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Argos

versión On-line ISSN 1853-6379

Argos vol.37 no.1 Ciudad Autónoma de Buenos Aires jul. 2014

 

ARTÍCULOS

L'occhio indiscreto del biografo (seconda e ultima parte)

 

Paolo Fedeli

Università di Bari

p.fedeli@ria.uniba.it

 


Resumen

Una puesta a punto erudita y crítica acerca del género biográfico en Roma, de Cornelio Nepote al Tácito biógrafo, de Suetonio a los escritores de la Historia Augusta.

Palabras clave. Biografía; Nepote; Tácito; Suetonio; Historia Augusta.

Abstract

A learned and critical update about biographical genre in Rome, from Cornelius Nepos to Tacitus the biographer, from Suetonius to the authors of the Historia Augusta.

Keywords. Biography; Nepos; Tacitus; Suetonius; Historia Augusta.


 

5. L' Historia Augusta

Il 'Leitmotiv' degli storici pagani del IV secolo è quello della decadenza dell'impero, da essi attribuita a cause diverse, dalla scarsa qualità degli imperatori all'imbarbarimento progressivo della compagine statale, dalla brutalità degli eserciti alla rapacità dei funzionari statali e allo sfacelo della cultura. In realtà a vibrare il colpo di grazia a un mondo in piena crisi fu Costantino, che con la decisione di fare del cristianesimo la religione di stato, abbandonò al suo destino la religione tradizionale e sostituì i valori del passato, non più condivisi da tutti i popoli dell'impero, con nuovi e diversi valori. La storiografia si unisce agli altri generi letterari della cultura pagana nell'esprimere la propria concezione della crisi e talora non manca di lucidità nell'indicare le cause della decadenza; incapace, tuttavia, di proporre soluzioni adatte a costituire una valida difesa dei valori di cui si considera portatrice, si limita a condannare il presente e a vagheggiare il passato, senza mai prendere atto del profondo e irreversibile mutamento dei tempi.

Alle opere storiche che il IV secolo ci ha tramandato appartiene una raccolta di trenta biografìe imperiali, da Adriano a Numeriano (117-284 d.C.), nota sotto il nome di Historia Augusta. Essa comprende anche brevi biografie dei Cesari (in questo caso si tratta di personaggi destinati alla successione, che tuttavia non raggiunsero mai il sommo potere) e di alcuni usurpatori. L'opera non ci è giunta completa, perché mancano le biografie imperiali degli anni 244-253, da Filippo l'Arabo alla prima parte del regno di Valeriano. Pare proprio, poi, che siano andate perdute le biografie di Nerva e di Traiano, perché è molto probabile che la Historia Augusta si sia proposta di riprendere le biografie imperiali là dove le aveva lasciate Svetonio1.

La tradizione manoscritta identifica i biografi in sei autori, che sarebbero vissuti fra la fine del III e l'inizio del IV secolo: Giulio Capitolino, Elio Sparziano, Elio Lampridio, Trebellio Pollione, Flavio Vopisco, Volcacio Gallicano. Sin dalla fine del XIX secolo, tuttavia, a partire dagli studi di Hermann Dessau la critica non ha cessato di formulare serie riserve sulla paternità e sulla datazione dell'opera, rilevando numerose incongruenze all'interno di essa: per di più i sei autori presentano singolari somiglianze sia nello stile sia nel modo di organizzare la materia. Si è supposto, dunque, che dietro nomi diversi si nasconda un unico autore, anche se è difficile spiegare perché mai egli si sia comportato in modo da far apparire le biografie come l'opera di più scrittori. Controversa è anche l'epoca di composizione, per la presenza di accenni ad episodi di gran lunga posteriori all'epoca di Diocleziano e di Costantino: in alcuni casi sembra certa la dipendenza dall'opera di Aurelio Vittore, scritta nella seconda metà del IV secolo.

Si è pensato, di conseguenza, a un anonimo falsario, che avrebbe scritto l'opera al tempo di Giuliano l'Apostata, l'imperatore che si fece portavoce della reazione pagana al cristianesimo; c'è chi propende, invece, per un'epoca di composizione ancor più tarda, durante il regno di Teodosio (allorché con Simmaco si ebbe una intensa ripresa della cultura pagana) o nei primi decenni del V secolo, posteriore cioè di circa un secolo all'epoca a cui le biografie si riferiscono: la falsificazione mirerebbe a conferire una maggiore attendibilità al testo retrodatato. Taluni studiosi, come Ronald Syme, ritengono che l'ignoto falsario abbia seguito nella prima parte una fonte importante e attendibile, dalla quale avrebbe attinto notizie e documenti fededegni; nella seconda, invece, avrebbe lavorato senza un valido supporto, supplendo con la propria fantasia alla mancanza di documentazione. C'è poi chi, come Arnaldo Momigliano, ritiene che le divergenze fra le varie parti dell'opera siano da imputare alla diversità degli autori, alcuni dei quali dimostrerebbero abilità e perizia, al contrario di altri, che apparterrebbero alla categoria dei retori fantasiosi. C'è infine chi ritiene che anacronismi, incongruenze, confusioni, invenzioni rappresentino una intenzionale parodia della storiografia ufficiale, di cui le biografie accentuerebbero i difetti, esagerandoli.

Le biografie sono modellate secondo la tecnica svetoniana, con gli episodi esemplari raggruppati per categorie di vizi e virtù e con l'accento posto sui particolari curiosi e lascivi, sull'aneddoto e sulle chiacchiere, sugli aspetti secondari delle personalità dei protagonisti. I grandi problemi politici e sociali non attirano l'attenzione dell'autore (se di un solo autore si tratta), che tiene invece presenti pregi e difetti, virtù e vizi, doti umane e nefandezze. Un grave problema è rappresentato dall'affidabilità delle notizie e dei documenti citati: mentre per gli imperatori sino a Caracalla gli episodi descritti sembrano attendibili e, comunque, sono confermati da altre fonti, a partire da Settimio Severo l'impostazione delle biografie cambia radicalmente ed esse abbondano di notizie false e di documenti inventati di sana pianta. Sotto questo aspetto, col modo di procedere di Svetonio esistono non solo analogie, ma anche sensibili differenze: analogie, perché deriva da Svetonio la citazione di ben 150 documenti, spesso lunghi e complessi, all'interno delle biografie; differenze, perché Svetonio citava documenti autentici, ai quali aveva facile accesso grazie all'incarico ricoperto a corte.

Nonostante il loro scarso valore storico le biografie dell'Historia Augusta costituiscono per noi una testimonianza preziosa dell'atteggiamento delle classi elevate nei confronti degli imperatori del III secolo: l'ideologia filosenatoria risulta evidente dalla simpatia con cui sono trattati gli imperatori che hanno mantenuto buoni rapporti col senato o quelli che vantano origini aristocratiche. Il più lodato è Aurelio Probo, definito uomo insigne in pace e in guerra, migliore di tanti altri imperatori perché le doti di ognuno di loro si troverebbero riunite in lui. È significativo che Probo sia stato un imperatore filosenatorio: al senato, infatti, egli mantenne i privilegi acquisiti e ad esso delegò il diritto di appello nei processi civili e penali. Analogo è il caso dei Gordiani, gli imperatori africani contrapposti al rozzo Massimino il Trace, che perfino nel volto avrebbero palesato le loro virtù; oppure di Tacito, il principe che si vantava di discendere dal grande storico: secondo il biografo, egli è la prova della capacità da parte del senato di scegliere gli uomini migliori.

