, Augusto era anche parsimonioso e modesto nel modo di vivere: le sue masserizie e suppellettili erano a mala pena allo stesso livello di quelle dei privati cittadini; il letto, poi, doveva essere basso e non troppo soffice. Vestiva abiti fatti in casa, dalla moglie o dalla sorella o dalla figlia o dalle nipoti, e non amava le toghe vistose per i loro fregi (Vita di Augusto, 73). Tiberio era a tal punto avverso alle adulazioni che, se qualcuno parlava bene dilui, lo interrompeva e lo rimproverava; quando un tale si permise di chiamarlo dominus, lo ammonì a non dargli più un titolo tanto oltraggioso (Vita di Tiberio, 27). Di Vespasiano vengono elogiate la propensione a dimenticare le offese ricevute e la mitezza nel punire (Vita di Vespasiano, 14-15); di Tito, “amore e delizia del genere umano”, la capacità di conciliarsi l’affetto di tutti (Vita di Tito, 1). Ma le doti di Tito rifulgevano già nella sua fanciullezza: di fisico gagliardo e di singolare memoria, mostrava straordinaria attitudine ad apprendere quasi tutte la arti di guerra e di pace; abilissimo nelle armi e nell’equitazione, sapeva anche improvvisare versi latini e greci e cantava e suonava con grande perizia. Per di più era un ottimo stenografo e sapeva imitare qualsiasi grafia, al punto che spesso confessava che sarebbe potuto divenire un grande falsario (Vita di Tito, 3).

Costretto com’è a mantenere a tutti i costi un generale consenso, l’imperatore sa bene che le elargizioni sono l’arma migliore per accattivarsi la plebe e i ceti subalterni. Augusto, per parte sua, accortamente non fa differenze di classe e cerca di favorire tutti: dopo il trionfo aziaco il bottino produce una tale abbondanza di moneta circolante che l’usura segna il passo e lievitano i prezzi dei terreni; Augusto incrementa il censo dei senatori, da 800.000 a 1.200.000 sesterzi, ma si preoccupa di elargire al popolo frequenti donazioni, ora di 250, ora di 300, ora di 400 sesterzi a testa; nei tempi di penuria distribuisce il grano a tutti, ora a bassissimo prezzo ora gratuitamente, e raddoppia le tessere annonarie (Vita di Augusto, 41). Tiberio di ritorno dalla Germania elargisce al popolo un banchetto di mille mense e un donativo di 300 sesterzi a testa (Vita di Tiberio, 20). Domiziano distribuisce tre volte alla popolazione un donativo di 300 sesterzi a testa e un lautissimo pasto nel corso degli spettacoli dei gladiatori; nella festa del Settimonzio, poi, offre ai senatori e ai cavalieri ceste, alla plebe sporte con cibarie e si mette egli stesso a lanciare doni d’ogni genere; quando si accorge che il lancio ha favorito quasi esclusivamente i popolari, decide di donare cinquanta tessere annonarie a ciascuna delle tribune dei senatori e dei cavalieri (Vita di Domiziano, 4).

Un modo spettacolare di accrescere la propria fama e di lasciare una duratura impronta di sé presso i posteri consiste in una cura particolare dei lavori pubblici e in un notevole sforzo edilizio. In questo campo tutti gli imperatori, senza eccezioni, cercano di fare del loro meglio: il primato, però spetta ad Augusto, che secondo Svetonio abbellì tanto Roma, da potersi gloriare a buon diritto di lasciarla di marmo mentre l’aveva trovata di mattoni; il biografo ricorda il Foro col tempio di Marte Ultore, il tempio di Apollo sul Palatino, quello di Giove Tonante sul Campidoglio, il portico e la basilica di Caio e di Lucio, il portico di Livia e di Ottavia, il teatro di Marcello (Vita di Augusto, 29). Claudio si segnala non tanto per il numero di opere quanto per la loro imponenza: per di più si trata di opere di grande necessità, come il completamento dell’acquedotto iniziato da Caligola, le fonti dell’acqua Claudia, il prosciugamento del Fucino, la costruzione del porto d’Ostia (Vita di Claudio, 20). Lo stravagante Nerone escogita forme nuove per gli edifici: i casamenti d’affitto e i palazzi dovranno avere un portico nella parte anteriore, dai terrazzi del quale si possano meglio combattere gli incendi; vagheggia, poi, di prolungare le mura fino ad Ostia e di condurre di lì il mare sin dentro Roma (Vita di Nerone, 16). Ma sull’attività edilizia di Nerone il biografo ha le idee chiare e ritiene che in nulla egli sia stato più dannoso: cita ad esempio la domus imperiale che si estende dal Palatino all’Esquilino, con un colosso di 120 piedi nel vestibolo che rappresenta Nerone; per dare un’idea della grandeza e della magnificenza basta pensare che c’erano tre porticati lunghi un miglio, uno stagno simile a un mare, ville con vigneti, pascoli, selve, grande spreco d’oro e di perle negli edifici, sale da pranzo con soffitti di lastre d’avorio mobili perché dall’alto potessero piovere fiori e profumi, una sala principale rotonda che girava giorno e notte riproducendo il moto della terra, bagni con acqua di mare. Non contento di ciò Nerone intraprese anche la costruzione di una piscina coperta e fiancheggiata da portici da Capo Miseno sino al lago Averno e vi riversò le acque di Baia; fece scavare un canale di 60 miglia dal lago Averno sino ad Ostia, di larghezza tale che potessero incontrarsi due quinqueremi: per portare a compimento tali opere ordinò che si deportassero in Italia da qualsiasi luogo tutti i carcerati e che in futuro anche i rei di gravi colpe venissero condannati a tali lavori forzati (ibid. 31). Vespasiano eredita un’Urbe malconcia per gli incendi e per i crolli e decide di dare egli stesso l’esempio ponendosi a rimuovere i ruderi e caricandoseli sulle spalle; ma edifica anche opere nuove, dal tempio della Pace a quello del divo Claudio all’anfiteatro nel centro di Roma (Vita di Vespasiano, 8-9). Domiziano si preoccupa di restaurare grandi edifici, fra cui il Campidoglio, distrutti da incendi, ma li intitola tutti al proprio nome senza ricordare l’autore primitivo (Vita di Domiziano, 5).