Nemici del biografo sono, invece, gli homines novi, in particolare i cavalieri, gli eserciti e gli imperatori che li favorirono. Tendenziosità e disprezzo caratterizzano i ritratti degli imperatori soldati o provenienti dai ceti subalterni: di Settimio Severo si dice che è rimasto famoso solo perché ha avuto successori peggiori di lui, mentre Massimino il Trace, di origine barbara, è rappresentato come un gigante ridicolo, brutale e ingordo, tutto muscoli e niente cervello. Identici sono gli atteggiamenti verso i soldati, considerati elemento di disordine e causa di non pochi danni per l'impero: l'ostilità nei loro confronti si concretizza nelle lodi sperticate dell'imperatore Probo, che aveva promesso un secolo d'oro in cui eserciti e guerre non sarebbero stati necessari (Vita di Probo 22). La plebe è sistematicamente rappresentata come vorace, corrotta e incapace di discernere i buoni dai cattivi principi; non diversi sono i sentimenti di ostilità nei confronti dei barbari, tutti degni d'essere sterminati, e verso le religioni orientali, cristianesimo incluso, considerate un elemento di corruzione della tradizione romana. Su tutto domina la fede nel dominio di Roma sul mondo, nell'invincibilità dei suoi eserciti e soprattutto nella capacità del senato, che anche nelle ore più buie per l'impero si rivela in grado di designare imperatori all'altezza della situazione.

L'Historia Augusta va adoperata con somma cautela come fonte di ricostruzione storica; è probabilmente rischioso, però, considerarla come un'opera che si propone di incidere sulle coscienze dei lettori con sentimenti filosenatori, antipopolari, antireligiosi: di contro sembra proprio che il suo autore l'abbia concepita come un'opera d'intrattenimento, destinata a soddisfare il desiderio di evasione e la curiosità del pubblico a cui era diretta. Come ha osservato Bettini,

vista in questa prospettiva, su cui ha insistito una notevole linea degli studiosi moderni (...), l'Historia Augusta merita una valutazione diversa da quella che un tempo la condannava con toni moralistici come scandalosa impostura e mistificazione storiografica. Essa nasce come opera programmaticamente non storiografica: l'autore più volte rigetta l'alto impegno anche stilistico che un simile compito richiederebbe. Muove da quel particolare terreno storico che è la biografia, per andare poi alla deriva verso l'intrattenimento e il divertissement erudito-romanzesco. E in questo suo assetto fra serio e ludico riflette gli interessi disimpegnati dei lettori del tempo (in particolare di quell'aristocrazia un po' fatua di cui parla Ammiano) e gli orizzonti mentali della cultura letteraria e scolastica di fine IV secolo. S'impone così alla nostra attenzione come preziosa testimonianza di un gusto e di una mentalità: come figlia del suo tempo -;hanno scritto Hohl e Syme-; 'sebbene illegittima'2.

6. Il modo di procedere: le virtù e i vizi degli imperatori

L'impianto svetoniano dell'opera è evidente nell'ordinamento del materiale per categorie, avulse dal rispetto cronologico degli avvenimenti: c ome si è detto, lo schema di base prevede che di ogni personaggio vengano elencati i legami familiari, i presagi del potere imperiale, la vita da privato cittadino e da imperatore, l'attività in pace e in guerra, le circostanze della morte e i relativi presagi; elementi costanti sono anche la descrizione dell'aspetto fisico e l'individuazione di vizi e virtù, con un'inevitabile prevalenza dell'elemento biografico ed aneddotico.

La giornata dell'imperatore ideale è tratteggiata nei capitoli 29-31 della Vita di Alessandro Severo: se non aveva d omito c on l a moglie (cioè in caso di astinenza sessuale), al risveglio l'imperatore celebrava un sacrificio nel tempietto dei Lari; in caso contrario girava in carrozza, passeggiava o si dava alla caccia e alla pesca; poi si dedicava all'amministrazione degli affari pubblici, accontentandosi quasi sempre di ratificare le decisioni prese dagli amici fedeli, da lui collocati nei posti di maggiore responsabilità. Successivamente si immergeva nella lettura di opere greche (soprattutto della Repubblica di Platone) e latine (in particolare dei trattati filosofici ciceroniani); esaurito il tempo destinato alla lettura si esercitava nella lotta, nel giuoco della palla, nella corsa e faceva il bagno, usando solo molto raramente acqua calda; uscito dal bagno consumava in abbondanza latte, pane, uova e beveva vino melato. Nel pomeriggio si dedicava alla lettura e alla corrispondenza: gli scrivani e gli archivisti gli rileggevano ogni documento, in modo che egli potesse intervenire di sua mano. Dopo essersi occupato della corrispondenza faceva entrare gli amici e con loro s'intratteneva affabilmente. I suoi banchetti serali erano caratterizzati da seri conversari fra uomini di cultura: se, invece, pranzava da solo, sulla tavola teneva aperto un libro e lo leggeva.

Degli imperatori viene normalmente descritto, sia pur sommariamente e con rapidi tratti, l'aspetto fisico. Solo raramente esso riflette una maestosa solennità, consona alla somma carica: è questo il caso di Adriano3, che "era alto di statura, di aspetto distinto, con i capelli sempre ben pettinati e la barba fluente per coprire cicatrici che aveva sul viso fin dalla nascita, e di costituzione robusta" (Vita di Adriano 26.1); o di Pertinace, "vecchio dall'aspetto venerando, con una lunga barba, i capelli crespi, un po' grasso di corporatura, leggermente panciuto, ma regale nella figura" (Vita di Pertinace 12.1); o di Settimio Severo, che "era bello, imponente, portava la barba lunga, aveva i capelli bianchi e crespi, un volto che ispirava rispetto, la voce armoniosa, ma con un certo qual accento africano che conservò sino alla vecchiaia" (Vita di Settimio Severo 19.9); o di Aureliano, "di aspetto elegante e fine, di bellezza virile, piuttosto alto di statura, di fortissima muscolatura" (Vita di Aureliano 6.1). Anche Lucio Vero "era un uomo di bella presenza, dal volto amabile, con la barba lunga pressoché all'uso barbaro, alto di statura"; la sua fronte accigliata incuteva rispetto: però era un frivolo, talmente fiero della sua bionda chioma da cospargerla costantemente di polvere d'oro perché irradiasse riflessi dorati (Vita di Vero 10.6-7).

Queste, però, sono eccezioni, di fronte alla caratterizzazione negativa della maggior parte degli imperatori: Commodo, ad esempio, aveva "un'ernia inguinale sviluppata al punto che la gente poteva riconoscerne il gonfiore attraverso le vesti di seta" (Vita di Commodo 13.1); per di più il suo volto ebete era quello tipico degli ubriaconi (ibid. 17.3). Difetti di poco conto, questi, a confronto del gigantismo di Massimino il Trace, che secondo i calcoli del biografo era alto circa due metri e mezzo, e per di più "aveva un pollice così grosso che poteva usare come anello il braccialetto di sua moglie"; dotato di forza smisurata, "era in grado di trascinare un carro a quattro ruote a forza di braccia, di muovere da solo una carrozza carica di gente, di buttare giù i denti a un cavallo tirandogli un pugno, o di spezzargli i garretti sferrandogli un calcio, di frantumare pietre di tufo, di spaccare in due piante non troppo annose" (Vita dei due Massimini 6.8-9). Claudio il Gotico non gli era inferiore in quanto a vigore fisico:

di statura, elevata, con occhi scintillanti, volto largo e pieno, -;aveva le dita di una tale robustezza-; che spesso scagliando un pugno ebbe a buttar giù i denti a cavalli e muli. Proprio una cosa di questo genere aveva compiuto quando era ancora un giovane soldato, cimentandosi in una gara fra tutti i lottatori più forti, nel corso di uno spettacolo in onore di Marte nel Campo. Infatti, adiratosi contro uno che lo aveva afferrato non per la cintura, ma per i genitali, gli cacciò giù con un sol pugno tutti i denti.

Una reazione, la sua, non propriamente imperiale, che però -commenta il biografo- gli fu scusata perché dettata dal desiderio di vendicare l'offesa recata al proprio pudore (Vita del divo Claudio 13.5).

Il possesso di doti positive, com'è ovvio, non è contemplato per tutti, ma solo per quegli imperatori ai quali va la simpatia del biografo. Adriano si segnalava per la straordinaria memoria: infatti (Vita di Adriano 20.10-11)

era in grado, senza far ricorso al nomenclatore, di salutare con i loro nomi -;che pure aveva uditi una sola volta e tutti insieme-; un gran numero di persone, al punto da correggere i frequenti errori dei nomenclatori stessi. Sapeva elencare anche i nomi dei veterani che in varie occasioni aveva congedato. Libri letti in un momento, e prima a lui sconosciuti, li ripeté a memoria a moltissime persone. Era capace di scrivere, dettare, ascoltare e conversare con gli amici, tutto nel medesimo tempo.

Adriano, però, sapeva anche essere affabile coi sudditi (ibid. 20.1) e a ragione attribuiva una grande importanza al rapporto con i soldati, fornendo egli stesso l'esempio di un comportamento improntato a grande rigore (ibid. 10.2-4):

li istruiva dando loro prova di come si dovesse resistere alla fatica, conducendo egli stesso, a mo' di esempio, una vita da soldato tra i manipoli, e accettando inoltre di buon grado di mangiare, all'aperto, i cibi distribuiti ai soldati, cioè lardo, formaggio e acqua mista ad aceto; (...) era capace di marciare, con le armi indosso, anche per venti miglia; eliminò dall'accampamento, facendoli demolire, triclini, portici, passaggi coperti, aiuole.

Settimio Severo si dedicò con grande impegno agli studi di filosofia e d'eloquenza (Vita di Settimio Severo 18.5). Molto più consistenti erano i meriti di Alessandro Severo, a tal punto infiammato dal desiderio di giustizia, che "se mai vedeva qualche giudice ladro, aveva già pronto il dito per cavargli un occhio". Provava un disgusto tale per i giudici sospettati di malversazioni, "che se per avventura gli capitava di vederli, per il gran turbamento che ne provava giungeva a vomitar bile tutto infiammato in volto, cosi da non riuscire ad articolar parola" (ibid. 17.1-2); per di più detestava gli adulatori (ibid. 18.1) ed aveva un gran rispetto per tutti, umili inclusi (ibid. 20.1).

Antonino Pio, a stare al biografo, era un condensato di virtù (Vita di Antonino Pio 2.1-2):

aveva intelligenza fuori del comune, lucida eloquenza, cultura letteraria di prim'ordine; era uomo sobrio, dedito con passione all'esercizio dell'agricoltura; mite, generoso, rispettoso dei beni altrui: e tutte queste virtù le praticava con equilibrio e senza ostentazione; insomma, in tutti i campi il suo comportamento si mostrò degno di lode, e tale che giustamente la sua figura -;a giudizio delle persone più degne-; fu paragonata a quella di Numa Pompilio.

Ma questo è niente a confronto delle doti impareggiabili di Claudio il Gotico, che regnò solo due anni (268-270) ma "avrebbe potuto regnare per tutto il tempo che può durare la vita umana" (Vita del divo Claudio 2.1): "che cosa infatti vi è in lui -;si chiede il biografo-; che non sia degno di ammirazione? Che cosa, che non abbia a risaltare? Che cosa, che non lo ponga al di sopra dei personaggi che celebrarono il trionfo nei tempi più antichi? In lui erano presenti la virtù di Traiano, la bontà di Antonino, la moderazione di Augusto e le qualità dei grandi sovrani" (ibid. 2.2-3): è probabile che a provocare lodi talmente esagerate abbiano contribuito in maniera decisiva le scelte operate da Claudio il Gotico, che si batté strenuamente contro i barbari e governò con la collaborazione del senato.

Ad Alessandro Severo spetta la palma del buon governo, per la sua abile politica: di lui si ricordano le ampie franchigie accordate ai mercanti, le facilitazioni inserite nei contratti matrimoniali, l'attività edilizia, il rispetto nei confronti dei Giudei e la tolleranza dei Cristiani, la deferenza verso le cariche religiose, la saggia politica di contenimento dei prezzi, l'ascolto prestato alle lagnanze dei soldati nei confronti dei superiori, l'allontanamento degli eunuchi dal proprio servizio, l'utilizzazione per spese di pubblica utilità dei proventi delle tasse imposte a lenoni, prostitute, omosessuali (Vita di Alessandro Severo 22-24).

Antonino Pio viene elogiato per il contenimento della spesa pubblica, che cercò di limitare in ogni modo, a cominciare dalla propria mensa, da cui fu bandito ogni spreco. Privò del salario i molti che lo ricevevano senza far nulla, a cominciare dal poeta lirico Mesomede, e non intraprese viaggi se non per visitare i suoi poderi, "giacché diceva che risultava troppo gravoso per i provinciali doversi fare carico di tutto il seguito di un imperatore, anche se di costumi molto frugali" (Vita di Antonino Pio 7.11). Ma, soprattutto, egli assurge a modello di saggezza e di moderazione, doti che trovano elogi costanti nella sua biografia. Non gli è da meno Marco Aurelio (Vita di Marco Aurelio 12.1):

nei rapporti col popolo si comportava non diversamente da quanto si faceva quando lo Stato era libero, e diede in tutto prova di grandissimo equilibrio, nel distogliere il popolo dal male e nell'incitarlo al bene, nel remunerare con abbondanza, nel dare la libertà con larghezza di vedute.