Ma fu soprattutto nei sempre più complessi spettacoli che gli imperatori individuarono un’arma formidabile di organizzazione del consenso. In questo campo già Cesare fornì l’esempio, con cinque giorni di caccia alle belve e con combattimenti fra due schiere di 500 fanti, 20 elefanti e 30 cavalieri per tre giorni nel Campo Marzio (Vita di Cesare, 39). Non gli fu da meno Augusto, che anzi –secondo Svetonio– superò tutti in varietà e magnificenza degli spettacoli: diede ludi scenici quattro volte col proprio nome e ventitré con quello di altri e organizzò con particolare frequenza cacce alle belve, spettacoli atletici, naumachie, corse su carri e a piedi nel Circo; espose un rinoceronte nel Campo Marzio, una tigre sulla scena, un serpente di cinquanta cubiti nel Comizio (Vita di Augusto, 43); fra gli spettacoli, però, prediligeva il pugilato, non solo fra pugili professionisti, ma anche quello dilettantistico nei sobborghi e nei vicoli (ibid. 45). I pugili piacevano pure a Caligola, che organizzò anche ludi scenici in notturna, con illuminazione di tutta la città, e cacce alle belve che duravano dal mattino alla sera (Vita di Caligola, 18-19); però, da quel mattacchione che era, di tanto in tanto durante i ludi gladiatori faceva togliere i tendaggi che proteggevano dal sole cocente e impediva agli spettatori di uscire, presentava fiere macilente e gladiatori sfiniti dalla vecchiaia e addirittura cittadini noti per evidenti difetti fisici (ibid. 26). Di Claudio si ricordano le gare di quadrighe, le cacce di belve africane, che vedevano coinvolti pretoriani comandati da tribuni e dal prefetto in persona, e quelle di tori selvaggi ad opera di cavalieri tessali, che erano capaci di saltare sopra le bestie e, afferratele per le corna, di abbatterle a terra. Di lui si ricorda il singolare incidente durante la naumachia organizzata prima di prosciugare il Fucino: i naumachiarii, prima di dare inizio allo scontro navale, gridarono secondo la consuetudine all’indirizzo dell’imperatore: ”Salute a te, imperatore! I morituri ti salutano”. Claudio, però, rispose: “Salute a voi!” e i naumachiarii, credendo di essere stati graziati, non vollero più combattere. Solo con goffi gesti e minacce lo sciancato imperatore riuscì a convincerli a lottare (Vita di Claudio, 21). Dei moltissimi spettacoli organizzati da Nerone meritano una menzione particolare i Ludi Massimi, in cui un notissimo cavaliere romano seduto su un elefante corse su e giù in equilibrio su una fune tesa; secondo Svetonio l’imperatore avrebbe fatto combattere in Campo Marzio 400 senatori e 600 cavalieri romani; per di più un toro avrebbe montato una Pasifae rinchiusa nel legno, mentre un Icaro in carne ed ossa sarebbe stato costretto a lanciarsi nel vuoto, con inevitabile sfracellamento (Vita di Nerone, 11-12). Galba quand’era pretore diede uno spettacolo di nuovo genere, quello degli elefanti funamboli (Vita di Galba, 6). Per inaugurare il Colosseo Tito organizzò un grandioso spettacolo gratuito; oltre a naumachie e a lotte di gladiatori, presentò in un solo giorno 5000 fiere di ogni tipo (Vita di Tito, 7). Domiziano diede a getto continuo magnifici e costosissimi spettacoli nell’anfiteatro e nel Circo, dove oltre alle corse di bighe e quadrighe fece svolgere anche combattimenti equestri e pedestri; si dimostrò audace innovatore, non solo organizzando spettacoli gladiatori al lume delle torce, ma anche introducendo combattimenti fra donne (Vita di Domiziano, 4). Lo sterminio di animali rari sembra costituire un aspetto costante di questi spettacoli, e non solo di essi: Caligola, infatti, s’identifica con Giove Laziale e nel tempio costruito per celebrare il suo nume fa sacrificare in grande copia fenicotteri, pavoni, galli di montagna, galline faraone, galli d’India, fagiani (Vita di Caligola, 22).