Pochissimo spazio è riservato a doti culturali, quali l'amore per gli studi e per le lettere; fanno eccezione, com'è ovvio, Adriano, filelleno per eccellenza, e Marco Aurelio, l'imperatore filosofo: il primo "fu iniziato con particolare profondità allo studio delle lettere greche, rivelandovi un'inclinazione naturale così spiccata, che parecchie persone lo chiamavano 'il Grechino'" (Vita di Adriano 1.5); quando rivestì la carica di questore, gli capitò addirittura di essere deriso per aver letto in senato un discorso dell'imperatore con una pronuncia latina approssimativa: "Si impegnò allora nello studio delle lettere latine sino ad acquistare una grande perizia e facondia" (ibid. 3.1). Marco Aurelio aveva la filosofia nel sangue (Vita di Marco Aurelio 2.6):

Infatti, appena compiuti gli undici anni, fece proprio il modo di vestirsi e poi la stessa capacità di sopportazione tipica del filosofo, abituandosi a studiare tutto ravvolto nel mantello e a dormire per terra; anzi, sua madre dovette faticare per riuscire a convincerlo a sdraiarsi su di un giaciglio fatto di pelli.

Grazie alla filosofia Marco Aurelio riuscì a raggiungere una serenità interiore tale, "che non mutava mai l'espressione del volto né in seguito a dolori né a gioie, seguace com'era dei principi della filosofia stoica, quali non solo aveva appreso alla scuola di tutti i migliori maestri, ma aveva raccolto lui stesso da ogni possibile fonte" (ibid. 16.5).

Tuttavia, a parte questi esempi insigni, gli altri imperatori letterati sono rarissime eccezioni, che stanno a testimoniare un disinteresse ormai diffuso del sommo potere nei confronti della cultura: si salva Gordiano il Giovane, intimo amico di Sereno Sammonico, che alla morte lo lasciò erede della sua imponente biblioteca: cosa che "lo innalzò ai sette cieli, ché, avuto in dono una biblioteca di tale vastità ed eccellenza raggiunse, grazie al lustro delle lettere, la fama tra gli uomini" (Vita dei tre Gordiani 18.2). Per parte sua l'imperatore Tacito sfruttò l'omonimia col celebre storico per vantare una supposta parentela con lui: ne fece collocare in tutte le biblioteche le opere e, per evitare che andassero perdute, di ognuna fece fare dieci copie a cura dello Stato, da porre nelle biblioteche (Vita di Tacito 10.3). Nonostante l'età avanzata era in grado di leggere "testi scritti in caratteri minutissimi e non lasciava passare mai notte senza scrivere o leggere qualcosa, ad eccezione del giorno successivo al primo del mese" (ibid. 11.8). Infine Numeriano, che regnò solo fra il 283 e il 284, sin da giovanetto tenne pubbliche declamazioni, scrisse trattati di oratoria e compose versi che oscurarono la fama dei contemporanei (Vite di Caro, Carino, Numeriano 11.2-3).

Un atteggiamento di sana demagogia serve a più di un imperatore per ingraziarsi i favori popolari: in tale campo non c'è nulla di più efficace di una politica improntata all'assistenzialismo. Adriano si distinse anche in ciò, condonando un'infinità di debiti contratti dai privati col fisco, sia in Italia sia nelle province, trasferendo dal suo patrimonio al pubblico erario i beni dei condannati, accrescendo notevolmente i sussidi destinati da Traiano ai fanciulli e alle fanciulle, assegnando larghe sovvenzioni a quanti dovevano ricoprire una carica pubblica, offrendo a donne bisognose i sussidi necessari per il loro sostentamento (Vita di Adriano 7.6-11). Non furono da meno né Alessandro Severo, che "per tre volte elargì al popolo un congiario, e donativi ai soldati; distribuì razioni di carni al popolo. Ridusse al quattro per cento l'interesse annuo degli usurai, in questo venendo anche incontro ai bisogni delle persone prive di mezzi" (Vita di Alessandro Severo 26.1-2), né Aureliano che, per accrescere la sicurezza dei cittadini, diede ordine che venissero bruciati nel Foro di Traiano i registri dei debiti nei confronti dello Stato. Ben poca cosa, certo, se la si paragona al progetto grandioso di distribuire gratuitamente al popolo romano non solo l'olio, il pane e la carne di maiale, ma addirittura il vino per una durata illimitata, prelevandolo -;in cambio di condizioni di favore-; da grandi appezzamenti di terreno in Etruria (Vita di Aureliano 48.2-3):

era già stato fatto il calcolo dei recipienti, delle botti, delle navi e dei lavori necessari. Ma molti affermano che Aureliano fu messo preventivamente nell'impossibilità di attuare il suo piano, altri che incontrò l'opposizione del suo prefetto del pretorio che, a quanto dicono, avrebbe esclamato: "Se diamo al popolo romano anche il vino, ci manca solo che gli regaliamo anche polli e oche!".

In altra occasione, però, il prodigo imperatore aveva bellamente raggirato gli speranzosi e fiduciosi sudditi: in partenza per l'Oriente, infatti, "aveva promesso al popolo corone di due libbre, se fosse ritornato vincitore; ma, mentre la gente se le aspettava d'oro, e lui invece tali non poteva o voleva darle, le fece fare di pane, del tipo che oggi chiamiamo siligineo, e le fece distribuire a ciascun cittadino" (ibid. 35.1).

Anche Gallieno, che il biografo descrive, diversamente dalle altre fonti, come un miserabile ingordo, "teneva buono il popolo mediante elargizioni; e al senato, sedendo in assemblea, fece distribuire ricchi doni. Invitò nel proprio consiglio delle matrone e, al momento in cui gli baciavano la mano, donò a ciascuno quattro aurei col suo nome" (Vita dei due Gallieni 16.6).

Eliogabalo, almeno, era più fantasioso: infatti "in occasione della sua investitura a console, i doni di cui fece distribuzione al popolo perché se li contendesse non furono monete d'argento e d'oro, o dolci o piccoli animali, ma buoi grassi, cammelli, asini e cervi: e andava dicendo che questo era un gesto da vero imperatore" (Vita di Eliogabalo 8.3); si sforzò, tuttavia, di essere imparziale (ibid. 32.9):

in un solo giorno fece il giro di tutte le meretrici del Circo, del teatro e dell'anfiteatro, e di tutti i luoghi pubblici della città, coprendosi con un cappuccio da mulattiere per non essere riconosciuto: si limitava però con tutte a donare delle monete d'oro senza richiedere alcuna prestazione erotica, dicendo: "Che nessuno lo sappia: questo regalo viene da Antonino".

L'amore per gli spettacoli del circo, che costituivano un grande momento di aggregazione e molto contribuivano all'organizzazione del consenso, è comune a molti imperatori: Adriano, in particolare, indisse giuochi pubblici in quasi tutte le città visitate; in Atene allestì uno spettacolo con mille fiere, a Roma fece uccidere bestie feroci in gran numero, tra cui più volte cento leoni, e assistette spesso alle lotte fra gladiatori (Vita di Adriano 19.2-8). Antonino Pio "organizzò spettacoli in cui fece comparire elefanti, sciacalli, tigri e rinoceronti, e anche coccodrilli e ippopotami, e, insieme con le tigri, ogni sorta dì animali provenienti da ogni parte del mondo. Presentò anche cento leoni in una volta sola" (Vita di Antonino Pio 10.9). Eliogabalo era un gran mattacchione (Vita di Eliogabalo 23.1):

si dice che organizzasse spettacoli navali nel Circo in canali riempiti di vino, e che facesse innaffiare i mantelli della gente con essenza di vite selvatica, che abbia guidato sul Vaticano quattro quadrighe di elefanti, distruggendo alcune tombe che ostruivano la via, che in occasione di uno spettacolo privato nel Circo abbia aggiogato ai carri persino quattro cammelli per volta. Si racconta inoltre che, dopo aver raccolto, servendosi dell'opera di alcuni sacerdoti dei Marsi, dei serpenti, li fece spargere all'improvviso una mattina presto, quando la gente era solita recarsi in gran numero ad assistere ai giochi, e molti rimasero vittima dei morsi dei rettili e del fuggi fuggi generale.