Degli imperatori vengono anche ricordati i cimenti sportivi e gli svaghi preferiti: Augusto prediligeva il giuoco della palla; in vecchiaia si faceva portare in lettiga, ma nell’ultima parte del percorso scendeva e saltellava avvolto in una coperta; amava anche pescare con la lenza, giuocare ai dadi e con i sassolini o con le noci con i bambini (Vita di Augusto, 83). Appassionato dei dadi era soprattutto Claudio, che scrisse addirittura un libro sull’arte di giuocarvi; giuocava ai dadi anche mentre viaggiava, servendosi di una tavola adattata alla bisogna (Vita di Claudio, 33). Nerone, oltre all’irrefrenabile amore per la musica e per il canto (per cui si sottometteva a tutti gli esercizi necessari, come tenere sul petto una lastra di piombo, purgarsi con clisteri, seguire una dieta speciale), aveva la passione dei cavalli (Vita di Nerone, 20-22); convinto, poi, d’essere un grande lottatore, aveva preparato uno spettacolo in cui, nudo nell’arena dell’anfiteatro, avrebbe ammazzato un leone a colpi di clava o serrandogli il collo fra le braccia (ibid. 53). Domiziano si divertiva a sterminare con le sue frecce infallibili centinaia di capi di selvaggina; si diceva che fosse abile a tal punto, da far passare le frecce fra le dita di un fanciullo collocato lontano da lui (Vita di Domiziano, 19). È significativo che il biografo preferisca di gran lunga soffermarsi su tali aspetti dei personaggi imperiali piuttosto che analizzare il loro atteggiamento nei confronti delle lettere e dei letterati: in merito solo poche notizie vengono fornite a proposito di Augusto (Vita di Augusto, 84-86; 89), di Tiberio (Vita di Tiberio, 70), di Nerone (Vita di Nerone, 52) e di Vespasiano (Vita di Vespasiano, 18-19).

Canonica è la descrizione dell’aspetto fisico del personaggio illustrato: Cesare era d’alta statura e di colorito candido, ma si depilava ed era ossessionato dalla calvizie (Vita di Cesare, 45). Augusto era di grande bellezza, con gli occhi chiari e splendenti: aveva denti radi e piccoli, sopracciglia congiunte, orecchie regolari, naso prominente in alto, statura breve; però aveva un difetto all’anca e alla coscia della gamba sinistra, che lo costringeva a zoppicare; spesso, poi, gli si intorpidiva l’indice della mano destra; ma, soprattutto, soffriva di calcoli (Vita di Augusto, 79-80). Tiberio, di corporatura grande e robusta, con un dito della mano sinistra poteva trapassare una mela fresca; aveva il viso bello, ma deturpato dai foruncoli, e i suoi occhi grandissimi erano capaci di vedere anche nelle tenebre (Vita di Tiberio, 68). Caligola fu di alta statura, dì colorito pallido, di corpo enorme ma con collo e gambe esili, di pochi capelli ma di molta peluria (Vita di Caligola, 50). Claudio a mala pena si reggeva sulle ginocchia malferme; per di più rideva in modo scomposto e quando si adirava schiumava dalla bocca (Vita di Claudio, 30). Nerone aveva il corpo ricoperto di chiazze, i capelli biondicci, gli occhi azzurri, il collo obeso, il ventre prominente, le gambe gracili (Vita di Nerone, 51). Galba oltre ad essere calvo, col naso adunco, con le mani e i piedi distolti per la gotta, sul fianco destro aveva un’escrescenza carnosa che a fatica era contenuta in una fascia (Vita di Galba, 21). Otone era di bassa statura e portava il parrucchino (Vita di Otone 12). Vitellio oltre ad essere di sproporzionata statura, aveva il viso rosso per il troppo vino, il ventre obeso e una coscia debilitata dall’urto con una quadriga (Vita di Vitellio, 17). Mentre Vespasiano era tarchiato e di membra compatte (Vita dì Vespasiano, 20), dei suoi figli Tito, basso al pari del padre, aveva il ventre prominente (Vita di Tito, 3), mentre Domiziano era alto, ma aveva le dita dei piedi rattrappite; più tardi fu imbruttito dalla calvizie, dal pancione, dall’eccessiva magrezza delle gambe (Vita di Domiziano, 18).

Un altro aspetto privilegiato da Svetonio è quello del rapporto col cibo e col vino. Cesare era sobrio nel bere e indifferente al cibo (Vita di Cesare, 53). Frugalissimo era anche Augusto, che mangiava pane di seconda qualità, pesciolini di nessun pregio, cacio e fichi; di vino ne beveva poco, perché gli eccessi gli provocavano il vomito (Vita di Augusto, 76-77). Claudio, invece, era un mangione e un beone; si racconta che un giorno, mentre sedeva in giudizio, attratto dagli odori di un banchetto lasciò improvvisamente il tribunale; quando satollo si addormentava beatamente, gli introducevano una penna in gola perché scaricasse lo stomaco (Vita di Claudio, 33). Nerone protraeva i pasti dal mezzogiorno alla mezzanotte; quando percorreva il Tevere, venivano allestite taverne lungo le rive, nella fondata speranza che vi si fermasse (Vita di Nerone, 27). Galba era un grande mangiatore (Vita di Galba, 22) e Vitellio era a tal punto vorace, che addirittura nei sacrifici non riusciva a trattenersi e di nascosto divorava le interiora e le focacce destinate agli dei (Vita di Vitellio, 13). Domiziano mangiava molto a pranzo, ma a cena si nutriva solo di una mela; i banchetti che organizzava erano brevi e non andavano mai oltre il tramonto del sole (Vita di Domiziano, 21).

I vizi rimproverati ai pessimi principes sono quelli canonici: la follia sanguinaria, l’abiezione morale, la condotta di vita sregolata. Il prototipo del cattivo imperatore è costituito da Domiziano, di cui vengono sistemáticamente denigrate tutte le azioni: ciò rientrava, d’altronde, nella propaganda política d’ispirazione traianea, che dalla damnatio memoriae dell’ultimo dei Flavi traeva spunti per esaltare la figura di Traiano. Non è il solo Domiziano, però, ad essere presentato sotto una cattiva luce: la struttura della biografia svetoniana, imperniata sull’antitesi virtutes / vitia, finisce col fornire un duplice ritratto di ogni principe; di conseguenza anche gli imperatori “buoni”, come Vespasiano o come Tito, non vengono mai presentati sotto una luce completamente favorevole. Sono, in particolare, le abitudini sessuali degli imperatori ad essere al centro di un’imponente aneddotica.

Di Cesare si ricorda l’intima amicizia con Nicomede, re di Bitinia, e il generale dileggio che essa suscitò nei confronti del dittatore, definito ‘regina di Bitinia’, ‘concubina rivale d’una regina’; Cesare però, nella sua sfrenata libidine è indicato come corruttore di una nutrita schiera di nobili matrone romane e, per non creare odiose distinzioni, anche di maritate provinciali e di regine straniere: non solo Cleopatra, ma anche Eunoe di Mauritania (Vita di Cesare, 49-52). Anche il futuro Augusto fu accusato in giovinezza di pederastia e la propaganda politica a lui avversa divulgò la notizia che proprio lo zio fosse stato il primo a godere dei suoi favori (Vita di Augusto, 68); la sua propensione all’adulterio era ammessa, secondo Svetonio, anche dagli intimi amici, che però la giustificavano con l’intento di poter conoscere più facilmente i disegni degli avversari grazie alle confidenze delle mogli (ibid. 71). Persistette nella libidine anche in età avanzata e, a stare alle dicerie comuni, la stessa imperatrice si dava da fare per procurargli vergini da deflorare (ibid. 71).

Ben oltre si spinse Tiberio, che nel suo ritiro di Capri aveva attrezzato una camera con divani in cui costringeva torme di ragazze e di pederasti a mostruosi accoppiamenti di gruppo, in modo da poter eccitare la sua languente virilità; adornò camerette di pitture e di statue lascive, senza trascurare la presenza dei libri pornografici della poetessa Elefantide. Ma c’è di più: addestrò giovanetti in tenera età, da lui chiamati ‘pesciolini’, che mentre nuotava gli stuzzicavano in vario modo ì genitali. Sì narra pure che, invaghitosi improvvisamente di un giovane incensiere durante un sacrificio, alla fine della cerimonia stuprò lui e suo fratello e, poi, fece spezzare le gambe ad entrambi (Vita di Tiberio, 43-44). Caligola di notte si travestiva con una parrucca e con una veste lunga per potersi dare ai bagordi senza essere riconosciuto (Vita di Caligola, 11); praticò l’incesto con tutte le sorelle, in particolare con Drusilla, che stuprò quando era ancora vergine (ibid. 24): per amor di variatio non trascurò, tuttavia, neppure le matrone sposate e praticò con accanimento la pederastia (ibid. 36). Claudio, invece, fu d’immoderata libidine nei confronti delle donne, ma si astenne del tutto dai maschi (Vita di Claudio, 33).

Nerone non risparmiava nessuno, neppure i giovinetti di nascita libera, le matrone, le vestali. Fece castrare il giovanetto Sporo per trasformarlo in femmina e se lo tenne accanto come moglie, baciandolo in pubblico in abbigliamento femminile; preso da insana libidine per la madre Agrippina, sì eccitava ogni qual volta andava in lettiga con lei. Da ultimo escogitò un nuovo tipo dì divertimento erotico: coperto da una pelle di belva, balzava fuori da una gabbia e si avventava agli inguini di uomini e di donne legate ad un palo; quando era giunto al colmo dell’eccitazione, si concedeva al liberto Doriforo e imitava i lamenti delle vergini violentate (Vita di Nerone, 28-29). Galba preferiva i maschi, robusti e di età matura (Vita di Galba, 22). Otone fece carriera corteggiando una libertina quasi decrepita, che era molto vicina a Nerone, e concedendosi poi all’imperatore (Vita di Otone, 2). Vitellio trascorse la puerizia e la prima adolescenza a Capri, tra i favoriti di Tiberio, e si fece strada col commercio del proprio corpo, macchiandosi di ogni specie di sozzura (Vita di Vitellio, 4).