Anche il virtuoso Marco Aurelio "nell'organizzazione di spettacoli pubblici si mostrò tanto generoso da presentare insieme in una sola volta cento leoni, che vennero uccisi a colpi di frecce" (Vita di Marco Aurelio 17.7): tuttavia, fedele al suo ruolo d'imperatore filosofo, durante gli spettacoli scriveva e leggeva con superiore noncuranza (ibid. 15.1). Era tutto l'opposto del fratello Lucio Vero che, tifoso sfegatato della fazione dei Verdi, al circo si comportava come gli odierni ultras della curva nord e durante le gare veniva ricoperto d'insulti dai sostenitori degli Azzurri: a Volucre, il cavallo dei Verdi, faceva mangiare uva passa e noci al posto della biada; l'amava tanto, che quando morì gli fece costruire una tomba in Vaticano (Vita di Lucio Vero 6.1-2). Eliogabalo non si perdeva neanche una fase dei giuochi: all'ora di pranzo si faceva imbandire la mensa sulla parte più alta dell'anfiteatro e di lì assisteva compiaciuto alle lotte cruente fra i condannati e ai combattimenti con le bestie feroci (Vita di Eliogabalo 25.7-8).

Memorabili ludi circensi furono organizzati da Claudio il Gotico, che già nell'anno della sua edilità diede a proprie spese uno spettacolo al mese, in cui lottarono talora sino a 500 coppie di gladiatori; in un giorno solo esibì cento leoni libici e in un altro mille orsi (Vita del Divo Claudio 11.5-6). Secondo il biografo, ai suoi tempi uno di quegli spettacoli memorabili era raffigurato in un dipinto, in cui si potevano contare "duecento cervi con le corna ramificate in forma di mano assieme a quelli della Britannia, trenta cavalli selvaggi, cento pecore selvatiche, dieci alci, cento tori di Cipro, trecento struzzi di Mauritania tinti di rosso, trenta onagri, centocinquanta cinghiali, duecento stambecchi, duecento daini. Tutti questi animali li lasciò in preda al popolo il giorno dello spettacolo, il sesto che egli dava" (ibid. 11.7-8). Probo, in occasione del trionfo sui Germani e sui Blemmi, organizzò nel Circo una caccia colossale, in cui tutte le prede erano destinate al popolo (Vita di Probo 19.2-8):

alberi robusti, divelti alle radici dai soldati, furono infissi in un'intelaiatura di travi unite insieme, distesa per ogni dove, su cui poi furono gettate zolle di terra, così che tutto il Circo, disseminato di piante come un bosco, si coprì di foglie, grazie a quell'insolita verzura. Furono poi introdotti per ogni porta mille struzzi, mille cervi, mille cinghiali; poi daini, stambecchi, pecore selvatiche e quanti altri animali erbivori si erano potuti allevare o catturare. Infine fu dato libero accesso al popolo e ciascuno si portò via ciò che volle. Un altro giorno, nell'Anfiteatro, presentò in una sola volta cento leoni criniti, che con i loro ruggiti levavano un fragore di tuono. Ma tutti questi vennero abbattuti da tergo non offrendo certo, con la loro uccisione, un grande spettacolo; non c'era infatti in essi quell'impeto che solitamente è proprio delle belve allorché escono fuori dalle gabbie; ne furono anzi uccisi a colpi di frecce molti che non volevano farsi sotto. Vennero poi introdotti cento leopardi della Libia e successivamente cento della Siria; inoltre cento leonesse e trecento orsi insieme; ma lo spettacolo costituito da queste belve fu certamente più grandioso che appassionante. Da ultimo vennero presentate trecento coppie di gladiatori, tra le quali combattevano molti Blemmi, che erano stati fatti sfilare in trionfo, molti Germani e Sarmati, nonché alcuni predoni isaurici.

Simili stermini di animali esotici dovevano essere frequenti: al tempo di Gordiano III, che regnò dal 238 al 244 d.C., c'erano a Roma trentadue elefanti, dieci alci, dieci tigri, sessanta leoni e trenta leopardi addomesticati, dieci iene, sei ippopotami, un rinoceronte, dieci orsi e dieci giraffe, venti onagri, quaranta cavalli selvatici e altri animali rari. Filippo l'Arabo, che succedette a Gordiano III quando questi fu eliminato dai suoi soldati, li fece uccidere tutti in occasione dei Ludi Secolari (Vita dei tre Gordiani 33.1-3).

Ben diverso doveva essere il comportamento degli stessi imperatori nei confronti degli animali domestici: Adriano, ad esempio, amava a tal punto cavalli e cani, da erigere per loro dei sepolcri (Vita di Adriano 20.12). Eliogabalo, per parte sua, aveva la passione del domatore (Vita di Eliogabalo 28.1-4):

era capace di aggiogare al cocchio quattro grossi cani e di girare a quel modo all'interno della reggia, come aveva fatto, quando era ancora un privato cittadino, nei suoi poderi. Si fece vedere in pubblico anche guidando quattro grandi cervi. Aggiogò al suo carro anche leoni, facendosi chiamare Gran Madre. Aggiogò anche tigri, prendendo allora il nome di Libero: e assumeva sempre i medesimi atteggiamenti in cui vengono solitamente raffigurate le divinità che imitava. Volle avere a Roma quei serpentelli egiziani che laggiù chiamano 'geni benevoli', e inoltre degli ippopotami, un coccodrillo e un rinoceronte, e tutte quelle specie esotiche egizie che, per le loro caratteristiche, si potevano far venire. Talvolta servì a cena carne di struzzo.

Gli imperatori, però, non fanno solo da spettatori, ma talora assumono il ruolo di protagonisti negli spettacoli: Caracalla uccise spesso cinghiali e, in un'occasione, un leone (Vita di Caracalla 5.9); Commodo fu un tipico esempio d'imperatore-gladiatore: non si limitò, infatti, ad uccidere belve nel Circo -;come poi avrebbe fatto Caracalla (Vita di Commodo 8.5)-; dando prova di una forza inaudita (ibid. 13.3), che gli permise di abbattere addirittura degli elefanti; secondo il biografo partecipò addirittura a 735 combattimenti di gladiatori, vincendoli tutti (ibid. 12.10-12). Massimino il Trace, invece, era specialista nella lotta, dove riportava facili successi grazie alla gigantesca corporatura (Vita dei due Massimini 2.5-7; 3.3-5). Firmo, usurpatore africano del potere imperiale dal 372 al 374 d.C., oltre a divorare uno struzzo al giorno, si dedicava alle gare di forza e "riusciva a sostenere senza cedimenti persino un'incudine collocatagli sopra il petto e su cui altri battevano, mentre lui, piegato all'indietro in posizione supina e inarcata, poggiando sulle mani, più che sdraiato a terra stava come sospeso" (Vite di Firmo, Saturnino, Proculo e Bonoso 4.3); non disdegnava, però, altre e ben diverse contese, come quando vinse la gara del vino tracannandone due secchi (ibid. 4.4). Si diceva addirittura che nuotasse in mezzo ai coccodrilli e fosse capace di guidare un elefante, di cavalcare un ippopotamo e di andare in groppa a grandi e velocissimi struzzi (ibid. 6.2).

Adriano (Vita di Adriano 13.3-6; 17.8-9) e Settimio Severo (Vita di Settimio Severo 17.4) preferivano i viaggi e il turismo. Li animava un desiderio autentico di conoscere terre e genti nuove: ben diversamente da Commodo, che "finse di voler intraprendere anche un viaggio in Africa, per spillare i soldi per il viaggio, e ottenutili, li spese invece in banchetti e a giocare ai dadi" (Vita di Commodo 9.1). Più innocenti erano gli svaghi di Alessandro Severo (Vita di Alessandro Severo 41.5-7):

si divertiva moltissimo nel veder giocare cagnolini con porcellini, o lottare fra loro le pernici, o svolazzare su e giù degli uccellini. E in realtà aveva a Palazzo un genere di divertimento che lo rallegrava immensamente e lo sollevava dalle preoccupazioni per gli affari di governo: si era fatto costruire delle voliere per pavoni, fagiani, galli, anatre, e anche pernici, animali che gli piacevano moltissimo, e soprattutto per colombi, dei quali si dice avesse fino a ventimila esemplari.

Esemplare, come al solito, fu la condotta di Marco Aurelio, che pure talvolta si era lasciato indurre ad andare a caccia, a recarsi a teatro, a presenziare agli spettacoli: certo, egli "amava il pugilato, la lotta, la caccia, l'uccellagione, eccelleva nel gioco della palla e praticava la caccia. Ma da tutte queste attività lo distolse lo studio della filosofia, che diede al suo carattere un'impronta di serietà e austerità" (Vita di Marco Aurelio 4.9).

Atto collettivo per eccellenza e momento di aggregazione conviviale, per i Romani -;come già per i Greci-; il banchetto non era solo destinato al bere e al mangiare, ma costituiva anche uno spettacolo: nei simposi imperiali, poi, l'imperatore metteva in mostra tutto se stesso e il proprio cosmo. Non stupisce, quindi, che di sobrietà nei conviti si parli solo per Alessandro Severo, i cui banchetti "non furono mai né sontuosi né troppo modesti, ma all'insegna di una squisita finezza" (Vita di Alessandro Severo 37.2). D'altronde Alessandro Severo si era preoccupato di fissare la razione giornaliera di vino e di pane destinata alla sua mensa; erano previste anche trenta libbre di carne e due polli. Solo nei giorni di festa si concedeva qualche licenza, ammettendo l'oca e il fagiano. Nei pranzi quotidiani non mancavano mai né carne di lepre né frutta in abbondanza (ibid. 37.3-12). Fra gli imperatori frugali possiamo annoverare anche Antonino Pio, la cui mensa presentava "un aspetto di abbondanza senza indulgere a deprecabili sprechi" (Vita di Antonino Pio 7.5), Settimio Severo che era quasi del tutto vegetariano (Vita di Settimio Severo 19.8), Tacito che si cibava di pollo con cervella e uova e tutt'al più faceva grandi scorpacciate di lattuga (Vita di Tacito 11.2), Gordiano il Giovane che terminava il pranzo in un attimo (Vita dei tre Gordiani 19.1-2), Didio Giuliano che, se qualcuno gli mandava una porchetta o una lepre, la faceva durare per tre giorni e si contentava di cenare con verdure e legumi (Vita di Didio Giuliano 3.9).

Lo spreco a tavola, però, era la regola. Di Lucio Vero restò famoso il banchetto in cui ammise ben dodici commensali, contravvenendo al detto 'in sette è un banchetto, in nove un parapiglia'; per di più egli donò ai presenti tutti gli schiavetti che servivano, stoviglie e calici, coppe preziose, vasi dorati con unguenti ed esemplari vivi di tutti gli animali, di cui erano state imbandite le carni (Vita di Lucio Vero 5.1 -5). Nulla al confronto della spensierata munificenza del solito Eliogabalo, che ai commensali offriva in dono eunuchi, quadrighe, cavalli bardati, lettighe, carrozze, monete d'oro e argento (Vita di Eliogabalo 21.7) e, di solito, non spendeva per le sue cene meno di centomila sesterzi (ibid. 24.3). I suoi banchetti, poi, erano aperti alle più imprevedibili stranezze (ibid. 30.2-4):

nel corso di una sola cena con molte portate fece servire le teste di seicento struzzi, perché se ne mangiassero le cervella. A volte fece allestire un banchetto in cui v'erano ventidue portate stracolme di vivande, ma tra l'una e l'altra sia lui sia gli amici dovevano prendere un bagno e possedere donne, il tutto sotto giuramento che ne ricavavano piacere. Non meno singolare fu un altro banchetto che programmò in modo tale che le singole portate venissero apparecchiate ciascuna a casa di un amico.

Organizzò simposi estivi intonati ai vari colori (ibid. 19.2), fece servire piatti enormi di fegatini di triglia, cervelli di fenicottero, uova di pernice, cervella di tordo, teste di pappagallo, di fagiano e di pavone (ibid. 20.6); le perle, poi, le usava al posto del pepe per condire pesci e tartufi (ibid. 21.4).

Si divertiva anche a organizzate ricchissime lotterie fra i convitati (ibid. 22.1), buontempone come sempre (ibid. 21.1):

teneva tra i suoi oggetti di trastullo anche dei leoni e dei leopardi ammansiti che, ammaestrati da domatori, faceva all'improvviso saltare sui divani dinante la seconda o la terza mensa, divertendosi a spaventare i commensali.

A confronto di tali stranezze impallidiva il ricordo dei conviti di quel fantasioso di Antonino Geta, ispirati di volta in volta a una lettera dell'alfabeto, sicché le vivande dovevano cominciare tutte con quella lettera (Vita di Antonino Geta 5.7-8). Di spaventosa voracità era Clodio Albino, usurpatore del potere imperiale dal 193 al 197: di lui si dice che a digiuno divorava cinquecento fichi secchi, cento pesche campane, dieci meloni di Ostia, venti libbre di uva, cento beccafichi, quattrocento ostriche (Vita di Clodio Albino 11.2). Massimino il Trace beveva ogni giorno almeno 20 litri dì vino e mangiava fino a quaranta libbre di carne (Vita dei due Massimini 4.1); non gli era da meno Firmo, che consumava uno struzzo al giorno; in compenso era quasi astemio (Vite di Firmo, Saturnino, Proculo, Bonoso 4.2). Un vero beone, invece, era Bonoso, il quale era dotato della qualità stupefacente di riuscire ad evacuare tutto quello che aveva bevuto; quando, vinto da Probo, s'impiccò, si disse che dalla corda non pendeva un uomo, ma un'anfora (ibid. 14.5-15.2).