Vespasiano dopo la morte della moglie Flavia Domitilla prese a convivere con la liberta Cenide, che era già stata sua amante (Vita di Vespasiano, 3); quando anche Cenide morì, si consolò con le sue numerose concubine (ibid. 21). Il virtuoso Tito si circondava di pederasti e di eunuchi con cui sfogava la propria libidine, senza trascurare, però, Berenice, la figlia del re della Giudea (Vita di Tito, 7). Sommamente lussurioso fu, infine, Domiziano, per cui i coiti frequenti, a detta di Svetonio, costituivano una sorta di esercizio ginnico (Vita di Domiziano, 22).

Se la libidine è il vizio per eccellenza degli imperatori, essi non sono esenti da altre colpe. Ad Augusto veniva rimproverato l’eccessivo amore per le suppellettili preziose e per il giuoco dei dadi; dalla prima accusa seppe affrancarsi all’epoca della conquista di Alessandria, quando del tesoro regio volle per sé solo una tazza; non si preoccupò, invece, della seconda e continuò a giuocare ai dadi anche da vecchio, nei giorni festivi e non festivi (Vita di Augusto, 70-71). A Tiberio erano rinfacciati l’eccessivo amore per il vino (Vita di Tiberio, 42), l’avarizia (ibid. 46), l’odio verso i congiunti (ibid. 50-52), a Claudio l’ubriachezza e l’amore per il giuoco (Vita di Claudio, 5).

Comune a molti è l’accusa di cupidigia, di rapacità, di avidità: Cesare avrebbe fatto commercio delle cariche per pagare i suoi debiti, in Gallia avrebbe saccheggiato santuari e distrutto città solo per fare bottino, nel primo consolato avrebbe rubato 3000 libbre d’oro dalle casse dello Stato sostituendole con altrettante di bronzo (Vita di Cesare, 54). Caligola non si limitò ad imporre inauditi balzelli (ad esempio, l’ottava parte dei guadagni quotidiani ai facchini e la mercede di un incontro galante alle prostitute), ma per far denaro aprì un bordello nel palazzo imperiale e fece propaganda all’evento mandando per piazze e basiliche gli schiavi nomenclatori che invitavano giovani e vecchi (Vita di Caligola, 40-41); addirittura si dice che, degno antenato di Paperon de’ Paperoni, avesse l’abitudine di camminare a piedi nudi su enormi cumuli di monete d’oro e vi si avvoltolasse con tutto il corpo (ibid. 42). Nerone, invece, s’insinuò nei testamenti: decise che toccassero a lui i cinque sesti delle sostanze dei liberti defunti che portavano lo stesso nome gentilizio di famiglie con cui era imparentato, e che passassero al principe i beni di persone a lui sgradite; per di più si prese dai templi i doni destinati agli dèi e fuse statue d’oro e d’argento (Vita di Nerone, 32). Vitellio era sospettato d’aver sottratto e cambiato doni e arredi dei templi, e d’aver sostituito stagno e ottone a oro e argento (Vita di Vitellio 5). Vespasiano faceva incetta di merci per rivenderle ai privati a un prezzo maggiore (Vita di Vespasiano 16); di Domiziano si dice addirittura che rapinasse i beni dei vivi e dei morti, dovunque fossero, e confiscasse eredità a lui del tutto estranee (Vita di Domiziano, 12).