Quelle di Commodo, invece, erano stranezze tipiche di un depravato: sì divertiva a mescolare sterco umano a cibi comuni, che non aveva alcun ritegno ad assaggiare per indurre gli altri a mangiarli; una volta fece portare su un enorme vassoio due gobbi cosparsi di senape, che subito dopo promosse a qualche carica e colmò di doni (Vita di Commodo 11.1-3). I suoi scherzi erano sempre di raffinata crudeltà: se qualcuno aveva in mezzo alla chioma nera qualche capello bianco che potesse assomigliare a piccoli vermi, gli piazzava sulla testa uno storno, in modo che questo credesse di dare la caccia ai vermi e gli beccasse a sangue il capo (ibid. 10.4-6); ma era anche un precursore del sadico dottor Mengele, visto che fece squarciare la pancia a un ciccione, perché le budella uscissero fuori tutte insieme, e di solito prendeva gusto a cavar sangue alle persone con ferri micidiali (ibid, 10.5; 11.7). Al suo confronto diventava un gentiluomo persino Eliogabalo, che si divertiva a tavola facendo accomodare i convitati su cuscini ad aria, che venivano sgonfiati a poco a poco, sicché gli sventurati finivano per mangiare sotto la tavola (Vita di Eliogabalo 25.2); oppure offriva ai parassiti cene con cibi di cera, di legno, d'avorio, di creta, di marmo, di pietra (ibid. 25.9) o mandava loro vasi pieni di rane, di scorpioni, di serpenti e di mosche (ibid. 26.7-8); quando era in vena, poi, prometteva agli amici donne fantastiche e poi li rinchiudeva in camera, per tutta la notte, con vecchiette etiopi di ripugnante bruttezza (ibid. 32.5).

Quello della crudeltà degli imperatori costituisce un capitolo a parte, difficile da scrivere per la parzialità del biografo: a stare a lui non ne sarebbero rimasti indenni neppure Adriano, Alessandro Severo e Settimio Severo. Commodo cominciò a palesare le sue tendenze sin dalla fanciullezza, quando trovando a Centocelle troppo tiepida l'acqua del bagno, ordinò di gettare nella fornace l'addetto ai bagni; in quella circostanza gli andò male, perché il suo pedagogo, astuto e misericordioso, "fece bruciare nella fornace una pelle di castrato per fargli credere, dal fetore del fumo, che la punizione era stata eseguita" (Vita di Commodo 1.9).

Ma la reggia imperiale gronda di sangue, a stare al biografo, che fornisce al lettore anche una motivazione della crudeltà dei principi allorché si sofferma su quella di Aureliano e cerca di giustificare il loro comportamento tirando in ballo l'esempio del saggio Diocleziano (Vita di Aureliano 43.1-4):

Ci si domanda invero che cosa sia a rendere i principi malvagi: prima di tutto, amico mio, il loro potere illimitato, poi la grande disponibilità di mezzi, e inoltre gli amici disonesti, il loro seguito di individui detestabili, gli avidissimi eunuchi, i cortigiani o stupidi o spregevoli e, ciò che non si può negare, l'ignoranza delle cose di Stato. Ma io ho udito narrare da mio padre che l'imperatore Diocleziano, quando era già ritornato un privato, affermò che nulla è più difficile che governare bene. Si mettono assieme in quattro o cinque e si accordano su un piano per trarre in inganno l'imperatore e vanno a dirgli a che cosa deve dare il suo assenso. L'imperatore, che rimane chiuso nel suo Palazzo, non conosce la verità. Egli è posto in condizione di non sapere altro se non quanto gli dicono quelli, e in tal modo finisce per creare dei funzionari che non meriterebbero di essere eletti, e per allontanare dalle cariche dello Stato persone che dovrebbe invece mantenervi. Che dire di più? Come affermava lo stesso Diocleziano, anche un sovrano buono, accorto, integerrimo finisce per essere fatto oggetto di mercato.

È, però, la libidine imperiale il vizio su cui il biografo si sofferma con sguardo particolarmente compiaciuto, tanto che si ha l'impressione dì trovarsi di fronte a una schiera di degenerati, che alle cure dello Stato anteponevano sistematicamente i piaceri dell'alcova: fatta eccezione, beninteso, per il castissimo Pescennio Nigro che "si asteneva completamente da rapporti sessuali se non in funzione procreativa" (Vita di Pescennio Nigro 6.6), e per l'altrettanto casto Alessandro Severo, "moderato nei piaceri sessuali, e così alieno da rapporti con omosessuali che (...) ebbe l'intenzione di proporre una legge per abolire la prostituzione maschile" (Vita di Alessandro Severo 39.2).

La lista è impietosa: l'apre Adriano, che "nei piaceri sensuali non conosceva misura: e molti componimenti in versi scrisse sulle persone oggetto dei suoi amori" (Vita di Adriano 14.9). Non si accontentò di accordare i suoi favori ad Antinoo, ma ebbe continue relazioni con uomini adulti e con matrone (ibid. 11.7). Lucio Vero "si acquistò una cattiva fama non solo per la dissipatezza di una vita vissuta con troppa libertà di costumi, ma anche per aver commesso adulteri e praticato rapporti omosessuali con giovani" (Vita di Lucio Vero 4.4). Commodo "sin dalla prima fanciullezza fu corrotto, disonesto, crudele, libidinoso, e pervertito e violentato persino in rapporti orali" (Vita di Commodo 1.7); nel Palazzo raccolse donnine allegre, creando un vero e proprio lupanare (ibid. 2.8), e "aveva tra i suoi oggetti di piacere degli uomini chiamati col nome delle pudende di entrambi i sessi, ai quali profondeva i suoi baci con particolare trasporto. Teneva anche con sé un uomo dal pene prominente oltre misure animalesche, cui aveva dato il nome di Onos, e che gli era quanto mai caro" (ibid. 10.8-9). Pertinace, da vecchio, era dedito alla pedofilia (Vita di Pertinace 7.9), mentre Clodio Albino "con le donne era amatore di prim'ordine, sempre alieno invece da rapporti contro natura" (Vita di Clodia Albino 11.7). Gordiano il Giovane "era un grande amatore: si racconta infatti che avesse ventidue concubine a lui assegnate, da ognuna delle quali ebbe tre o quattro figli. Fu così chiamato il Priamo del suo tempo, ma fra il popolo, in relazione al fatto che era di natura particolarmente dotato, erano soliti chiamarlo non Priamo, ma Priapo" (Vita dei tre Gordiani 19.3-4). Gallieno, "nato per l'ingordigia e la sensualità, dissipò i suoi giorni e le sue notti nel vino e negli stupri" (Vita dei due Gallieni 16.1). Proculo si vantava in una lettera di essersi fatte in una notte dieci vergini sarmate e cento in quindici giorni (Vite di Firmo, Saturnino, Proculo, Bonoso 12.7). Carino era "uomo sconcio quant'altri mai, adultero, abituale corruttore di giovani (...) ed egli pure incline ad un uso pervertito del suo sesso" (Vite di Caro, Carino, Numeriano 16.1).