È soprattutto sulla crudeltà che si appuntano gli strali del biógrafo moralista. Cesare era a tal punto severo nel rispetto della disciplina domestica, che fece mettere ai ferri un panettiere colpevole di aver imbandito agli invitati un pane diverso dal suo e mandò a morte un liberto a lui carissimo, colpevole di adulterio con la moglie di un cavaliere, benché nessuno avesse sporto querela (Vita di Cesare, 48). Augusto era feroce con i vinti (Vita di Augusto, 13-17) e si rivelò particolarmente spietato all’epoca delle proscrizioni: convinto che il pretore Quinto Gallio nascondesse sotto la toga una spada e non due tavolette, lo fece torturare e, poiché non confessava nulla, lo fece uccidere dopo avergli cavati gli occhi con le sue stesse mani (Vita di Augusto, 27). Tiberio si era specializzato nell’eliminazione di congiunti (Vita di Tiberio, 53-54; 60-61); era un sanguinario sin dalla puerizia, tanto che il maestro di retorica quando lo sgridava lo chiamava “fango impastato con sangue”. In compenso era, a suo modo, un simpatico burlone: quando a Capri, mentre se ne stava in un luogo appartato, un pescatore gli offrì improvvisamente una grossa triglia, atterrito perché quell’uomo era giunto sino a lui per sentieri inaccessibili, ordinò che gli si strofinasse ben bene sulla faccia quel pesce; poiché il pescatore, mentre veniva punito, si rallegrava di non avergli offerto una grossa aragosta che pure aveva pescata, comandò che gli si straziasse il volto anche con l’aragosta. Un secolo dopo, a Capri si mostrava ancora il luogo in cui avvenivano i suoi eccidi: di lì comandava che i condannati venissero gettati in mare; sotto li attendevano uomini della flotta, addetti a sfracellare i cadaveri con pertiche e remi. Aveva anche escogitato un sadico metodo di tortura: riempiva i condannati di vino puro, poi faceva loro legare i membri perché si gonfiassero nel tormento dei legami e dell’impossibilità di orinare (ibid. 62). Caligola si preoccupò di eliminare, talora personalmente, i parenti scomodi (Vita di Caligola, 11-12); ma, risolti in tal modo i problema familiari, trovò altri campi d’applicazione per l’innata crudeltà: poiché il bestiame per le fiere destinate agli spettacoli costava troppo, fece dare ad esse in pasto alcuni condannati; se, poi, qualcuno osava criticare i suoi spettacoli, lo condannava alle miniere o a lastricare le strade; per di più costringeva i genitori ad assistere al supplizio dei figli: e si potrebbe continuare a lungo (ibid. 23; 27-28; 32; 35). Claudio faceva eseguire in sua presenza le torture e i supplizi dei parricidi; negli spettacoli dei gladiatori ordinava che si scannassero anche quelli che erano caduti a terra casualmente, per poter vedere le facce dei moribondi (Vita di Claudio, 34). Nerone diede inizio alle sue uccisioni con quella di Claudio, di cui fu complice; poi si servì del veleno per eliminare Britannico e più volte tentò di far fuori la madre, finché vi riuscì; dopo il ripudio di Ottavia, uccise con un calcio al ventre la moglie Poppea che, incinta e malata, lo aveva rimproverato d’esser tornato tardi da una gita in carrozza (Vita di Nerone, 32-35). Vitellio era incline a uccidere e a mandare al supplizio chiunque per qualsiasi motivo (Vita di Vitellio, 14); Tito si comportò con inaudita violenza quando assunse la prefettura del pretorio (Vita di Tito, 6); Domiziano, non contento di aver eliminato moltissimi senatori, escogitò un raffinato metodo di tortura, che consisteva nel mettere il fuoco sotto i genitali, e procedette sistematicamente all’amputazione delle mani dei sospetti (Vita di Domiziano, 10).

Se il potere è a tal punto precario da richiedere bagni di sangue, è ovvio che i rapporti dell’imperatore con gli eserciti acquistino un’importanza primaria: lo aveva ben capito Cesare, il cui contatto stretto e quotidiano con i soldati viene a più riprese elogiato e additato ad esempio (Vita di Cesare, 62; 65-69); Augusto si preoccupò di mantenere nell’esercito una disciplina severa (Vita di Augusto, 24-25) e la stessa cosa fece Tiberio nelle sue spedizioni militari (Vita di Tiberio, 18-19).

Ciò nonostante le biografie degli imperatori sono continuamente percorse da congiure e si concludono spesso con la morte violenta. In Svetonio la descrizione della morte costituisce sempre un pezzo di bravura e di grande tensione stilistica, a cominciare da quella, ben nota, di Cesare (Vita di Cesare, 82). Serena, conforme alla sua esistenza, fu quella di Augusto: proprio il tipo di morte che egli si era sempre augurato (Vita di Augusto, 97-99). Per Tiberio, che non riuscì a morire a Capri come avrebbe voluto, ma si spense nella villa di Lucullo, c’è il sospetto che sia stato avvelenato lentamente o che gli sia stato negato il cibo in una pausa del male o che sia stato soffocato con un guanciale (Vita di Tiberio, 73). Di Caligola viene descritta con abbondanza di dettagli truculenti l’uccisione a 29 anni, dopo quasi quattro d’impero (Vita di Caligola, 58-59). Di Claudio è ben nota la morte per un piatto di funghi avvelenati a lui propinato dalla moglie Agrippina; la variante svetoniana consiste nella possibilità di un ulteriore intervento di una minestra di farro avvelenata, visto l’esito non letale del piatto dì funghi (Vita di Claudio, 44). Nerone, quando si rende conto di non avere possibilità di salvarsi, non ha il coraggio di darsi la morte; si caccerà il ferro in gola solo quando sentirà avvicinarsi i soldati inviati per prelevarlo vivo, in modo da dargli una punizione pubblica ed esemplare (Vita di Nerone, 47-49). Galba viene scannalo presso il lago Curzio e il suo cadavere è lasciato a terra, finché un soldato non gli mozza la testa e, ficcatogli il pollice in bocca, la porta a Otone, che ne fa dono ai vivandieri e ai mozzi di stalla (Vita di Galba, 20). Dalla parte di Otone militò il padre di Svetonio, in qualità di tribuno della XIII legione; ciò spiega la singolare descrizione della morte dello sfortunato imperatore, che sembra simile a quella di un saggio stoico: Otone dapprima pensa ai parenti e agli amici e distrugge tutte le lettere che potrebbero danneggiarli; poi distribuisce il denaro ai familiari e fa entrare nella sua stanza tutti quelli che lo desiderano; infine sceglie un pugnale ben affilato, lo colloca sotto il guanciale e si addormenta profondamente; al risveglio si trafigge con un solo colpo al cuore (Vita di Otone, 10-11). Vitellio, invece, si barrica nella cella del portiere del palazzo imperiale ormai deserto; ma viene scoperto e invano implora che gli salvino la vita; con le mani legate dietro la schiena e un capestro al collo, lacero e seminudo, viene trascinato nel Foro lungo la via Sacra, con una spada posta sotto il mento che lo costringe a mostrar bene il viso a tutti. Poi viene fatto a pezzi con minutissimi colpi e il cadavere è trascinato nel Tevere con un uncino (Vita di Vitellio, 16-17). Vespasiano, colto da febbre in Campania, fa ritorno a Roma, con le viscere distrutte dall’uso inconsulto e frequente di acqua gelida: quando una violentissima diarrea gli fa capire che è giunta per lui la fine, prende a gridare che un imperatore deve morire in piedi, ma mentre tenta di alzarsi esala l’ultimo respiro fra le braccia dei presenti (Vita di Vespasiano, 24). Tito, in preda alla febbre, muore nella stessa villa dov’è già morto il padre Vespasiano, dopo essersi lamentato di aver commesso in vita un unico atto dì cui debba pentirsi; egli porta, però, nella tomba un segreto, e Svetonio può solo aggiungere che secondo alcuni si sarebbe trattato di una relazione con la cognata (Vita di Tito, 9-10). Domiziano viene eliminato in una congiura ordita dagli amici, dai liberti e addirittura dalla moglie (Vita di Domiziano, 14-17). Ogni morte viene regolarmente preceduta da inequivocabili presagi infausti, così come chiari presagi fausti avevano preceduto l’ascesa al sommo potere.

Il criterio di giudizio a cui s’ispira la biografia svetoniana è legato, come quello della storiografia dell’epoca, all’ideologia senatoria: non a caso gli imperatori sui quali l’autore esprime un giudizio meno negativo sono proprio quelli che si mostrarono più tolleranti con la nobilitas, gli stessi che in época traianea vennero definiti boni principes; invece erano considerati pessimi principes coloro che avevano accentuato il regime dispotico e dato il via alle persecuzioni nei confronti della nobilitas. Se l’impostazione generale delle biografie svetoniane corrisponde sostanzialmente alla tradizione nobiliare sul principato, vi sono, tuttavia, differenze anche sensibili che fanno assumere a Svetonio una posizione diversa da quella di Tacito. La maggior parte delle discordanze di giudizio è determinata dalla diversa estrazione sociale: Svetonio era un cavaliere che aveva fatto carriera nell’amministrazione, ma non apparteneva né all’aristocrazia di sangue né a quella di denaro; spesso, quindi, i suoi giudizi erano condizionati dalla politica dei singoli imperatori nei confronti del ceto equestre. Al pari dei nobili, i cavalieri erano irritati per lo strapotere dei liberti ed aspiravano a ricoprire le cariche che i Cesari avevano loro affidato: questa particolare posizione dei cavalieri fa sì che Svetonio giudichi sotto una luce non del tutto sfavorevole Domiziano, che aprì agli equites i pubblici uffici; i suoi vitia sono certamente enormi e il biografo non li nasconde: tuttavia di lui è messa in luce la perizia nell’amministrazione e nella cura degli affari dello Stato. Le contraddizioni presenti nelle biografie svetoniane (analogo è il caso di Claudio, anch’egli presentato come un sagace amministratore e accusato, poi, di essere un docile strumento nelle mani delle mogli e dei liberti) ci illuminano sull’esistenza di una tradizione storiografica diversa da quella nobiliare e non del tutto sfavorevole ai Cesari, perché influenzata dalla politica equilibrata degli imperatori verso il ceto equestre e verso la borghesia cittadina: per quanto inficiata dal gusto dell’aneddotico, quella di Svetonio è una testimonianza per noi preziosa, perché ci dà modo di valutare gli imperatori senza dipendere esclusivamente dalla tradizione della classe che essi perseguitarono.

Notas

1 Resumen de la Dirección de la revista.

2 Oltre a Leo (1901), sul genere biografico cf. Dorey (1967) e i contributi raccolti nel volumen di Gallo-Nicastri (1995).