Anche in questo campo Eliogabalo merita un discorso a parte; nei suoi confronti il biografo è categorico e sbotta indignato (Vita di Eliogabalo 5.1-5):

Chi avrebbe potuto sopportare un imperatore che aveva fatto di ogni orifizio del suo corpo uno strumento per indulgere ad ogni sorta di libidine, dal momento che neppure in una bestia sarebbe ammissibile tutto ciò. In breve, a Roma non si premurò d'altro se non d'incaricare dei suoi emissari di cercargli uomini superdotati e di portarglieli alla reggia, onde poter godere di quei loro eccezionali attributi. Amava inoltre mettere in scena nella reggia il dramma di Paride, sostenendo lui stesso la parte di Venere, così che ad un certo punto lasciava cadere all'improvviso le vesti ai suoi piedi, e, rimasto nudo coprendosi con una mano le mammelle e con l'altra le pudende, si inginocchiava lasciando sporgere in alto il di dietro, girato proprio di fronte ai suoi partners di depravazione. Atteggiava poi il volto nella medesima espressione in cui viene raffigurata Venere nei dipinti, con tutto il corpo depilato, considerando come il più gran risultato che potesse raggiungere nella propria vita l'essere giudicato adeguato e atto a soddisfare la libidine del maggior numero possibile di persone.

Amante del realismo, nelle rappresentazioni teatrali di scene di adulterio Eliogabalo volle che esse fossero effettivamente compiute (ibid. 25.4). Per le donne, se si eccettua la moglie, aveva una vera repulsione: si limitò a creare a corte bordelli destinati agli amici, ai clienti, ai servi (ibid. 613). In compenso "faceva sempre il bagno con le donne, e le massaggiava egli stesso con un unguento depilatorio, lui pure trattando la sua barba con l'unguento, e -;ciò che dovrebbe far vergogna solo a dirlo-; lo stesso che veniva usato per il trattamento femminile, e nello stesso momento" (ibid. 31.5-7).

7. Dagli antichi ai moderni

Il genere letterario della biografia, dopo aver mosso i primi passi nel mondo greco e latino, ha attraversato trionfalmente i secoli4 e oggi viene disinvoltamente praticato dagli autori più diversi: non mancano ì fantasiosi calunniatori, che potremmo avvicinare all'altrettanto fantasioso autore della Historia Augusta, ma nei più seri la ricerca della verità appare un presupposto irrinunciabile. A giustificazione dell'atteggiamento dei biografi antichi si può ripetere che per loro il genere praticato non doveva essere confuso con la storiografia: una posizione, questa, che nei moderni non ha più ragion d'essere. Su un punto sostanziale, però, ci sembra che l'antica biografia continui ad essere superiore alla moderna: si tratta addirittura del modo di narrare e di costruire un racconto avvincente, che proprio per tale sua qualità finisce per apparire plausibile. È raro, invece, che lo stile dei biografi moderni si distacchi da una giornalistica piattezza, tanto lontana dall'accorto atteggiamento dei biografi antichi, che sorretti da una perfetta conoscenza delle leggi e degli artifici della retorica sapevano sedurre, e continuano a sedurre, i loro lettori.

Non mancano, ancor oggi, le lodevoli eccezioni: ma non a caso le troviamo proprio nei tentativi di ricostruzione della biografia di personaggi del mondo antico, a proposito dei quali le fonti offrono ampia materia per l'invenzione di racconti o per l'esercizio della parodia. Non sorprende che una figura, come quella di Eliogabalo, maltrattata dalle fonti che si occupano prevalentemente delle sue depravazioni, reali o frutto d'invenzione, in campo sessuale e trascurano gli aspetti della sua attività politica, abbia suscitato l'interesse di Antonin Artaud, prima (il suo Héliogabale ou l'anarchiste couronné è del 1934) e di Alberto Arbasìno poi, autore nel 1969 di un Super-Eliogabalo, che appartiene agli esempi di ripresa del classico come parodia e pastiche. Nel romanzo di Arbasino l'imperatore depravato è collocato in un mondo che è antico e moderno al tempo stesso, in cui egli transita con la sua dignità imperiale, con le sue quattro mamme premurose, col suo corteo di accompagnatori: un Eliogabalo che, moderna proiezione di un personaggio antico ormai consegnato alla storia, conosce già le sue vicende e il suo destino (conosce, addirittura, l'Héliogabale di Artaud) e non può far altro che subirli. Anche questo Eliogabalo ha le sue manie e i suoi hobbies, talora raffinati: a tavola dialoga con i busti di Marco Aurelio, Settimio Severo, Clodio, Verre, Catilina e Annibale; teme, chiaroveggente, l'imminente collusione fra Grecia classica e cristianesimo. Legge tutto ciò che lo riguarda: non solo Artaud, ma anche Cassio Dione e la biografia tramandata dall'Historia Augusta: ma, quel che è significativo, la legge come se fosse un rotocalco pieno di pettegolezzi, e ride, ride, ride continuamente. Certo, la testimonianza di Cassio Dione ci fa capire che il biografo della Historia Augusta non aveva tutti i torti nell'indugiare sull'omosessualità di Eliogabalo: ma probabilmente il suo accanimento nel fare di lui un mostro di depravazione, creando così quell'immagine certamente parziale e ampiamente distorta che è stata consegnata alla storia, è conseguenza diretta del rifiuto del tentativo di orientalizzazione dell'impero, che Eliogabalo aveva tenacemente perseguito. Il moderno Eliogabalo, quello affidato alla storia, non può far altro che accettare gli ormai radicati pettegolezzi nei suoi confronti, ma in quella risata convinta è racchiusa la sua tardiva rivincita sulle deformazioni del biografo.

Notas

1. L'edizione critica migliore degli Scriptores Historiae Augustae è quella di E. Hohl (Leipzig 19652; la I ediz. è del 1927), rivista da C. Samberger e da W. Seyfarth; particolarmente importante è l'ampia introduzione di P. Soverini alla sua traduzione, accompagnata da note di commento (Torino 1983). Fra i lavori di carattere generale va ricordata in primo luogo la raccolta dei Bonner Historia Augusta Colloquia, a partire dal 1964. Fra i contributi complessivi cfr. Syme (1968; 1971; 1983). Sui controversi problemi di paternità e datazione, dopo i fondamentali articoli di Dessau (1889; 1892), cfr. soprattutto Mommsen (1890), Peter (1892), De Sanctis (1896), Momigliano (1960), Syme (1971; 1972), Marriot (1979). Sulle fonti cfr. Barnes (1978); su problemi generali di caratteri storico-antiquario si veda Condorelli (1965).

2. Bettini (1995: 675).

3. Qui e in seguito i testi vengono forniti nella traduzione di Paolo Soverini (Torino 1983).

4. Un efficace sguardo d'insieme è ora fornito da Giarrizzo (1995: 297-307).

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Fecha de recepción: 12-07-13
Fecha de aceptación: 12-07-13

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