3 Su Cornelio Nepote si veda la rassegna bibliografica di Jenkinson (1973). Le migliori edizioni critiche moderne sono quelle di E. Malcovati (Torino, 19643) e di P.K. Marshall (Leipzig, 1977), mentre il commento migliore resta quello, ormai vetusto, di L. Nipperdey e K. Witte (Berlin, 1913, XI ediz.); il Marshall è anche autore di uno studio fondamentale sulla tradizione manoscritta (1977). Fra gli studi vanno ricordati quelli di Alfonsi (1942-1943; 1956); Stark (1957); Geiger (1985); Dionisotti (1988). Di notevole importanza sono i saggi di Labate-Narducci (1981) e di La Penna (1981), pubblicati nel volume curato da Giardina-Schiavone (1981). Fondamentale, infine, è l’introduzione di Narducci (1986: 5-27).

4 Narducci (1986: 24).

5 Qui e in seguito il testo di Cornelio Nepote viene citato nella traduzione di Carlo Vitali (Milano, 1986).

6 “Parlava il greco come se fosse nato in Atene, ma d’altra parte quando parlava in latino aveva un modo così armonioso di esprimersi che si capiva subito che ciò era frutto di grazia spontanea e non acquisita. E declamava poesie in greco e in latino in modo da non lasciar desiderare di meglio.”

7 “Egli intervenne, prestò il denaro senza interessi e senza contratto, persuaso che il guadagno più grande consisteva nel riconoscimento del suo animo memore e grato; dava così anche prova che egli era amico degli uomini e non della fortuna.”

8 “Non si diede altra cura che di essere d’aiuto a quanti più poteva, in tutti i modi. Mentre il popolaccio dava la caccia ai proscritti, allettato dalle ricompense promesse dai triumviri, nessuno di coloro che avesse cercato rifugio in Epiro ebbe a patire per la mancanza di qualche cosa: tutti ebbero la possibilità di stabilirvi il proprio domicilio fisso; anzi, dopo la battaglia di Filippi e dopo la morte di Caio Cassio e di Marco Bruto, prese sotto la sua protezione Lucio Giulio Mocilla, ex-pretore, il figlio di lui e Aulo Torquato e quanti altri erano stati colpiti dalla stessa sorte; e dall’Epiro fece giungere loro a Samotracia tutto quello di cui avevano bisogno.”

9 “Con il mostrarsi generoso a questo modo non incontrò inimicizie, perché non recava danno a nessuno; e se pativa torti da qualcuno preferiva dimenticarli che ritorcerli. Non cancellava mai dalla memoria il bene ricevuto, di quello fatto agli altri si ricordava solo fino a che il beneficato se ne mostrava grato. Egli insomma ha dimostrato quanto sia vero il detto: “A ciascuno la propria sorte foggiano i propri costumi”.

10 “Alla sua tavola nessuno udì altri allettamenti che la voce del lettore, che pare anche a me la cosa più piacevole; non si pranzava mai in casa sua che non si leggesse qualche cosa, di modo che i convitati avessero modo di ricrearsi non solo nel palato, ma anche nella mente; e appunto invitava quelli che la pensavano come lui.”

11 Cfr. anche le sentenze formulate con frasi brevi e incisive nella Vita di Pelopida, 3. 1 (“A questo punto mi vien fatto di inserire –anche se non ha stretto rapporto con l’argomento– una osservazione sul gran danno che può derivare da una eccessiva fiducia” e nella Vita di Eumene, 1. 1 (“Dobbiamo misurare la grandezza degli uomini dal merito e non dal successo”).

12 Le edizioni critiche più affidabili dell’Agricola sono quelle di J.G.C. Andresen e H. Furneaux (Oxford, 1922), di C. Halm e G. Andresen (Leipzig-Berlin, 1923), di E. Koestermann (Leipzig, 1970³), di R. M. Ogilvie (Oxford, 1975). Fra i commenti si segnalano quelli di R. Till (Berlin, 1961; Darmstadt, 19844), di R.M. Ogilvie e I. Richmond (Oxford, 1967). Studi sull’Agricola: Grosso (1954); Büchner (1964); Cizek (1968); Lanciotti (1974); Ramondetti (1974); Lenaz (1990): sue sono le traduzioni qui citate dell’Agricola.

13 Syme (1967: 44-46).

14 L’edizione migliore del De vita Caesarum di Svetonio resta quella di M. Ihm, C. Suetoni Tranquilli De vita Caesarum, Leipzig, 19332 (la I ediz. è del 1907), a cui sì può affiancare quella di H. Ailloud (Paris, 1954-1957²). Fra i numerosissimi commenti alle singole vite ricordiamo quelli di M.A. Levi alla biografia di Augusto (Firenze, 1951), di G. Guastella a quella di Caligola (Roma, 1992), di K.R. Bradley a quella di Nerone (Bruxelles, 1978), di P. Venini a quelle di Galba, Otone, Vitellio (Torino, 1977) e di A.W. Braithwaite a quella di Vespasiano (Oxford, 1927). Fra gli studi di carattere generale sull’opera svetoniana si segnalano quelli di Steidle (19632), di Della Corte (19672), di Baldwin (1983); sulla struttura del De vita Caesarum, cf. Venini ( 1975); Cizek (1977).

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Fecha de recepción: 27-02-13
Fecha de aceptación: 27-02-13

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